Giovedì 21 maggio 2015
“Quando ho varcato il cancello del carcere, alla periferia di Blantyre, mi sono sentito come in un altro mondo. Tutti quei giovani vestiti di bianco che camminavano da un muro all’altro. Volti tristi. Inespressivi. Qualcuno con lo sguardo rivolto a terra come in cerca di qualcosa che aveva perduto. Altri che studiavano i movimenti delle guardie. Altri ancora che parlavano sotto voce per paura di essere ascoltati. Il mio sguardo si ferma su un gruppo di giovani che con il loro pentolino stavano facendo la fila per ricevere la razione di cibo giornaliera”. Padre Tiziano Laurenti, un comboniano italiano da più di 35 anni in Malawi, racconta così la sua prima visita nella prigione di Chichiri. Oggi è cappellano di sette carceri nel sud del paese.


"Cappella
del carcere"
.
 

In Malawi sono 20 i luoghi di detenzione con una popolazione carceraria che si aggira tra i 12.000 e 13.000 detenuti. Il problema principale è il sovraffollamento. “Le carceri sono sovrappopolate – dice padre Tiziano – e le celle sono praticamente grandi dormitori dove non tutti hanno la fortuna di sdraiarsi sul pavimento per dormire, ma molti dormono seduti appoggiando la testa sulle proprie ginocchia e così, schiacciati l’uno contro l’altro, si trasmettono con facilità malattie come la tubercolosi”. Nelle carceri è forte la presenza dei minori. Ufficialmente le prigioni dove sono rinchiusi sono tre: Mikuyu, Bvumbwe e Kachere. “Parlando con loro – dice padre Tiziano – mi sono convinto che tanti di questi ragazzi potrebbero essere a casa e prendersi cura delle loro famiglie. Sembra che i magistrati giudichino questi ragazzi con troppa superficialità. Ci sono addirittura casi di giovani innocenti, in prigione a scontare la pena di un loro fratello che la polizia non è riuscita ad arrestare”. Secondo il missionario, non esistono suddivisioni tra chi è in carcere per la prima volta e i recidivi. “Quelli che sono in attesa di processo e chi sta scontando la pena – sottolinea padre Tiziano – vivono insieme con l’unica differenza che i primi non possono mai uscire, se non quando viene la polizia a prelevarli, mentre i secondi partecipano alle varie attività del carcere”.

In Malawi c’è un solo carcere di massima sicurezza, quello di Zomba, costruito dagli inglesi. Ci sono i reparti per le donne, i condannati a morte, gli ergastolani, i recidivi, i malati mentali, coloro in attesa di processo e coloro che entrano in prigione per la prima volta. Il numero totale dei detenuti sfiora i 3000. I prigionieri condannati a morte sono 30 e molti di loro non hanno ancora avuto la possibilità di una revisione del loro processo da parte della Corte suprema del Malawi. Da molti anni non ci sono esecuzioni in Malawi, ma la pena di morte è contemplata nel codice penale e in certi casi i giudici ancora la infliggono.

Sempre la stessa domanda

In cammino da un carcere all’altro padre Tiziano si pone sempre la stessa domanda. Si chiede se la giustizia esista davvero. “Ho l’impressione – dice – che in Malawi la giustizia per i poveri significhi il carcere, mentre i ricchi, non appena arrivano in prigione, pagano enormi somme di denaro e ottengono di uscire sotto cauzione. Chi entra in carcere non è più considerato una persona degna di rispetto; tutto concorre a umiliarlo e a far crollare la fiducia in se stesso. Spesso, contrariamente alle norme, i detenuti sono assegnati a carceri lontani dalle loro famiglie; in questo modo i carcerati sono allontanati anche dall’affetto dei loro cari che, per motivi economici, non possono visitarli. E così progressivamente questi carcerati vengono dimenti- cati da tutti”.

Il missionario ricorda che il sistema giudiziario in Malawi  è lento, corrotto  e senza risorse. “Le indagini preliminari – dice – lasciano molto a desiderare. Gli avvocati d’ufficio sono pochi, con materiale scarso e retribuzioni poco allettanti; di conseguenza, con l’eccezione dei casi di omicidio, la gente comune va in tribunale senza un difensore. Nei casi di omicidio l’avvocato vede la persona che deve difendere poco prima di entrare in aula, senza che ci sia stato alcun incontro preliminare, pare a causa della mancanza di fondi. I processi per omicidio vengono messi in agenda solo quando il governo riceve sussidi sufficienti per pagare avvocati, giudici, segretari e la loro trasferta sul luogo del delitto. Si può attendere anche per 10 anni. Attualmente nel carcere di Chichiri c’è una donna che è detenuta dal 14 settembre 2004 per concorso in omicidio. E’ però certo che non ha ucciso lei, ma che sa chi è stato. Gli altri due imputati, lo zio e il marito, sono usciti anni fa su cauzione. Quattro anni fa è stato celebrato il processo, ma ancora oggi il giudice non ha emesso la sentenza; l’attesa dura da dieci anni”.

Un altro problema è che spesso non si trovano i documenti. “All’Alta corte di Blantyre – racconta il missionario – i fascicoli sono irreperibili e quindi la gente non può chiedere l’appello per mancanza di documentazione. E’ da un anno che insisto perché trovino il fascicolo di tre sorelle condannate all’ergastolo”.

Saper ascoltare

La presenza di padre Tiziano, insieme a un laico e a una religiosa, vuole essere un modo per dimostrare amicizia nei confronti dei detenuti. Spendendo tempo con loro, ascoltando i loro problemi. Cercando soluzioni. “Dove è possibile – sottolinea il missionario – stabiliamo contatti con la famiglia del detenuto che spesso non sa più dove e come rintracciare il proprio caro. Offriamo anche opportunità per la riabilitazione dopo il rilascio alla fine della pena”. “Durante il tempo trascorso in carcere – continua padre Tiziano – diamo a tutti la possibilità di frequentare sia la scuola primaria che la secondaria all’interno dell’istituto. È un impegno che ci sta particolarmente a cuore nel carcere minorile. Quanto alle donne, siamo interessati alla loro promozione attraverso varie iniziative di lavoro di gruppo”. Nelle carceri ci sono anche problemi e sfide da affrontare sul piano sanitario. “In tutte le prigioni – sottolinea il missionario – abbiamo un’attenzione particolare ai malati, in particolare di aids e tubercolosi, ai quali distribuiamo regolarmente cibo proteico per migliorare la scarsa razione giornaliera di cibo che dà il carcere”.

In questa attività è importante anche l’aspetto di fede. “Ai cattolici e a chi liberamente desidera pregare con noi – dice padre Tiziano – portiamo anche il conforto della fede in Dio pregando con loro e tenendoli così in contatto con la comunità dei credenti al di fuori del carcere”.

“Il regalo più grande che si possa fare a un detenuto – conclude il missionario – è un pezzo di sapone per lavarsi e lavare anche la sua divisa. Il governo sembra essersi dimenticato che i carcerati sono persone umane, la cui dignità deve essere rispettata nonostante la loro colpa. Al termine della pena, se è necessario, procuriamo anche un paio di pantaloni e una camicia a chi esce definitivamente dal carcere aggiungendo i soldi del trasporto affinché possano raggiungere i loro villaggi e le loro famiglie dignitosamente”.(MISNA).