Mercoledì 23 marzo 2016
Nel contesto dell'Anno della Misericordia P. Carmelo Casile, comboniano, ha cercato di aggiornare e mettere assieme una serie di riflessioni che aveva preparato con lo scopo di purificare la sua immagine di Dio e aiutare a fare altrettanto soprattutto i giovani che andava incontrando durante il tempo in cui è stato a servizio del loro cammino formativo come missionari comboniani. “Dio ha voluto parlarci da uomo a uomo in Gesù, Suo Verbo eterno fatto uomo, per mostrarci il suo vero volto: volto di amore di un Dio Padre che è più grande del nostro cuore, di un Padre di perdono e di misericordia, che nel suo Figlio Gesù si china sull’uomo fino ad assumere su di sé l’esperienza del dolore e della morte per riportarci nella sua casa paterna”, scrive P. Carmelo. Qui di seguito pubblichiamo le sue riflessioni.

 

 


La Divina Misericordia visita l’umanità nella realtà del suo esilio: dal Cuore del Padre trabocca al cuore del Figlio Gesù, e dal Cuore di Gesù al cuore del discepolo che la accoglie e da questi al mondo intero: Andate predicate il vangelo ad ogni creatura”.

 

 

 

 

 

PADRE, NELLA TUA MISERICORDIA
A TUTTI SEI VENUTO INCONTRO

 

 

Colui che cammina sopra la via lattea guardò questo mondo, e non vide altra cosa che pietre, ortiche e rovi. Ma allora una tempesta frustò le coste marine del Padre: era la compassione. In seguito un forte vento colpì le sue porte: era la misericordia. Finalmente una brezza soave si mosse nel suo cuore: era la tenerezza. Allora il Padre decise di inviare suo figlio, l’unigenito, non per condannare, ma per salvare il mondo: “O mio Dio, malgrado la Tua immensità e la Tua eternità, la legge che vige nel Tuo cuore è la compassione. E la tenerezza è la musica che fa vibrare la Tue corde. Fa che io non cessi di sentire in ogni istante queste corde, Amen”
(Ignacio Larrañaga).

Dio ha voluto parlarci da uomo a uomo in Gesù, Suo Verbo eterno fatto uomo, per mostrarci il suo vero volto: volto di amore di un Dio Padre che è più grande del nostro cuore, di un Padre di perdono e di misericordia, che nel suo Figlio Gesù si china sull’uomo fino ad assumere su di sé l’esperienza del dolore e della morte per riportarci nella sua casa paterna. Allora vivere è un camminare in compagnia con Dio che ci ama, sentirlo al nostro fianco, ascoltare le ragioni del suo amore, entrare in dialogo con Lui e dargli la nostra risposta. La nostra storia diventa così Storia di salvezza, perché è il risultato dell’incontro tra due cuori: il Cuore di Dio che si apre a noi per accoglierci e il nostro cuore che trova ed accoglie da Lui ed in Lui la salvezza cercata.

Nella Sacra Scrittura, questo modo di rapportarci con Dio è indicato con il termine di “Alleanza”. L’Alleanza, infatti, è uno dei grandi simboli usati dalla Bibbia per esprimere il modo con il quale Dio viene in mezzo a noi. Per mezzo dell’Alleanza Dio si fa “vicino” dell’uomo, gli manifesta la sua benevolenza ed il suo amore, che è la norma dell’agire di Dio verso il suo popolo e verso ogni singola persona. Nella misura in cui rivela il suo Nome di Jahvè-Signore, il suo amore si intensifica ed assume tonalità sempre nuove, fino ad arrivare al vertice nella persona di Gesù di Nazaret, crocifisso-trafitto sul Calvario e risorto.

L’A.T. ci introduce nella storia di questa Alleanza d’Amore per mezzo di immagini o icone luminosissime sul modo di amare di Dio. Il familiarizzarci con queste immagini, soprattutto con le più comuni e significative, è un esercizio meditativo indispensabile per purificare progressivamente l’immagine che abbiamo di Dio, in modo che Dio non sia da noi conosciuto “per sentito dire” (Gb 42,5), ma sia sperimentato nella trama della nostra stessa vita come Colui che plasma il nostro essere (Sl 139), come colui che ci chiama per nome (Is 43, 1), ci porta disegnati nelle palme delle sue mani (Is 49, 16), conta i passi del nostro camminare, raccoglie le nostre gioie e le nostre lacrime (Sl 56, 9).

Dio è Padre d’Israele e questi è il suo primogenito, per questo interviene a liberarlo dalla sua schiavitù d’Egitto (Es 4, 21-23). Emerge così la prima immagine di Dio mentre si rivela protettore, padrone e liberatore d’Israele. Alla base di ogni immagine di Dio c’è, per tanto, l’idea di una sovranità benefica che esige obbedienza e fiducia (Is 1, 2ss) e che è autore del glorioso Esodo dalla schiavitù definita dal Signore stesso “infamia dell’Egitto” (Gs 5,9)..

Questa immagine di Dio Liberatore è approfondita ed arricchita soprattutto durante il periodo della storia d’Israele, che si svolge attorno all’avvenimento dell’Esilio in Babilonia. Infatti i Profeti intervengono per annunciare a Israele la buona notizia che il potere salvifico di Dio non si è esaurito nel periodo dell’Esodo. Essi spiegano che il Primo Esodo, in quanto avvenimento storico, è circoscritto entro limiti ben precisi; ma in quanto azione salvifica di Dio, è un avvenimento che non si esaurisce, perché ha in sé stesso la forza inesauribile della fedeltà di Dio-Liberatore, che lo spinge in avanti verso sempre nuove mete. Così l’azione salvifica divina del Primo esodo si sta aprendo il cammino nella storia attuale d’Israele in Esilio, per realizzare il suo disegno e continuare il suo corso verso una pienezza senza limiti.

Di fronte a Israele che soffre l’Esilio come conseguenza della sua infedeltà all’Alleanza, l’immagine di Dio che si accende di collera, che “ruggisce come leone” (Os 11, 10) terribile e potente nella parola che brucia come fuoco, viene illuminata e completata con l’immagine di Dio che continua ad essere Liberatore, perché è Sposo, Padre-Madre e Pastore, che si china sull’uomo peccatore, sollevandolo come bimbo alla sua guancia (Os 11, 4) e carezzandolo come una madre accarezza la sua creatura.

Queste immagini trovano il loro perfetto compimento nella persona di Gesù, “il povero di Nazaret”, nel suo cuore di Figlio prediletto del Padre, che consegna la sua vita fino alla morte di Croce per l’umanità sbandata come gregge senza pastore. Infatti, l’avvicinamento dell’Antico al Nuovo Testamento è chiaro. Con il passare dei secoli, la Rivelazione biblica fornisce sulla figura di Jahvè-Signore una visione sempre più luminosa di amore, di bontà e misericordia, capace di far riconoscere che il Signore sarà GESÙ, l’umile e mite Gesù di Nazaret (cf. Mt 11, 28-30), sarà “GESÙ-VISITA misericordiosa e festosa di Dio agli uomini”.

I Profeti avevano presagito questo passaggio, annunziando che la Gloria di Dio si sarebbe rivelata nella dolcezza inenarrabile di un Salvatore misterioso e che la sua potenza si sarebbe trasfusa in un amore invincibile. I loro vaticini scoprono questa Gloria sul volto di un povero Bambino (Is 9, 2-27), e poi nell’Uomo crocifisso (Zc 12, 10), segni e capolavori della Misericordia eterna. L’immensità dell’amore di Dio, la sua sapienza, si manifesta in tutto il suo splendore, quando la sua Parola sussistente ed eterna si fa Uomo per salvare il genere umano. Non sono più belle parole o belle immagini quelle che ci raggiungono nella nostra vita, ma la Parola “fatta carne”, cioè, uomo debole e mortale come ognuno di noi. Non sono più nobili promesse, ma un corpo “preparato per la Parola e dato alla Parola, affinché essa possa compiere tutta la volontà di Dio. La Parola compirà la volontà di Dio precisamente per mezzo delle consegna di questo corpo, una volta per tute” (cf. Eb 10, 5-10).

Ecco l’opera maestra e la gloria dell’amore, della sapienza del nostro Dio: un Dio che è vero uomo, un uomo vero che è vero Dio, “generato, non creato”, uscito “dalle viscere della misericordia del nostro Dio “(Lc 1, 78), dall’intimità di Dio, dal suo Cuore! Unigenito Figlio del Padre: quindi della stessa natura del Padre. Dio da Dio, Luce da Luce, Amore da Amore, Figlio prediletto: Figlio del Cuore; Cuore di Dio.

Ecco il Cuore Nuovo promesso, “cuore secondo il cuore di Dio”, pieno dello Spirito di Dio... Questo Cuore è vera Icona del Padre e vera Icona dell’uomo: si fondono il Lui i pensieri di Dio e i pensieri dell’uomo; si uniscono in Lui la volontà di Dio e la volontà dell’uomo. Come spiega P. Rupnik nel commento al Logo del Giubileo, « in Cristo Dio ha imparato a vivere da uomo, affinché noi possiamo imparare a vivere secondo Dio (Sant’Atanasio). Cioè Dio, nel suo modo di esistere, è la comunione che include l’altro ed è così potente che include un altro che è morto, un altro che si è perduto, un altro che è peccatore: lo include in Cristo. Per me questo è sconvolgente, perché non chiede nulla, ma vivifica, include, lava, pulisce, riveste, ti mette al banchetto».

In questo Cuore Dio viene a visitarci con tutti i gesti e con tutte le presenze corporali dell’amore e della misericordia: con sovranità benefica di Liberatore, con amore e tenerezza di Sposo, di Padre e di Madre, con sollecitudine di Pastore...

Dio nessuno l’ha mai visto” (Gv 1, 18), ma questa Parola-fatta-carne possiamo ascoltarla, toccarla con le nostre mani, vederla con i nostro occhi e contemplarla (cf 1Gv 1, 1-4), e così possiamo “vedere la sua gloria, gloria che riceve dal Padre come Figlio unico” (Gv 1, 14).

Perciò l’unica cosa che conta è il posto che uno fa, nella sua vita, a Dio e al Figlio inviato nel mondo. Tutto il resto va giudicato in rapporto a questo.[1]

Prima di addentrarci nella storia dell’incontro della Divina Misericordia con l’umanità ferita che cerca vie per rinascere, ci può essere utile richiamare alla mente il significato di alcuni termini:

ICONA:
Immagine sacra dipinta con l'intento di favorire la penetrazione del Mistero in essa raffigurato e di suscitare un atteggiamento di preghiera e di contemplazione. "L'icona é per noi l'occasione di un incontro personale, nella grazia dello Spirito, con colui che essa rappresenta. Più il fedele guarda le icone, più si ricorda di colui che viene rappresentato e si sforza di imitarlo". La Bibbia é piena di icone, cioè di immagini espresse con parole, da cui si sprigionano intensi raggi del Mistero di Dio, che ci raggiungono e si imprimono nel nostro cuore.

MISTERO:
In generale, è un qualcosa che si manifesta soltanto nel suo attuarsi, nel suo farsi dentro la realtà della nostra esistenza, del nostro desiderio. Nell’ambito biblico, è un'azione discreta e silenziosa, con la quale Dio agisce efficacemente nel cuore dell'uomo in ordine alla sua salvezza e che nello stesso tempo lo trasforma in strumento di questa di questa stessa salvezza.

ORAZIONE:
È il momento affettivo della lettura biblica meditativa, che si trasforma in colloquio d’amore con Dio ed esprime gli stati affettivi per mezzo della supplica, domanda, intercessione, offerta, ringraziamento e soprattutto lode, secondo la Parola che ispira lo stato affettivo dell'anima da cui scaturisce. È detta anche preghiera affettiva o di aspirazione, perché è intrisa di affetto.

CONTEMPLAZONE:
È il punto d'arrivo della lettura meditativa della Parola di Dio. Consiste nell'esperienza immediata di Dio o del mistero divino su cui si sta meditando senza ragionamento, senza fretta, senza la necessità di fare uso di parole, pensieri, immagini e sentimenti, ma abbandonandosi al movimento dell'affettività mossa e segnata da quest'esperienza del mistero di Dio.

GLORIA DI DIO:
Questa espressione designa Dio stesso in quanto si rivela nella sua maestà, nella sua potenza, nello splendore della sua santità, nel dinamismo del suo essere. Dio pone la sua gloria nel salvare e nel sollevare il suo popolo; la sua gloria é la sua potenza al servizio del suo amore, della sua misericordia e della sua fedeltà. La manifestazione completa della "Gloria di Dio" avviene nella persona di Gesù di Nazaret. Gesù da un lato si proclama uguale al Padre, dall'altro chiama gli uomini suoi amici, ripudiando esplicitamente il termine "servi". Per Gesù la gloria é essere il cibo e la gioia degli altri. L'abbinamento del pane (= cibo) con il vino (= gioia) nell'Eucaristia sono reltà-simboli della grande gloria di Dio dilagante all'infinito dalla mensa eucaristica nel “gustate et videte quam suavis est Dominus". Per Gesù la gloria arriva al vertice nella Crocifissione. Infatti la Crocifissione é la dichiarazione totalitaria e infinita e l'atto supremo d’amore di Gesù verso gli uomini, giacché nessuno ha amore più grande di colui che da la vita per i propri amici (cf. Gv 15, 13). San Paolo, esaltando l'amore, mette in risalto il concetto evangelico di gloria, affermando che l'ideale della vita dell'uomo é "sforzarsi di piacere a tutti in tutto"(1Cor 10, 33), cioè diventare per tutti gli altri tutte le cose di cui essi hanno bisogno.

MISERICORDIA
«Misericordia» è una vecchia parola che, durante la sua lunga storia, ha acquisito un senso molto ricco. In greco, lingua del Nuovo Testamento, misericordia si dice éléos. Questa parola ci è famigliare nella preghiera Kyrie eleison, che è una invocazione alla misericordia del Signore. Éléos è la traduzione abituale, nella versione greca dell’Antico Testamento, della parola ebraica hésèd. È una delle parole bibliche più belle. Spesso, la si traduce molto semplicemente con amore. Hésèd, misericordia o amore, fa parte del vocabolario dell’alleanza. Da parte di Dio, designa un amore incrollabile, capace di mantenere una comunione per sempre, qualsiasi cosa capiti: «non si allontanerebbe da te il mio affetto» (Isaia 54,10). Poiché l’alleanza di Dio con il suo popolo è sin dall’inizio una storia di infedeltà e nuovi inizi (Esodo 32–34), è evidente che un simile amore incondizionato suppone il perdono, non può che essere misericordia. Éléos traduce ancora un altro termine ebraico, quello di rahamîm. Questa parola va spesso di pari passo con hésèd, ma è più caricata di emozioni. Letteralmente, significa le viscere, è una forma plurale di réhèm, il seno materno. La misericordia, o la compassione, è qui l’amore avvertito, l’affetto di una madre per il suo bambino (Isaia 49,15), la tenerezza di un padre per i suoi figli (Salmo 103,13), un intenso amore fraterno (Genesi 43,30). La misericordia, in senso biblico, è molto di più di un aspetto dell’amore di Dio. La misericordia è come l’essere stesso di Dio. Per tre volte davanti a Mosè, Dio pronuncia il suo nome. La prima volta, egli dice : «Io sono colui che sono» (Esodo 3,14). La seconda volta : «Farò grazia a chi vorrò far grazia, e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia» (Esodo 33,19). Il ritmo della frase è lo stesso, ma la grazia e la misericordia si sostituiscono all’essere. Per Dio, essere quello che è, è fare grazia e misericordia. Questo conferma la terza proclamazione del nome di Dio : «Il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Esodo 34,6). Quest’ultima formula è stata ripresa nei profeti e nei salmi, in particolare nel salmo 103 (v. 8). Nella sua parte centrale, (versetti 11-13), questo salmo si meraviglia della vastità inaudita della misericordia di Dio. «Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia…» : è l’altezza di Dio, la sua trascendenza. Ma è anche la sua umanità, se si osa dire: «Come un padre ha pietà dei sui figli…». Così trascendente e allo stesso tempo così vicina, essa è capace di togliere ogni male: «Come dista l’oriente dall’occidente, così allontana da noi le nostre colpe». La misericordia è ciò che c’è di più divino in Dio, essa è anche ciò che c’è di più compiuto nell’uomo. «Ti corona di grazia e misericordia», dice ancora il salmo 103. Bisogna leggere questo versetto alla luce di un altro versetto del salmo 8 dove è detto che Dio corona l’essere umano «di gloria e di onore». Creati a sua immagine, gli umani sono chiamati a condividere la gloria e l’onore di Dio. Ma è la misericordia e la tenerezza che ci fanno realmente partecipare alla vita stessa di Dio. La parola di Gesù: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Luca 6,36) fa eco all’antico comandamento: «Siate santi, perché io, il Signor, Dio vostro, sono santo» (Levitico 19,2). Alla santità, Gesù ha dato il volto della misericordia. È la misericordia che è il più puro riflesso di Dio in una vita umana. «Con la misericordia verso il prossimo tu assomigli a Dio» (Basilio il Grande). La misericordia è l’umanità di Dio. Essa è anche l’avvenire divino dell’uomo (Cfr. Il Sito di Taizé).

COLLERA E GIUSTIZIA
Il peccato delle origini rovinò il primitivo disegno di Dio, ma non marcò la perdizione “radicale” dell’uomo, perché sulle rovine prodotte dalla disobbedienza umana, Dio continuò ad effondere il suo soffio vitale e creatore, rivestito adesso di misericordia (Gn 3,9-10). Dopo il peccato, l’originario disegno di Dio si riveste di una caratteristica peculiare: la salvezza, cioè la realizzazione della vita umana mediante l’amicizia con Dio, si converte in chiamata redentrice, che si compirà in pienezza per mezzo di Cristo Gesù. In questa dinamica redentrice, lo stesso castigo, espresso con i termini di collera o ira, è sempre strumento e manifestazione della misericordia di Dio. Nella concezione biblica Jahavé è un Dio morale che non è indifferente rispetto al bene e al male, al vero e al falso, al giusto e all’ingiusto. In tale luce la collera si rivela paradossalmente l’altro volto dell’amore che tutela le vittime e i miseri. Nella Bibbia, infatti, “collera” e “ira” mai sono in Dio un momento che si alterna con misericordia, longanimità e perdono, mai si rivestono di un qualche carattere di “giustizia vendicativa”; al contrario, sono sempre e solo la conseguenza necessaria e inevitabile del fatto che Dio è unicamente Amore, Misericordia, Perdono, Fedeltà, Salvezza. La giustizia di Dio è così diversa da quella umana che non conosce in se stessa due tempi, premio e castigo, ma unicamente fedeltà alle sue promesse e perdono inesauribile. Collera, ira, giustizia di Dio significano soltanto che egli non può tollerare per nessun motivo il male che l’uomo provoca all’interno del suo progetto divino, e che il giudizio rimane un Decreto irrevocabile di misericordia e di grazia, nel quale si manifesta il fatto che Dio combatte il male fino al punto in cui un Dio, il vero Dio, deponga le sue vesti, lavi i piedi, si faccia tradire e rinnegare dai propri amici, consegni la propria vita, (cf. Gv 13,1-38; Lc 22,14-34) e versi fino all’ultima goccia di sangue, del suo stesso sangue (Gv 19,32-34).

GELOSIA
Il concetto di collera o ira è collegato con quello di gelosia.
La gelosia in Dio significa che egli è tenacemente legato alla sua creatura, è espressione dell’amore totale ed esclusivo che Dio ha nei confronti del suo popolo: «Il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso» (Es 34,14). Dio è geloso, cioè ama la sua creatura e il suo popolo con amore appassionato ma anche severo ed esigente; perciò proibisce ogni amore eccetto il suo, fino al punto che devono pensare che stanno commettendo “adulterio spirituale” coloro che porranno o avranno in altra parte il loro amore, sia che si tratti di cose, parenti, o anche di amor proprio.

1. IL DIO DELLA MISERICORDIA È LIBERATORE

La misericordia di Dio si manifesta anzitutto come azione liberatrice, accolta con un atteggiamento interno di adorazione di Dio, espressa e alimentata attraverso il culto, che sfocia nella conversione del cuore. Per rendercene conto basta soffermarci a considerare l’itinerario biblico dell’Esodo,  che narra come Dio si preoccupò di liberare il suo popolo, e come la fede in Cristo Gesù rende possibile l'autentica libertà. L’itinerario biblico dell’Esodo ci dà la carta d'identità del Dio della Bibbia, presentandocelo come "Il Dio Liberatore". Per tanto, il Dio della Bibbia non é il Dio dei filosofi, l'Altro, il Trascendente, che vive lontano e solitario senza prendersi cura di noi, ma é il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe.... che interviene nella storia per liberare e salvare.

Per questo, l'Esodo é per Israele il Libro dei libri, l’epicentro della Scrittura, giacché da testimonianza sia dell'origine della sua storia sia della sua obbedienza al Dio Liberatore. La celebrazione della Pasqua farà memoria ogni anno di questa liberazione. Lavori forzati perpetui, sottomissione, vita senza un futuro .... da tutta questa schiavitù saranno strappati i figli d'Israele. La nascita del popolo comincia con un esodo, cioè una "uscita". Già nel deserto, esperimenteranno la libertà. D'allora in avanti staranno "in piedi", invece di dover piegare il collo sotto il giogo del Faraone. Sono uniti per formare un popolo, invece di combattersi gli uni contro gli altri (cfr. Es 2,13). Impareranno il nome del loro Salvatore, invece di servire idoli e dei stranieri.

Il Dio della Bibbia sarà eternamente "colui che ci ha liberato dalla mano degli Egiziani". Senza dubbio, il Dio di Mosè è Padrone e Signore; in questa storia spesso fa "esplodere il suo potere". Ma l'Esodo fa risaltare il fatto che Dio é Dio perché libera. Il suo nome fa storia, e la sua azione si concentra in un gesto di liberazione. Dio ha visto la miseria del suo popolo e interviene in suo favore: "Venne fra la sua gente". Esodo straordinario di un Dio che condivide la sofferenza di un popolo che chiama suo.

"Sono il Signore" potrebbe essere la rivelazione di un qualunque Dio, di un Dio che non libera, ma che riduce in schiavitù: un Dio onnipotente, Signore e padrone. Il Dio dell'Esodo dichiara: "Io?sono il Signore tuo Dio" D'ora in avanti il volto del vero Dio sarà inconfondibile, perché é Colui che si coinvolge nella storia, facendo sua la storia degli uomini. Dio si fa prossimo e afferma:" Ho deciso di prendermi cura di voi!". Dio strappa l'uomo dall'oppressione che lo manteneva schiavo e, anno dopo anno, la notte di Pasqua sarà notte di speranza. Il Dio dell'Esodo rivela il suo Nome nello stesso tempo in cui agisce. "Io?sono colui che sono". La rivelazione si compie quando gli uomini si trovano di nuovo in piedi, liberi. Dio parla, Dio salva, Dio crea un popolo. Ma non é facile essere uomini e donne liberi ... I figli d'Israele sanno questo fin dallo stesso giorno della loro uscita dalla schiavitù. Le lampade sono spente, la festa é finita. Agli accenti gloriosi del Canto di Mosè succedono le lamentele e le mormorazioni.

Ormai niente é sicuro per Israele, che sente subito la mancanza delle false sicurezze dell'ambiente strutturato del Faraone e degli alimenti d'Egitto. Ai figli d'Israele non sono sufficienti i 40 anni di peregrinazione attraverso il deserto per realizzare la loro vera Attraversata, imparando il cammino che porta alla Liberazione. Infatti questo é il vero Esodo: non dire mai "la nostra Salvezza è nelle nostre mani". Si tratta di scoprire le nuove relazioni che Dio ha stabilito rivelandosi come "il Signore, tuo Dio".

Il passaggio dalla schiavitù alla libertà é un passaggio nel quale si manifesta il Mistero di Dio. Infatti, non dipende dalla forza dell'essere umano, abbandonato a se stesso, passare dall'Egitto al deserto. Questo passaggio é presentato dalla Bibbia come una "azione creatrice" di Dio. Così si può affermare che, mentre il Libro della Genesi narra la creazione del cielo e della terra ad opera di Dio, il Libro dell'Esodo narra la creazione che Dio ha fatto di un "essere libero". Sia la creazione dell’universo e dell'uomo sulla terra, sia la creazione dell'uomo da schiavo a libero, sono opere divine. Per questo, nella Sacra Scrittura Dio è presentato come creatore sia nel Libro della Genesi, dove si narra la creazione del cielo e della terra, sia nel Libro dell'Esodo, dove si narra la storia della liberazione dell'uomo.

Queste due opere sono eminentemente divine e la potenza di Dio che scende nel mondo, forse ha più difficoltà nel convertire l'uomo da schiavo in libero che dal creare dal niente il cielo e la terra. È vero che questo modo di parlare non esprime adeguatamente la realtà; tuttavia rimane il fatto che per descrivere la creazione, la Bibbia si serve di un capitolo, mentre per descrivere la liberazione dell'uomo, ha bisogno di ben 14 capitoli dell'Esodo, e solamente nel capitolo quattordicesimo l'uomo passerà, con grande fatica, dall'Egitto al deserto in cammino verso la Terra Promessa.

Quanto più meravigliosa ed immensa sarà, sotto il punto di vista spirituale, l'opera divina di far raggiungere all'uomo la libertà interiore!

Ecco il grande compito dell'uomo, per questo la Mishna afferma: "In ogni generazione, ogni uomo deve considerarsi come se fosse uscito dallo Egitto personalmente. Infatti é scritto (Es 13,8): "Questo è in memoria di ciò che ha fatto Jahvè, perché con la sua mano potente ti ha fatto uscire Jahvè dall'Egitto" (Pesahim,10).

Forse si trova qui la ragione per cui l'ultima parte del Libro dell'Esodo, dopo la conclusione dell'Alleanza (Es 24), si dilunga con insistenza sulla descrizione della pratica del culto divino (Es 25?31; 35?40).

Considerando con attenzione la narrazione, l’Esodo non si conclude con la entrata di Israele nella Terra Promessa attraverso il Giordano che è narrata nel Libro di Giosuè, ma con l’entrata nel Tempio (cfr. Es 40).

Seguendo questa logica, il libro del Levitico viene immediatamente dopo il libro dell’Esodo, interrompendo la trama storica dei due libri che lo precedono, ed ha carattere quasi esclusivamente legislativo liturgico. Descrive, infatti, dettagliatamente ciò che riguardava i sacerdoti d'Israele, i quali appartenevano alla tribù di Levi, e le prescrizioni che regolavano il culto all'unico Dio da parte del popolo eletto.

Il popolo (e nel suo seno ogni individuo) rimarrà libero nella misura in cui dà il primo posto all'adorazione di Dio. Il Tempio è segno che Egli è presente e che la sua azione liberatrice continua e garantisce la conservazione delle mete umane raggiunte nel cammino di liberazione. Il popolo di Dio rimarrà sotto questo influsso benefico e sarà libero, se dà il primato ad un atteggiamento interno di adorazione di Dio, espressa e alimentata attraverso il culto. Infatti, il culto è un modo regolare e sistematico di realizzare ed esprimere la relazione dell'uomo con Dio secondo "il modello" rivelato all'uomo dallo stesso Dio in tutti i suoi dettagli, per sottolineare la trascendenza divina e la continuità dell'azione salvifica di Dio. Attraverso il culto il popolo celebra e vive il fatto che Dio è sempre il primo impegnato nella liberazione del suo popolo, che quindi guarda con fiducia al futuro.

1.1 L'uscita dall'Egitto

La liberazione d'Israele dalla schiavitù dell'Egitto è un avvenimento fondamentale che sta alle origini del popolo eletto: Es 1?15.

Fu una liberazione vittoriosa, nella quale Jahvè non pagò alcun riscatto agli oppressori di Israele.

Gli Israeliti, schiavi in Egitto, erano oppressi e maltrattati: "Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù sali a Dio" (Es 2, 23).

In questa terribile disgrazia, "Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio “guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero" (Es 2, 24-25; 3, 7-9).

Dio ascoltò e guardò. Il testo non dice che i gemiti e le grida degli Israeliti erano espressamente diretti a Dio. E questi gemiti e grida di lamento, che forse non furono espressi in termini di una supplica esplicita, salirono a Dio, perché la sofferenza per se stessa è già preghiera e verità, che determina l’azione liberatrice di Dio, servendosi della mediazione di Mosè (Es 3 e 4).

È questo intervento liberatore che fa scoprire agli Israeliti il significato profondo del primo comandamento ricevuto nel deserto:

"Non avrai altri dei di fronte a me", perché "Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla condizione di schiavitù" (Es 20,3.2).

Questo comandamento garantisce la libertà d'Israele e di ogni uomo:

"Soltanto nella misura in cui io ho Dio per mio Assoluto, un Assoluto che mi supera infinitamente e dal quale non mi sentirò mai limitato, io non avrò nessun altro idolo, nessun mito che mi faccia suo schiavo" (D.M. Turoldo).

1.2 Dio, il "Gô'êl" d'Israele

Dopo che le infedeltà del popolo di Dio causarono la distruzione di Gerusalemme e l'esilio, la liberazione dei Giudei deportati a Babilonia fu una seconda redenzione, la cui buona novella costituisce il messaggio principale di Is 40?45: Jahvè, il Santo d'Israele, è il suo "liberatore", il suo Gô'êl: Is 43, 14; 44, 6.7.24; 47, 4;cf. Ger 50, 34.

La funzione di Gô'êl è una istituzione familiare dei nomadi dell'Oriente.

Il "Gô'êl" è un liberatore, un redentore, un difensore, un protettore dei diritti dell’individuo e del gruppo. L'obbligo più grave è quello di vendicare il sangue. Il canto di Lamech (Gn 4, 23-24) esprime questo dovere in forma selvaggia e violenta. Anch’oggi, tra gli Arabi, quando muore uno di loro, si dice: "Il nostro sangue è stato versato".

"Nell'antico diritto ebraico, il Gô'êl è il parente prossimo a cui incombe il dovere di difendere i suoi, sia che si tratti di mantenere il patrimonio familiare (Lv 25, 23ss), di liberare un "fratello" caduto in schiavitù (Lv 25, 26-49),di proteggere una vedova (Rut 4, 5), oppure dì vendicare un parente assassinato (Nm 35, 19ss). L'uso del titolo Gô'êl in Is 40?55 suggerisce la persistenza di un legame di parentela tra Jahvè e Israele: per l'alleanza contratta al tempo del primo Esodo (cf. già Es 4, 22), la nazione eletta rimane, nonostante le colpe, la sposa di Jahvè (Is 50, 1). Tra le due liberazioni il parallelismo è manifesto (cf. Is 10, 25ss; 40, 3): come la prima, anche la seconda è gratuita (Is 45, 13; 52, 3), e la misericordia di Dio vi è ancor più manifesta, dato che l'esilio era il castigo dei peccati del popolo" (Léon-Dufour).

Per tanto, Jahvè è Liberatore ("Gô'êl ") del popolo israelita. È liberatore di individui (schiavi ed oppressi) dalla morte, dall'oppressione, dalla malattia; è vendicatore del sangue, come si dichiara in Es 4, 22-23 e in Dt 32, 41-43.

Ma c'è di più: il Deutero-Isaia concepisce "il Gô'êl " come un titolo tipico di Jahvè: Is 44, 6.7.24; 49, 26; 60, 16; 63, 16; Os 13, 14; Gb 19, 25; Sl 19, 15; Sl 103, 4.

Dio, che è liberatore d'Israele, lo è principalmente nell'Esodo dall'Egitto e nell'Esilio di Babilonia.

La grande festa della LIBERTÀ, che ha luogo ogni anno, si celebra nella PASQUA.

Secondo la Bibbia, dalla Genesi fino ai Vangeli, il genere umano e dentro di esso Israele è famiglia di Dio e l'uomo suo consanguineo. E Dio, che progettò l'uomo come un suo consanguineo, non potrà mai tollerare che siano sfruttati e sfigurati coloro che sono sua "immagine e somiglianza", suoi familiari e figli. Offendere i suoi figli è offendere Lui; sfruttare i suoi figli è sfruttare Lui.

L'autentica liberazione nasce dall’iniziativa di Dio, che fin dall'eternità non dubitò di sommergersi, senza confondersi, nella storia degli uomini. Essere l'Emmanuele, il Dio con gli uomini: condividendo la loro vita e camminando con loro.

Ma, prima della Liberazione definitiva, numerose altre prove dovevano ancora abbattersi sul popolo eletto, che nelle tribolazioni non cesserà d'invocare il soccorso di Dio (cf. Sl 25, 21; 44, 47) e di ricordarsi della prima redenzione, pegno sicuro e figura di tutte le altre:

"Non trascurare quella porzione che ti sei liberato dalla terra d'Egitto".

Cosi prega Mardocheo: Ester 4, 17g.

Lo stesso tema appare nelle parole di Giuda maccabeo prima di affrontare il nemico Gorgia presso Emmaus: 1Mac 4, 8-11.

Gli ultimi secoli precedenti la venuta del Messia sono contraddistinti dall’attesa della “Liberazione definitiva": "Israele sarà salvato dal Signore con salvezza perenne. Non patirete confusione o vergogna per i secoli eterni" (Is 45, 17).

Le preghiere più ufficiali del Giudaismo chiedono al "Gô'êl " d'Israele di affrettare il giorno. L'autore della Lettera agli Ebrei vede compiuta questa preghiera nella persona di Gesù, che con il suo proprio sangue "entrò una volta per sempre nel santuario, procurandoci così una redenzione eterna" (Eb 9, 12).

1.3 Prolungamenti personali e sociali

Su di un piano personale, la liberazione operata da Dio in favore del suo popolo si prolunga e si rinnova in certo modo nella vita di ogni fedele: “Per la vita del Signore che mi ha liberato da ogni angoscia" (2 Sam 4, 9).

È questo un tema frequente della preghiera dei Salmi. Talvolta il salmista si esprime in termini generici senza specificare cui è o è stato esposto (Sl 19, 15; 26, 11); altre volte dice di essere alle prese con avversari che attentano alla sua vita (Sl 55, 19; 69, 19), oppure la sua preghiera è quella di un malato grave che sarebbe morto senza l'intervento di Dio (Sl 103, 3s). Ma già si notano i segni precursori d'una speranza più profondamente religiosa (cf. Sl 31, 6; 49, 16).

Sul un piano sociale, la legislazione biblica è anch'essa contrassegnata dal ricordo della prima liberazione d'Israele; lo schiavo ebreo doveva essere lasciato libero il settimo anno, in onore di quanto Jahvè aveva fatto per i suoi (Dt 15, 12-15). La legge non era sempre rispettata (Ne 5, 1-8); tuttavia “rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo", è una delle forme del "digiuno che vuole Jahvè" (Is 58, 6).

1.4 Dalla liberazione socio?politica alla libertà dei Figli di Dio

Senza dubbio, la liberazione dal giogo imposto dalle Nazioni alla Terra Santa era il grande dono atteso da molti Giudei come frutto dell'intervento di Dio, e forse anche i pellegrini di Emmaus pensavano che questa fosse la missione di "colui che doveva liberare Israele" (Lc 24, 21). Ma ciò non esclude che l’élite spirituale (cf. Lc 2, 38) potesse infondere in questa speranza un contenuto religioso più autentico, conforme era già espresso nella conclusione del Salmo 130, 8: "Jahvè redimerà Israele da tutte le sue colpe".

Infatti, la vera liberazione implicava la purificazione del resto, chiamato a partecipare alla santità del suo Dio (cf. Is 1, 27; 44, 22; 59, 20).

Dio è la roccia della nostra salvezza, il nostro liberatore (Sl 18, 3), è la grande bontà che ci purifica dai nostri peccati (Sl 51). Il Dio liberatore scende anche nell'intimo del nostro spirito per creare un cuore puro.

Ogni uomo, per entrare in un autentico processo di liberazione personale, ha bisogno di un punto di riferimento stabile, che gli serva da bussola che gli indichi la meta da raggiungere.

L'unica fonte di stabilità per il cuore umano è Dio: "Guai a quanti scendono in Egitto per cercare aiuto, e pongono la speranza nei cavalli, confidano nei carri perché numerosi e sulla cavalleria perché molto potenti, senza guardare al Santo d'Israele e senza cercare il Signore" (Is 31, 1).

Geremia, dopo aver sottolineato che è "maledetto l'uomo che confida nell'uomo che pone nella carne il suo sostegno e il cui cuore si allontana dal Signore", presenta una bellissima immagine per definire l'uomo che si àncora in Dio:

"Benedetto l'uomo che confida nel Signore e il Signore è sua fiducia. Egli è come un albero piantato lungo l'acqua, verso la corrente stende le radici; non teme quando viene il caldo, le sue foglie rimangono verdi; nell'anno della siccità non intristisce, non smette di produrre i suoi frutti" (Ger 17, 5-8).

In quanto liberatore che purifica il nostro cuore, Dio non è "il seno materno" che ci libera (aliena) dai rischi e difficoltà della vita, ma il Dio che taglia il cordone ombelicale e ci lancia nel cammino verso l'età adulta della fede, insegnandoci a non evitare le prove ma ad affrontarle come opportunità di purificazione del cuore e di crescita nella libertà creativa e responsabile.

Dio vuole figli adulti e semplici come bambini ma non infantili; perciò non ha paura di lasciarci soli e di mostrarsi a noi come il Dio che risponde alle nostre domande, ma soprattutto questiona, interviene e sfida (cf. Sl 95).

1.5 Gesù Cristo nostro Liberatore

Non si udranno grida nel vento, né clamori nelle piazze. Passerà per le strade al suono di una musica silenziosa. Non calpesterà la canna caduta, né spegnerà il lumicino morente della lampada. È stato inviato per versare balsamo sulle ferite, consolare i disperati, liberare i prigionieri, trasformare il lutto in abiti di festa e fare dei poveri una stirpe d’alto lignaggio. “Oh Gesù, passasti per questo mondo pieno di dolcezza e mansuetudine. Non condannasti nessuno. Portasti speranza dove c’era disperazione. Spargi sopra le ferite del mio cuore balsamo e olio, cosicché io sperimenti in questo giorno la tenerezza e la misericordia del tuo amore. Amen”. (Ignacio Larrañaga).

La liberazione di Israele non era che prefigurazione della redenzione cristiana. Cristo, infatti, instaura il regime della perfetta e definitiva libertà per tutti coloro che, Giudei e pagani, aderiscono a Lui nella fede e nella carità.

Dio, in Gesù di Nazaret, si fa uomo con tutte le conseguenze; nell'incarnazione Dio assume la storia e le responsabilità degli esseri umani. Così Gesù diviene l'autentico "Gô'êl" di tutti gli uomini.

"Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea..., cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui" (At 10, 38).

1.5.1 Nei Vangeli

Organizzare un esercito, disse Gesù, è un compito relativamente facile. Non sono venuto per distruggere i Romani. Sono venuto a portare un’altra libertà: assoggettare i demoni del cuore, a trasformare l’odio in amore e la vendetta in perdono; a mettere in fuga le legioni dell’egoismo, a dare bene per male e amare il nemico, a conquistare l’impossibile e afferrare una stella con la mano. Quando sarà compiuta questa liberazione, non ci sarà più nel mondo la prevaricazione degli uni sugli altri. “ Signore Dio, vivo e vero, dammi la sapienza e la capacità di trasformare l’odio in amore e la vendetta in perdono, spargere bene per male, perché per l’ amore non esistono cose impossibili. Opera, Signore, in me, miracoli di santità, Amen.”(Ignacio Larrañaga)

“Gesù non ci invita ad essere sicari, ma ci chiama ad essere discepoli”. (Papa Francesco, Messico 2016).

Nel Battesimo presso il Giordano, Gesù appare l'atteso sul quale si è posato lo Spirito del Signore, per realizzare ciò che venivano annunciando i Profeti fino a Giovanni Battista e desiderato ardentemente tutti gli uomini: la liberazione dalle loro schiavitù.

E Gesù a Nazaret lancia il suo manifesto di liberazione:

«14Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode. 16Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. 17Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: 18Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19a proclamare l'anno di grazia del Signore. 20Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all'inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. 21Allora cominciò a dire loro: "Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato"» (Lc 4, 14-22).

OGGI - comincia a dire Gesù - si adempie questa profezia (v. 21). Gesù non commenta il testo del profeta, ma ne proclama la realizzazione. Oggi inizia l'anno di grazia, la festa senza fine per tutti, perché a tutti, in nome di Dio, è annunciata la salvezza, gratuita e senza condizioni.

Sembra evidente che questo testo vuole affermare che:

  • Nel programma di Gesù, la "missione", la "evangelizzazione" e il "Kerigma”, hanno come oggetto la liberazione o "remissione".
  • Gesù concepisce tutta la sua vita come un atto di liberazione secondo lo stile dell'anno giubilare (Is 58, 6; Lv 25, 10) o remissione che egli inaugura.
  • Questa liberazione è piena, integrale, riguarda tutto l’uomo e gli uomini tutti; in essa, come in quella dell'anno del giubileo, la dimensione materiale, sociale e religiosa (= liberare oppressi e prigionieri, guarire ammalati, predicare il condono di tutti i debiti) si fondono in una realtà gratuita, che costituisce la missione storica ? L'OGGI ? di Gesù.
  • Certamente la "remissione" nel contesto del Vangelo di Luca è ordinata fondamentalmente al peccato, e perciò la "remissione dei peccati" sarà anche l'obiettivo prioritario del ministero del Battista (Mc 1,4; Lc 1,77), e il centro della predicazione apostolica (Lc 24, 47; At 2, 38; 5, 31; 13, 18).
  • Gesù presenta il suo manifesto di liberazione, sottolineando l'aspetto positivo di ottimismo -"buona notizia", “l’anno di grazia"-, ed eliminando l'aspetto crudele, negativo, tipico dell'epoca nomade e della Legge del Taglione, "il giorno di vendetta per il nostro Dio", che è esplicito nel testo di Isaia (61,2b) ma che Gesù non legge. Omettendo ”il giorno di vendetta per il nostro Dio”, proclama che da parte di Dio c’è soltanto una parola d’amore, di grazia, ma non di vendetta.

Dentro questa universalità dell'amore, Gesù cerca in modo preferenziale i poveri, mentre apre immediatamente il cuore e va all'incontro dei peccatori, dei ciechi di cuore o di spirito, cioè di coloro che cercano di condizionare Dio mettendolo a servizio dei loro interessi egoistici, e dei non-evangelizzati, che nella maggior parte delle volte sono anche i più poveri della società, i quali a loro volta possono essere anch’essi peccatori e ciechi di cuore.

Il Vangelo di Gesù è il Vangelo del "Regno di Dio", che oltre ad esprimere l'assoluta sovranità di Dio su tutta la creazione, ha anche un senso profondo, interiore e trascendente: indica la presenza e l’attività misteriosa di Dio nel mondo e nell’uomo per liberarli dal male e condurli a un destino di salvezza. Questa presenza e attività salvifica, questo regno di Dio, si rende visibile e operativo particolarmente in Gesù Cristo.

Un regno, per tanto, che riunisce tutte le aspirazioni alla libertà annunciate dai profeti: «21 Gesù guarì molti da malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. 22Poi diede loro questa risposta: "Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista , gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano , ai poveri è annunciata la buona notizia”». (Lc 7,21-22).

«”Oggi” la parola di Gesù comincia a liberare non solo dalle malattie - che sono il segno di una diminuzione di vita - ma da tutti i blocchi psicologici e morali che rattrappiscono, non permettono di avanzare e di crescere, inibiscono gli slanci di amore. Il groviglio di passioni incontrollate che fanno ripiegare su se stessi nella ricerca del proprio tornaconto, la sete di possesso, la frenesia del potere e del successo sono catene. Questi ceppi oggi cominciano a essere frantumati. La forza irresistibile che li spezza è quella dello Spirito Santo (Lc Lc 4,14) che è all'opera in Gesù non solo quando egli compie guarigioni prodigiose, ma anche e soprattutto quando con la sua parola potente, rompe i lacci diabolici che avviluppano e mantengono l'uomo in stato di schiavitù (Lc 4,36) »[2].

Gesù intuiva anche che il suo Vangelo avrebbe provocato una lotta: contro le strutture cultuali e legaliste, contro i ricchi che opprimevano i poveri, contro i "buoni" che disprezzavano i "peccatori", contro Satana tante volte sconfitto e contro ogni genere di male. Per questo, Gesù è segno di contraddizione (Lc 2,35) e proclama beato chi non si scandalizza di Lui: «E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!» (Lc 7,23).

Gesù offrì la libertà a tutti coloro che credessero in Lui e lo seguissero: "Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi" (Gv 8,31?32). "Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi” (Gv 8,36).

Per tanto, questo cammino di liberazione ci fa passare dalla schiavitù del peccato, dalla condizione di prigionieri dell’errore e del male alla libertà di figli nel Figlio, alla verità e bellezza di essere in Cristo e in Lui tornare al Padre, e quindi alla bellezza di un amore senza frontiere, di un mondo di fratelli.

Il Povero di Nazaret versò miele dov’era fiele. Piegò la mano alle forze selvagge che seminano venti di guerra e incatenò l’odio al giogo della mansuetudine, per sempre. Girò per piazze e mercati raccogliendo le grida e tessendo con esse un inno al silenzio. Fu grande nella debolezza e aprì per l’umanità sentieri inediti di pace, che non si scorderanno mai. “Gesù di Nazaret, sei passato per mercati e piazze seminando consolazione e pace. Sei passato dappertutto dando la luce agli occhi dei ciechi, il camminare agli zoppi, vita e risurrezione ai morti. Fa che anch’io passi per questo mondo facendo del bene a tutti.” (Ignacio Larrañaga) **

1.5.2 Nei testi apostolici

Gesù, nonostante le difficoltà e le persecuzioni, non indietreggiò, ma andò fino in fondo e fu l'autentico "vendicatore del sangue". Col suo sangue liberamente versato per noi e per tutti, ci liberò dalla schiavitù dei nostri peccati.

  • "Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia,in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia" (Rom 3,23?25).
  • "Voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione" (1Cor 1,30).
  • "In Lui abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia, che Egli ha abbondantemente riversata su di noi" (Ef 1,7s).
  • "Per opera di Cristo Gesù abbaiamo la redenzione, la remissione dei peccati" (Col 1,14).
  • "Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia" (1Pt 1,18?19).

Il fondamento della liberazione cristiana è Gesù Cristo. In lui, infatti, si è manifestato Dio e si è fatto conoscere nella storia. La sua esistenza storica significa il sì straordinario di Dio alla umanità, rendendo così possibile per l'uomo un futuro di liberazione. Nel mistero di Cristo Dio?uomo è garantita non soltanto la salvezza dell'uomo, ma anche quella del mondo e della storia, chiamati a partecipare nella sua glorificazione. La morte e la risurrezione di Cristo è compimento e promessa: successo definitivo dell'umanità peccatrice riconciliata con Dio in Cristo Gesù e pegno della liberazione futura. Essa ci apre il futuro inteso come il momento in cui si compirà quanto in modo germinale ci è stato anticipato già nella persona del Salvatore.

1.5.3 Nell'esperienza cristiana

Con Gesù, Salvatore e Liberatore, l'opera della liberazione non viene terminata, ma aperta. Tutta l'umanità, la creazione intera è in tensione liberatrice, escatologica, aspettando la liberazione affidata da Dio a Cristo nella storia degli uomini, e da Cristo ai suoi cristiani nello stesso scenario della storia. La storia continua ad essere un intreccio di oppressioni, schiavitù, sfruttamenti ma anche di liberazioni e speranze...

"La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità ?non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa? e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio" (Rom 8,21).

OPZIONE PER I POVERI[3]

È un fatto che Gesù nel Vangelo rivela la sua predilezione per i poveri. I suoi preferiti furono sempre i poveri; parla, infatti, più di poveri che di peccatori, più di feriti e malati che di malvagi, perché la Buona Notizia è proprio questa: il cristianesimo non è una morale ma una sconvolgente liberazione (Giovanni Vannucci).

Gesù non solamente si dedicò con preferenza ai poveri, ma si identificò con essi e soffrì la loro condizione sociale fino alle estreme conseguenze. L’opzione per poveri, per tanto, significa anzitutto seguire Gesù contemplando e assumendo gli atteggiamenti interiori del suo Cuore di povero: la sua donazione incondizionata al Padre, l’universalità del suo amore per il mondo e il suo coinvolgimento nel dolore e nella povertà dei più dimenticati della terra.

Signore Gesù, fratello dei poveri,
di fronte al torbido splendore dei potenti
ti facesti impotenza.
Dalle altezze stellari della divinità
scendesti all'uomo fino a toccare il fondo.
Tu che eri ricchezza, ti facesti povertà.
Tu che eri l'asse del mondo,
ti facesti periferia, emarginazione, cattività.

Lasciasti da parte i ricchi e i soddisfatti
e prendesti la fiaccola
degli oppressi e dei dimenticati,
e per questi scommettesti.
Levando in alto la bandiera della misericordia,
camminasti per le vette e valli oscure,
dietro le pecore ferite.

Dicesti che i ricchi già avevano i loro dèi
e che solo i poveri offrono spazi
liberi allo stupore;
per loro saranno il sole ed il regno,
il campo di grano ed il raccolto.
Beati!

È ora di levare le tende
e di metterci in cammino
per fermare la pena e il singhiozzo,
il pianto e le lacrime,
per spezzare il metallo delle catene
e sostenere la dignità combattente,
che giunge, implacabile,
all'alba della liberazione
in cui le spade saranno sepolte
nella terra germinatrice.

Sono molti i poveri, Signore;
sono legioni.
Il loro clamore è sordo,
crescente, impetuoso,
all'occasione minaccioso,
come una tempesta che si avvicina.

Dacci, Signore Gesù,
il tuo cuore sensibile ed ardito;
liberaci dall'indifferenza e dalla passività;
rendici capaci di impegnarci
e di scommettere, anche noi,
per i poveri e gli abbandonati.

È ora di raccogliere gli stendardi
della giustizia e della pace,
e di metterci in mezzo alle moltitudini,
fra tensioni e conflitti,
e sfidare il materialismo
con soluzioni alternative.
Dacci, o Re dei poveri,
la sapienza per intrecciare un'unica ghirlanda
con due fiori rossi:
contemplazione e combattimento.
E dacci la corona della Beatitudine. Amen.

2. IL DIO DELLA MISERICORDIA È SPOSO: DIO TI AMA CON CUORE DI SPOSO

L'immagine di Dio?Sposo è una delle più belle che ci presenta la Bibbia sull'amore che Dio nutre per noi, perché trova il suo fondamento in un fatto umano universale, che costituisce l'epicentro dello sviluppo della vita umana e che lancia la persona al di là di sé stessa in un'avventura di donazione di sé senza limiti.

Infatti, l’amore coniugale, nuziale, è certamente l'amore più appassionato, più intimo e, nello stesso tempo, più corporeo e per questo più visibile e palpabile.

È l'more che più impegna e unisce due cuori in un solo cuore, due corpi in un solo corpo: "Carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. E i due saranno una sola carne" (Gn 2,23.24).

L'amore nuziale è quello che trova mille modi per manifestarsi, espandersi e perfezionarsi; è quello che, più di qualsiasi altro amore, muove la respirazione, il sangue, il cuore; è quello che raccoglie ed esprime tutti i "gesti" del cuore.

È anche l'amore più fecondo, ordinato alla trasmissione della vita e alla sua conservazione. È un amore serio ed impegnativo, che richiede fedeltà per sempre, donazione totale reciproca corresponsabilità, comprensione e condivisione, esige un'unione stabile, un patto, un'alleanza; e tutto ciò si esprime nella convivenza.

Nello stesso, tempo è un amore nel quale esistono anche ombre e ambiguità, che nascono dallo scontro di questo amore con le vicissitudini della vita coniugale di ogni giorno, nella quale intervengono limitazioni personali, che molte volte si trasformano in frustrazioni, delusioni e perfino nell'assenza radicale del prossimo precisamente dentro il seno stesso dell'amore per mezzo dello sfruttamento dell'uno sull'altro...

Nella visione biblica, questa unione dell'uomo e della donna nel matrimonio, unione fatta di amore e di tenerezza, d'impegno radicale, con le sue gioie e le sue pene, con la sua parte di tradimenti e di perdoni, è sacramento di Dio, cioè, esprime in qualche modo la tenerezza, la fedeltà e la gratuità dell'amore di Dio. La Bibbia, quando ci rivela Dio che ama la sua creatura con amore di sposo, vuole sottolineare la tenerezza, la fedeltà e la gratuità di quest'amore: di Dio ci si può fidare, egli mai è grossolano e mai manca alle sue promesse e alle sue alleanze; Dio ama gratuitamente, senza pentimenti, senza interessi, senza egoismi.

Se Dio vuole farsi una sola cosa con l'uomo per mezzo di questo rapporto di tipo nuziale, lo fa soltanto per attrarre nella sua intimità l'uomo assetato di felicità, per farlo felice e salvarlo. Lo fa perché si stabilisca tra il Creatore e la sua creatura quel rapporto d'amore che è stato progettato al principio e che è destinato a realizzarsi in pienezza alla fine della creazione.

Lo fa perché la volontà della persona umana ritorni a coincidere con quella di Dio, e l'immagine di Dio impressa nel cuore umano ritorni a brillare in tutto il suo splendore. Quando l'uomo impara ad amare così come è amato da Dio, allora è uomo vero, compiuto, felice, salvato...

Infatti, questo barlume biblico dell'amore sponsale di Dio arriva ad illuminare l'amore degli uomini, arriva a togliere quest'amore dalla sua ambiguità e a portarlo alla sua pienezza al di là dell'orizzonte puramente umano...

A questo punto si verifica un'inversione di marcia: non andiamo più dall'amore umano a Dio, ma da Dio all'amore umano; l'amore di Dio si trasforma in parabola degli amori umani, che invita e insegna agl'uomini ad amare "come Dio ama", mettendo l'uomo in sintonia con ciò che fa vivere Dio stesso: l’uomo è capace di Dio. Allora l'amore coniugale assume l'amore di Dio come il progetto, che potrà essere realizzato impegnando tutta la vita...

In questa visione biblica, l’amore sponsale con Dio sarà l'esperienza fondante di tutto l'amore umano, vivificato dalla presenza di Colui che, nato da Dio, costituisce la vera vocazione del cristiano...

Fatti questi chiarimenti, sarà più facile meditare su quest'immagine di Dio-Sposo e confrontarci con essa, soprattutto affettivamente, nella contemplazione, e così gustare la tenerezza, la fedeltà, la gratuità dell'amore che Dio ha per noi come se ognuno di noi fosse unico al mondo e, nello stesso tempo, valutare il nostro modo di corrispondere a quest'amore...

Il primo che si serve dell'immagine dell'unione sponsale per spiegare il rapporto di Dio con il suo popolo, fin dall'Alleanza del Sinai, è il profeta Osea, vissuto nel sec. VIII a.C. contemporaneamente a Isaia, inaugurando così un tema ripreso con frequenza nella tradizione profetica e che trova pieno compimento in Cristo Gesù?Sposo della Chiesa.

Ma c'è qualcosa di originale nel messaggio di Osea, giacché ci parla di Dio-Sposo di Israele, prendendo come punto di partenza la sua stessa vita di sposo e il dramma che la lacera: Osea ha amato ed ama ancora una donna che non ha corrisposto a questo amore se non con il tradimento.

Infatti, la triste esperienza personale del profeta con la donna sposata che gli è divenuta infedele, sveglia in lui la coscienza che l'amore di Dio per il popolo è paragonabile al suo amore umano. Come egli non poteva ammettere la separazione definitiva dalla moglie, desiderando di conquistarla ancora al suo amore, così l'amore di Dio per Israele, divenuto infedele, era pronto al perdono se Israele avesse voluto tornare a lui, concludere con lui una nuova Alleanza, a ripartire dagli inizi, dal deserto. Israele non ha altro futuro che questo ritorno a lui e alla sua intimità del deserto: Os 1-3.

Per conquistare il suo popolo, Dio lo conduce al luogo della prima tenerezza, nella solitudine del Sinai, dove egli si era dichiarato suo Signore. Il popolo è troppo debole, troppo immerso nel peccato di idolatria, per potersi rialzare da solo. Dio lo vede, si intenerisce, sente ribollire in sé il primo affetto. Non attende più. Avanza verso il popolo che aveva eletto ad essere la "sposa" del suo cuore. E Dio, il più grande Amante della storia del mondo, l’attira a sé, la "seduce" irresistibilmente, rinnovando con lei l'Alleanza nel segno dello amore sponsale. "Tu mi chiamerai 'mio Marito' ed io ti farò 'mia sposa per sempre". La nuova Alleanza è paragonabile all'unione matrimoniale, fatta di benevolenza, di rispetto, di fedeltà, di misericordia: "Nella predicazione dei profeti la misericordia significa una speciale potenza dell'amore, che prevale sul peccato e sull'infedeltà del popolo eletto" (Dives in misericordia, 4; T. Beck, Gesù è il Signore, pp.66?68).

L'immagine Dio?Sposo, la profondità di quest'amore divino verso Israele e l'umanità intera, espressa nell'immagine simbolica dell'amore nuziale, costituiscono un momento di primaria importanza del messaggio del profeta Isaia.

Gerusalemme, l’umanità, non è più la vedova, non è più la prostituta abbandonata alla sua vergogna, ma la giovane sposa rivestita di gioielli con la quale Dio stabilisce un patto d'amore:
"Non temere, perché non dovrai più arrossire; non vergognarti, perché non sarai più disonorata; anzi, dimenticherai la vergogna della tua giovinezza e non ricorderai più il disonore della tua vedovanza" (Is 54,4).

Nella nuova Gerusalemme sarà assente ogni motivo di paura. Dio vuole che venga cancellato dalla sua memoria il triste ricordo del peccato: Se "per un breve istante ti ho abbandonato", ora "ti riprenderò con immenso amore" (Is 54,7).

Nell'unione ristabilita Dio intende compensare con l'intensità dell'amore la tristezza dei giorni della separazione, durante i quali era obbligato a contenere le espressioni del suo affetto verso Israele, che continuava ad essere per lui come la donna sposata in gioventù, immensamente amata. Così, nell'Alleanza rinnovata dopo l'Esilio, Dio ritorna ad essere lo Sposo di Israele. Quest'Alleanza, che ha per fondamento l'amore fedele di Dio, sarà indefettibile:
"Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia!f(Is 54,10).

Dio si impegna a proteggere il suo popolo e ad amarlo con costanza e tenerezza come lo sposo protegge ed ama la sua sposa. Nel simbolo dell'amore nuziale viene rinnovata un'Alleanza indissolubile, chiamata "Alleanza di pace", perché garantisce stabilità, benessere, felicità, sicurezza e prosperità.

L'esperienza di quest'Alleanza produce nel popolo di Dio e in ogni persona un cambiamento radicale, che riveste la sposa di nuova bellezza. L'amore è creativo. Per questo, riscatterà Gerusalemme dalla sua oppressione:
"Afflitta, percossa dal turbine, sconsolata, ecco io pongo sulla malachite le tue pietre e sugli zaffiri le tue fondamenta. Farò di rubini la tua merlatura, le tue porte saranno di carbonchi, tutta la tua cinta sarà di pietre preziose" (Is 54,11?12).

Cosi adornata, Dio la introduce con sé nella camera nuziale: sarà sua per sempre e niente potrà mai toglierle la sua pace e la sua gioia:
"Sì, come un giovane sposa una vergine, cosi ti sposerà il tuo architetto; come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te” (Is 62,5).

Allora si eleverà dal cuore della sposa il canto della lode e del ringraziamento:
"Voglio ricordare i benefici del Signore, le glorie del Signore, quanto egli ha fatto per noi. Egli è grande in bontà per la casa di Israele. Egli ci trattò secondo il suo amore, secondo la grandezza della sua misericordia" (Is 63,7).

L'attuazione della nuova Alleanza d'amore fra Dio e Israele, descritta con tanta bellezza lirica dai profeti, trascende i limiti e sfocia nel Nuovo Testamento, dove trova il suo compimento: nell'Incarnazione-Passione-Morte-Risurrezione del Figlio, Dio ha sposato tutta l'umanità, inviandoci il vero "Sposo Cristo Signore (cf. Gv 3,22?4,3).

Il Dio che parla al cuore, che restituisce tutti i beni messianici, perduti col peccato, che fa cantare la sposa come nei giorni della sua giovinezza, viene a noi nella Persona di Gesù di Nàzaret.

Nell'intravvedere il futuro di Israele, i profeti, anche senza esserne coscienti, per mezzo dell'immagine di Dio?Sposo, ci descrivono la figura di Cristo Signore. In Lui ha inizio la Nuova Alleanza, interamente stipulata nella misericordia e nella benevolenza. Sulla Croce, dove i Padri della Chiesa videro concluso il mistico connubio fra Cristo e la Chiesa, quest'amore benevolente e misericordioso ha raggiunto il vertice di ogni possibile realizzazione.

Gesù ha definitivamente "attirato" a sé ogni anima per farla "sua per sempre” ed essa, redenta nel suo sangue, trasformata dalla forza del suo Amore, potrà conoscerlo veramente come l’unico suo “Signore”.

Paolo, quando parla del "grande mistero" che è l'unione di Gesù con la Chiesa (cf. Ef 5,25?32), riprende l'immagine anticotestamentaria del patto nuziale tra Dio e Israele e la sviluppa alla luce del mistero dell'Incarnazione-Passione?Morte?Risurrezzione di Gesù. Nell'era messianica, con la venuta di Gesù, Sposo Figlio, l’immenso amore sponsale di Dio scende nel cuore della Sposa che è la Chiesa. La profezia veterotestamentaria trova il suo perfetto compimento nella Nuova Alleanza, nella quale si realizza in pienezza "l'amore eterno", la “pietà" di Dio verso il suo popolo e verso ciascuno di noi.

La sua promessa, infatti, è rivolta al Popolo di Dio, alla Chiesa, Sposa di Gesù Signore, a noi che viviamo nell'era messianica. Dio vuole concludere con ciascuno di noi un'Alleanza di amore eterno nel Cuore Trafitto di Gesù, Icona dell'Amore-Misericordia del Padre.

Così è il nostro Dio: Egli ci ama in modo unico, nuziale, chiamandoci ad una esistenza nuova, la Sua, quella di "sposati" con il Verbo, nell'acqua e nel sangue che sgorgano dal suo costato aperto dalla lancia...

Assumere questa caratteristica dell'Amore di Dio e incarnarla nel quotidiano della vita, costituisce un passo decisivo nell'elaborazione di una immagine autentica del nostro Dio e nella pianificazione della risposta vocazionale specifica.

Nella Chiesa, infatti, tutti siamo chiamati ad essere "la Sposa" di Cristo, giacché in Cristo non c'è più né uomo né donna, per il fatto che tutti siamo una sola cosa in Lui, e la femminilità si trasforma nel simbolo di tutta l'umanità; per tanto, si può dire che davanti a Dio esiste un'identità femminile di tutta la Chiesa, anzi di tutta l'umanità, senza per questo perdere di vista la distinzione dei ruoli sessuali maschile e femminile secondo la Genesi, anche da un punto di vista spiritule?vocazionale.

Tutti gli stati di vita possibili nella Chiesa e assunti dal Concilio Vat. Il sono compresi implicitamente nel mistero sponsale dì Ef 5, costituendo assieme l'unico Corpo di Cristo, o la Sposa di Cristo, che è nata da un eccesso d'amore manifestato nel Supremo Sacrificio della Croce. La Chiesa è la Sposa della gioventù, il Corpo che Gesù fa suo e al quale da alimento ed amore.

3. IL DIO DELLA MISERICORDIA È PADRE E MADRE[4]

A suo tempo suscitò ampia risonanza e parve cosa inaudita l’affermazione di papa Giovanni Paolo I all’Angelus del 10 settembre 1978: “Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile... È papà, più ancora è madre”.

Si può commentare questa affermazione con una testimonianza visiva, quella della celebre immagine secentesca di Rembrandt, il pittore olandese, maestro nel dare forma e colore ai più intimi stati d’animo. Si tratta dell’abbraccio che il vecchio padre offre al figlio prodigo. Gli occhi si sono spenti nella lunga attesa e le due mani poggiate sulla schiena ricalcano rispettivamente fattezze femminili e maschili. Dio dunque esprime amore a un tempo paterno e materno verso le sue creature, soprattutto quelle che, allontanatesi da lui, risultano ancor più bisognose. La raffigurazione di Rembrandt come l’affermazione di Giovanni Paolo I, sono eco di una convinzione che rimonta alla più remota antichità, si rifà al pensiero dei Padri e all’insegnamento dei Santi: “Io non ho madre, tu sei mia madre; io non ho padre tu sei mio padre” (Gudea di Lagash, 2150-2130 a.C., re mesopotamico). Dio “per la misericordia con cui ci circonda è madre. Amandoci, il Padre è come se rivestisse un ruolo femminile”  (Clemente Alessandrino, +212). Dio “si fa...e padre e madre insieme” ed è “più che padre e madre”  (Sant’Antonio M. Zaccaria, +1539). “E così io vidi che Dio è contento di essere nostro padre; e Dio è contento di essere nostra madre”  (Giuliana di Norwich, inizio del sec. XV).

A fondare il duplice attributo della paternità e della maternità divine è l’antropomorfismo del linguaggio biblico, sul quale ha richiamato l’attenzione la Lettera apostolica Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II: «Se c’è somiglianza tra il Creatore e le creature, è comprensibile che la Bibbia abbia usato nei suoi riguardi espressioni che gli attribuiscono qualità sia “maschili sia femminili”».

3.1 Dio è Padre[5]

Il legame paterno-filiale che si stabilisce tra Dio e l’uomo, emerge con tutta chiarezza dalle pagine bibliche ed è riassunto in un’espressione lapidaria: “Io gli sarò Padre ed egli mi sarà figlio”. Ciò viene detto per l’intero popolo d’Israele, che quindi fonda la sua esistenza proprio nel fatto di essere il figlio primogenito di Dio: Es 4, 21-23; Dt 14, 1-2; viene ancora detto per i re di Israele: 1Cr 22, 10; 28, 6; e in fine per Gesù Cristo: Eb 1, 5 e per il nuovo popolo di Dio: Ap 21, 7. Nell’Antico Testamento, per tanto, emerge in primo piano l’immagine di Dio come Padre d’Israele. Egli è per definizione il Padre, in cui spicca l’attitudine della tenerezza: Sl 103, 13;  Is 63, 15-16. Una tenerezza che non è novità assoluta, perché è già attributo inalienabile di Jahvè: Es 34, 6;  Sl 25, 6; 40, 12; 51, 3; 79, 8; 116, 5; 119, 77.156. In quanto figlio primogenito di Dio, il popolo è libero e, quando viene reso schiavo, il Padre suo ne reclama la libertà e viene a riscattarlo: per lui ferisce i primogeniti d’Egitto e lo fa uscire dalla schiavitù: Es 1,15.

Passano i secoli e il popolo d’Israele, a causa della sua infedeltà, viene condotto in esilio. L’infedeltà del popolo non invalida però la fedeltà paterna di Dio, il quale interviene di nuovo in favore del suo primogenito, per farlo uscire dall’esilio in cui si trova. È quanto annuncia ripetutamente il profeta dell’esilio, il Secondo Isaia: Is 43, 1-7. A lui si unisce anche Geremia, annunciando che durante il ritorno, nel cammino attraverso il deserto, Israele esperimenterà la protezione paterna di Dio: Ger 31, 9.

In questo contesto, le profezie raccolte nel Libro del profeta Isaia ci parlano della gloria di Dio, che rivela la sua smisurata grandezza nell’immagine di un padre, in modo da allontanare ogni sentimento di sfiducia nei confronti dell’intervento misericordioso di Dio nella storia del popolo come pure nella storia degli individui. Soprattutto il Secondo Isaia annuncia con le sue profonde intuizioni la nuova era, che comincerà definitivamente con la Incarnazione del Figlio di Dio. I suoi vaticini, infatti, predicono il tempo in cui l’Alleanza tra Dio e il popolo non sarà più come quella conclusa con gli antichi padri, ma qualcosa di diverso, che riflette la pienezza dell’amore del Signore. Il profeta descrive questa Nuova Alleanza, servendosi delle più belle immagini, per convincere il popolo che Dio si è rivelato come Signore non soltanto nel primo Esodo dall’Egitto, ma che lo stesso Dio sarebbe tornato con segni e prodigi per creare un nuovo Israele, per restaurare un regno di amore e di giustizia.

Anzitutto si ascolta l’annuncio che il Signore, nella sua protezione paterna verso Israele, non dimentica nessuno. È sbagliato dire: “La mia sorte è nascosta al Signore e il mio diritto è trascurato dal mio Dio”
(Is 40, 27). Dio nella sua infinita bontà non si stanca di beneficiare quanti confidano in Lui. Da essi esige soltanto di sperare sempre, mettendo da parte ogni pessimismo e ogni inutile preoccupazione: “Quanti sperano nel Signore, riacquisteranno forza” (Is 40, 31). Infatti, Dio interviene con la sua protezione paterna e liberatrice e rinnova le forze di chi crede in Lui, e con la forza gli infonde nuova vitalità che si diffonde nel suo corpo e nel suo spirito (cf. Ez 37, 1-14). L’amore paterno di Dio è annunciato anche dal profeta Osea: Os 11, 1-11.

Dall’immagine di Dio-Sposo il profeta passa all’immagine di Dio-Padre. L’esperienza della paternità è divenuta trasparente nel profeta ed in essa contempla l’amore di Dio per il suo popolo. L’amore nuziale di Dio per Israele è accompagnato dall’amore paterno dello stesso Dio. Dio-Sposo è nello stesso tempo Dio-Padre per Israele.

Il profeta Osea, ricordando le origini d’Israele come popolo, sottolinea come la protezione di Jahvè verso il suo popolo è stata realmente quella di un padre, che insegna a dare i primi passi al suo piccolo figlio, liberandolo dai popoli nemici e operando prodigi per introdurlo fino all’accesso nell’età piena di adulto. Israele è il figlioletto coccolato da Dio. All’inizio lo fece uscire dall’Egitto e d’allora continua a chiamarlo e cerca di attrarlo “con legami di bontà” (v.4) o manifestazioni affettuose di compassione. L’immagine dei legami di bontà (o legami umani) sembra alludere alle corde con cui la mamma lega attentamente il suo piccolo al suo corpo, affinché non cada.

Israele è stato portato in braccio, protetto da Jahvè e alimentato da Lui (“mi chinavo su di lui per dargli da mangiare”) in modo miracoloso nel deserto, affinché non soccombesse nella sua infanzia come nazione. Ma Israele si comporta come un figlio ingrato e comincia a darsi una condotta depravata.

Jahvè, precisamente perché è Padre, non rinuncia alla sua protezione paterna e, per questo, deve correggere suo figlio. Non lo distruggerà, perché l’amore mai è distruttore, ma per mezzo del castigo purificatore, lo condurrà alla sua vera patria.

Questa è la storia di ogni persona umana nello sviluppo della sua vocazione divina: Eb 12, 1-13. L’amore paterno di Dio è annunciato da Geremia come invito alla conversione, in cui Dio rivela la sua intimità di Padre: “Su, riconosci la tua colpa, perché sei stata infedele al Signore tuo Dio; hai profuso l'amore agli stranieri sotto ogni albero verde e non hai ascoltato la mia voce. Oracolo del Signore. Io pensavo: Come vorrei considerarti tra i miei figli e darti una terra invidiabile, un'eredità che sia l'ornamento più prezioso dei popoli! Io pensavo: Voi mi direte: Padre mio, e non tralascerete di seguirmi” (Ger 3, 13.19).

3.2 Dio ha cuore di madre[6]

L’immagine di Dio-Padre, nella dimensione della sua tenerezza, viene sviluppata nei testi biblici in direzione dell’immagine di Dio-Madre, sottolineando la caratteristica materna della tenerezza divina e facendo risaltare così il volto materno di Dio. Sion, Gerusalemme, identificata con il popolo d’Israele, si era lamentata: “Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato” (Is 49, 14).

Certo, avrebbe meritato il rimprovero divino per la sua sfiducia. Ma Dio, conoscendo la debolezza della città prediletta, le si era avvicinato con infinita delicatezza, rivelando con tristezza, sotto forma di domanda, quanto gli riuscisse penosa la sua sfiducia: Si dimentica forse la donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non mi dimenticherò mai. Ecco ti ho disegnato sulle palme delle mie mani” (Is 49, 14-16). Dio mostra una vera delicatezza materna nei confronti dei propri figli in pena e li consola: “Succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni... Poiché così dice il Signore: Ecco io farò correre verso di essa, come un fiume, la prosperità..., i suoi bambini saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati” (Is 66, 1-13).

In diversi altri passi di Isaia, l’amore di Dio, sollecito per il suo popolo, è presentato a somiglianza di quello di una madre: così come una madre, Dio “ha formato, ha portato, ha aiutato, ha sorretto” l’umanità e, in particolare, il suo popolo eletto nel proprio seno, lo ha partorito nei dolori, lo ha nutrito e consolato: Is 46, 3-4; 44, 2.24; 42, 14.

Anche nei Salmi Dio viene paragonato ad una madre premurosa: “Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia.”: Sl 131, 2-3. “Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno”: Sl 71, 6. “Sei tu che ha i creato le mie viscere e mi hai tessuto nel seno di mia madre”: Sl 138, 13.

La paternità divina si esprime, per tanto, come vera e propria maternità, fonte di bontà e di tenerezza che costituiscono due attitudini con cui la madre continua, su un piano psicologico, l’azione procreatrice. È interessante notare come in alcuni testi profetici l’amore paterno di Dio, ?espresso dalla parola hesed: amore forte, tenero, fedele nelle prove?, è espresso anche con il termine rachamim, che incorpora i tratti di carattere fisiologico della tenerezza materna, che mettono in movimento le viscere[7].

Infatti, rachamim è la “matrice, il grembo materno, luogo della cura, della difesa e della crescita della vita nel suo primo sorgere e dice l’amore viscerale della madre verso i suoi figli. Così, questo termine con l’immagine della “matrice”, sottolinea quasi la fisicità della misericordia di Dio, che è quindi un amore “matriciale”, “sviscerato”, cioè un sentimento profondo, spontaneo, intimo, fatto di tenerezza, comprensione, compassione, indulgenza e perdono come quello di una madre verso i propri figli.

Se si rileggono le immagini che Osea applica a Dio, si può chiaramente notare che sono quelle tipiche di una madre premurosa che si prende cura dei suoi figli più piccoli: insegnar loro a camminare tenendoli per mano, sollevarli per poi baciarli sulla guancia, chinarsi per dar loro da mangiare. Dio usa nei confronti del suo popolo la stessa pedagogia d’amore che ogni mamma adopera con i suoi figli:
“Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio... A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro! Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione”  (Os 11, 1 -4). Allo stesso modo si esprime Geremia: “Non è forse Efraim un figlio caro per me, un fanciullo prediletto? Infatti, dopo averlo minacciato, me ne ricordo sempre più vivamente. Per questo le mie viscere si commuovono per lui, provo per lui profonda tenerezza”. (Ger 31, 20).

Appare così l’infinita differenza tra l’amore di Dio e l’amore umano: l’amore di Dio è stabile, fedele, non si lascia condizionare da sentimenti superficiali o da recriminazioni. L’amore di Dio verso l’uomo è l’unico principio che dà senso a tutti i suoi interventi nella storia che, proprio per questo, è Storia di Salvezza, cioè, dell’amore paterno-materno di Dio per il suo popolo e per l’intera umanità.

Dio è fedele in questo suo rapporto d’amore con gli uomini: è più fedele di una madre. Come ha promesso di non dimenticare mai la sua città, così non abbandonerà mai nessuno dei suoi figli. Come Gerusalemme sarà ricostruita e rivestita di nuovo splendore, così ciascuno di noi, che si è creduto dimenticato da Dio, tornerà a nuova vita. La nostra situazione di persone dimenticate, senza nome e dignità, in una parola, tutto ciò che ci fa sentire orfani e ci toglie la gioia di sentirci amati, sarà cancellato dalla nostra vita. Dio colmerà il nostro senso di vuoto e di incompiutezza con la sua presenza materna e ci farà sentire quanto grande sia il suo amore.

Dio non è uomo né donna. Nell’Antico Testamento il titolo di Padre riferito a Dio e le immagini della madre a lui attribuite trascendono i riferimenti maschili e femminili ed esprimono l’intero arco luminoso dell’amore di Dio, che ama le sue creature con cuore di padre e di madre. Esprimono, per tanto, la potenza creatrice, la protezione, l’autorità, il sostentamento della vita da parte di Dio, che ha viscere di misericordia e le manifesta come “viscere di misericordia del nostro Dio” (Lc 1, 78).

Allora ecco: Dio si presenta all’uomo con cuore di padre, con tenero amore di padre. L’amore paterno è “amore fontale”, potenza creatrice, perché sta alle origini della vita che procrea e sostiene. Nell’amore paterno si fa presente la sicurezza, la provvidenza, la protezione, il solido rifugio. Dio è padre d’Israele, perché lo ha scelto, lo ha liberato dalle schiavitù, lo protegge e lo vuole libero, perché possa espandersi nella comunione d’amore con Lui, nutrita di fede e priva di ogni costrizione. Ci ricorda anche la nobiltà della stirpe, la grandezza del destino e la ricchezza dell’eredità.

Nello stesso tempo Dio va incontro alla creatura umana con cuore di madre. L’amore materno è, forse, quello che più fortemente resta inciso nel cuore dell’uomo, fino a poter dire: ”Il mio cuore è il cuore della mia mamma”. Dio ci vuole assicurare la sua capacità di amarci come una madre, anzi, molto più, infinitamente più di una madre. Come fa una madre con il suo bambino, egli ci dà la vita, ci dà il corpo e il sangue, ci dà il cuore. Poi ci nutre, ci tiene puliti, ci protegge. Ci bacia, ci abbraccia, ci porta in braccio. Ci insegna tutte le cose della vita.

Non si dimentica mai di noi; addirittura, per non perderci mai di vista e per non dimenticarci, ci ha disegnati sulle sue mani!...

Ancora la misericordia! Sia sempre benvenuta! Da sempre non c’è parola più adatta per definire Dio; essa esprime mirabilmente gli aspetti fondamentali del volto divino. E’ inoltre figlia prediletta dell’amore e sorella della sapienza; nasce e vive tra perdono e tenerezza. “Oh Dio della misericordia, io so che il Tuo cuore racchiude tutta la tenerezza e tutta la dolcezza. Il mio cuore ha fame della Tua tenerezza. Avvolgimi sempre con il manto della Tua misericordia, Amen.” (Ignacio Larrañaga)

3.3 Dio Padre-Madre nella persona, nei gesti e nelle parole di Gesù

Nel Nuovo Testamento, Gesù ci chiama a contemplare nel Padre d’Israele il Padre suo, il Padre dell’umanità, Colui che ci vuole figli suoi nel Figlio. È dalla parola di Gesù che noi arriviamo a conoscere il vero nome di Dio, che è Padre, Figlio e Spirito Santo. Sulle labbra di Gesù la parola “Padre” svela il segreto intimo di Dio, che è comunione trinitaria: il Padre che ama e genera il Figlio; lo Spirito Santo, amore reciproco tra Padre e Figlio, che procede dal Padre e dal Figlio. Il nome “Padre” deriva dalla generazione del Figlio nella carità. Per questo solo Gesù, il Figlio di Dio incarnato, può rivelare in pienezza il Padre e il suo amore per noi.

Dall’esperienza, dai gesti e dalle parole di Gesù sorge l’immagine di un Dio Padre, con cuore di madre, un Padre dal volto materno. In realtà, il Padre rivelato da Gesù è amore che comprende, che accoglie, che dona, ricco di misericordia, di perdono e di grazia. La persona di Gesù è la realizzazione storica e definitiva del modo di essere e di comportarsi di Jahvè, che dona all’umanità “il suo Figlio unigenito (cf. Gv 3, 16) e in Lui si china sull’umanità intera, abbracciandola con la sollecitudine e la tenerezza del Padre e della Madre.

  • La compassione e la misericordia del “samaritano”: Lc 10, 33-37;
  • la longanimità di fronte all’ “amico importuno”: Lc 11, 5-8;
  • l’ “intercessione del vignaiolo”: Lc 13, 6-9;
  • l’ospitalità generosa verso i poveri, storpi, zoppi, ciechi: Lc 14, 12-14.21-23;
  • l’attenzione e il trattamento riservato al povero Lazzaro: Lc 16, 19-31, ma anche al ricco capo dei pubblicani: Lc 19, 1-11;
  • il perdono smisuratamente generoso del “fratello”: Lc 17, 3-4;
  • la ricerca di ciò che era perduto da parte del Figlio dell’Uomo: Lc 19, 19.

Questi gesti sono le abitudini di Gesù.

Egli paga del suo in favore dell’uomo assalito e lasciato mezzo morto sulla strada; egli, salendo a Gerusalemme, zappa attorno al fico sterile, che rappresenta Israele, e vi mette il concime con il suo stesso ministero e, soprattutto, con la sua Passione-Morte-Risurrezione.

Le tre parabole della misericordia del cap. 15º di Luca sono una proclamazione e illustrazione delle tenerezza di Dio, specialmente la parabola del Figlio prodigo, che dimostra “come è fatto il cuore del Padre” (vv. 11-12).

Inoltre esse costituiscono l’autogiustificazione che Gesù offre di fronte alle mormorazioni di qualificati rappresentanti della sua nazione a causa della sua condotta messianica (vv. 1-3). Gesù giustifica le sue abitudini, appellandosi a quelle del Padre, a ciò che succede nel cielo davanti agli Angeli di Dio. La sua sollecitudine e tenerezza verso “tutti i pubblicani e peccatori” è la rivelazione e la realizzazione storica definitiva della sollecitudine e tenerezza del Padre verso tutti i suoi figli, i maggiori e i minori, Israele e tutti i popoli del mondo (cf. Tito 2 1?3, 7).

Gesù ama gli uomini con la stessa sollecitudine e tenerezza paterna e materna di Dio. Sullo sfondo delle parabole della misericordia emerge la figura di Gesù-pastore, di Gesù-donna di casa, di Gesù-padre e la sua gioia e la festa per il ritrovamento avvenuto (vv. 5-7.9-10.22-32). Gesù, per tanto, che pure ebbe altissima la considerazione di Dio come Padre, fa trasparire dai suoi gesti e parole anche il volto materno di Dio. Egli afferma di sé che “il Figlio unigenito... è nel seno..., nel grembo del Padre” (Gv 1, 18 e 13, 25), là dove i termini impiegati indicano rispettivamente il petto (muliebre) e l’utero materno, e di qui è “uscito” (Gv 13, 3; 16, 27.28.30; 17, 8) per venire nel mondo.

Non pochi protagonisti di celebri parabole sembrano vibrare di tenerezza fisiologica, “matriciale”, che rimanda ai tratti materni di Dio già registrati nell’Antico Testamento. È il caso del padrone indulgente verso il servo indebitato (Mt 18, 27), del Samaritano (Lc 10, 33) e del padre del prodigo al suo ritorno (Lc 15, 20). Nel suo rapporto con Gerusalemme, Gesù si presenta sotto l’immagine della chioccia: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto!” (Lc 13, 34-35; cf. Lc 19, 41-44).

Gesù è per Gerusalemme ciò che la chioccia è per i suoi pulcini, cioè, Gesù ama Gerusalemme e consegna se stesso per lei come una madre, nonostante le infedeltà di Gerusalemme. Nella tenerezza di Gesù verso Gerusalemme si riflette la tradita fedeltà di Dio al suo primo amore. Gesù focalizza ancora lo stile materno del suo amore fino alle sue ultime conseguenze, quando è già in prossimità della morte. Gesù, nel mistero della sua morte, è la madre che dà alla luce l’uomo nuovo: “Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia” (Gv 16, 20b-23a.21).

Quest’immagine è in stretta relazione con quella del chicco di grano che cade in terra e muore: “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12, 24).

Nei due casi l’immagine si riferisce direttamente a Gesù, e perciò si applica anche alla sua comunità. Gesù dona la sua vita come una madre per creare l’uomo nuovo, quello che possiede la vita nuova e definitiva, ed i suoi sono chiamati a partecipare di questi dolori di parto, che saranno i dolori di parto della nuova umanità.

In conclusione

L’amore di Dio è un amore di padre con cuore di madre, che ha nel suo Figlio Gesù “il primogenito” e in noi figli adottivi, grazie al dono dello Spirito Santo effuso nei nostri cuori nel sacrificio redentivo di Gesù sulla Croce. L’effusione dell’amore di Dio nei nostri cuori ci costituisce “profeti dell’amore di Dio nel mondo”. Perciò, siamo chiamati ad essere, l’uno per l’altro, causa di salvezza attraverso la testimonianza vissuta, passiva ed attiva del suo amore.

Passiva in quanto viviamo il fatto che è Dio ad amarci per primo; attiva in quanto la consapevolezza che Dio ci ama dell’amore più disinteressato, ci muove a ricambiarlo con altrettanto amore, amando i nostri fratelli e figli suoi come Lui ci ama: la “divina misericordia” trabocca dal cuore di Dio Padre-Madre al Cuore del Figlio Gesù e dal Cuore di Gesù al nostro cuore e dal nostro cuore al cuore del mondo.

PADRE

Come ti chiamerò,
Tu che non hai nome?
Colui che uscì dagli abissi
della tua solitudine,
il tuo inviato Gesù, ci disse
che tu eri e ti chiamavi Padre.
Fu una grande notizia.

Anche se tentassi di sfuggire
al tuo cerchio d’amore,
anche se scalassi monti e stelle,
anche se volassi con le ali della luce, tutto sarebbe inutile...
Mi insegui ineluttabilmente,
mi circondi, mi inondi, mi trasfiguri.

Nella tranquilla sera dell’eternità,
mentre eri vita e fuoco in espansione,
io vivevo nella tua mente,
mi carezzavi come un sogno dorato,
e  portavi scritto il mio nome
sul palmo della tua mano destra.
Io non lo meritavo,
ma Tu già mi amavi senza un perché,
mi amavi come si ama un figlio unico.

Mi dicono che i tuoi piedi percorsero
i mondi e i secoli
dietro alla mia ombra sfuggente,
e quando mi incontrasti
il cielo si profuse in canti.
Con una notizia così buona
mi hai trasformato
in un figlio prodigiosamente libero.
Grazie.

Dalla notte della mia solitudine
alzo le braccia per dirti: o Amore,
Padre Santo, mare inesauribile di tenerezza,
coprimi con la tua Presenza,
perché ho freddo,
e spesso ogni cosa mi fa paura.
Dicono che dove c’è amore, non c’è timore;
perché, allora, questi negri destrieri
mi trascinano verso mondi ignoti
di ansietà, di paure e di apprensioni?
Padre amato, abbi pietà,
e dammi il dono della pace,
la pace di un tramonto.

Ed ora demolisci i miei vecchi castelli,
le alte mura del mio egoismo,
finché non resti in me
nemmeno la polvere di me stesso,
e così io possa essere trasparenza
per i miei fratelli.

Allora, passando
per i mondi desolati,
sarò anch’io tenerezza ed asilo,
illuminerò le notti dei pellegrini,
dirò agli orfani: “Io vi sono mamma”,
darò ombra agli esausti,
patria ai fuggiaschi,
e quelli che non hanno un focolare
ripareranno sotto la grondaia del mio tetto.

Io so che Tu sei la Presenza Amante,
l’Amore Avvolgente,
bosco infinito di braccia.
Sei perdono e comprensione,
sicurezza e certezza, giubilo e libertà.

Tu sei il mio Focolare e la mia Patria.
In questo focolare desidero riposare
al termine del combattimento.
Tu veglierai per sempre il mio sogno,
o Padre, eternamente amante ed amato.
Amen[8].

Esco per la strada e Tu mi accompagni;
mi ingolfo nel lavoro
e mi rimani accanto;
nell’agonia ed anche oltre
mi dici: sono qui, vengo con te.

 

4. IL DIO DELLA MISERICODIA È PASTORE

Is 40, 11; Ez 34, 11-16; Gv 10, 1-8; Sl 23

L'amore di Dio per il suo popolo è quello del pastore che ama le sue pecore: “Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; mi fa riposare... mi conduce... mi rinfresca... mi guida... Non temo alcun male, perché tu sei con me” (Sl 23). Un aspetto nuovo dell’amore di Dio è quello del pastore che ama le sue pecore. Non è l'amore-interesse di un pastore-padrone, ma un amore che presenta tutti i segni e i gesti di un cuore appassionato: "Come un pastore (Dio) fa pascolare il gregge, con il suo braccio lo raduna: porta gli agnellini sul seno e conduce piano piano le pecore madri” (Is 40, 11). “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare... Andrò in cerca della pecora perduta, e ricondurrò all’ovile quella smarrita; fascerò quella ferita e curerò quella malta, avrò cura della grassa e della forte. Io salverò le mie pecore!” (Ez 34, 15-22). Gregge del Signore è il suo popolo: “Dio ama il suo popolo”, anzi, “il Signore ama i popoli” tutti, senza distinzione, anche se predilige Israele, che può esclamare: ”Egli ci ha fatti e siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo” (Sl 100, 3).

Oggi, ogni uomo può gridare, con la stessa esultanza e con lo stesso orgoglio, di appartenere al gregge di Dio, e di avere concentrato su di sé tutto l’amore del pastore che lo guida e lo conduce. La possibilità che le sue pecore siano assalite, decimate e deportate con la forza a “paesi lontani”, dove correranno il rischio di dimenticarsi di lui “per servire altri dei”, fa piangere il suo cuore di Pastore: “Se voi, cattivi pastori, non mi ascolterete, io piangerò in segreto dinanzi alla vostra superbia; il mio occhio si scioglierà in lacrime, perché sarà deportato il gregge del Signore!” (Ger 13, 17).

Sono le prime lacrime di Dio che troviamo e non saranno le ultime (Cf. Lc 13, 34-35; 19, 41-44; 22, 39-40). Lacrime segrete come di chi piange da solo, perché nessuno è capace di capire e condividere la grandezza del suo dolore. Lacrime segrete, perché nessuno le potrà vedere, perché son lacrime del cuore, dell’intimo di Dio. Lacrime di Dio per la sorte dell’uomo che rischia la distruzione e la morte. Le lacrime sono il “gesto” più struggente di un cuore che ama, e da questo cuore in lacrime nasce una promessa: “Io vi darò pastori secondo il mio cuore!” (Ger 3, 17).

L'immagine del pastore, applicata ai capi, al re e a Dio, è tradizionale nell’Antico Testamento. I patriarchi, i profeti e i salmisti usano l'immagine del pastore per descrivere il rapporto di Dio con il suo popolo e per delineare la figura del Messia: cf. Gn 49, 24; Os 4, 16; Is 40, 11;44, 28; Ger 23,1-8; Ez 34; Zc 11; Mi 5, 3; Sl 23; 80. Quest'immagine dell'amore di Dio nella figura del pastore è sviluppata in modo particolare dal profeta Ezechiele. Ezechiele fu uno dei deportati di Nabucodonosor in Babilonia nel 597 a.C. Nei lunghi anni dell'Esilio poté sperimentare la necessità di opporre all'attività dei falsi pastori d'Israele che sfruttavano il popolo, l’immagine del vero Pastore, Dio stesso, nelle cui mani si trova sicuro il futuro destino d'Israele. L’amore preoccupato e provvidente di Dio-pastore non sopporta che qualche pastore malvagio tratti male le sue pecore e ardisca sfruttarle e portarle alla rovina. Allora alza la voce e minaccia: “Non avete pascolato il ,mio gregge, non avete dato forza alle pecore deboli, non avete curato le malate, non avete fasciato quelle ferite, non avete portato a casa quelle disperse. Non siete andate in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa dl pastore si sono disperse e sono sbandate. Vanno errando. Nessuno va in cerca di loro, nessuno se ne cura!”  (Ez 34, 4-6).

Ma, nel presentare Dio come Pastore, il profeta dovette tradurre l'immagine del Dio potente, invincibile, trionfatore di ogni battaglia, nel l'immagine molto più familiare, dolce e mite del Pastore. Ezechiele ha sviluppato quest'idea in modo tale che il termine sembra già anticipare il passaggio della gloria di Jahvè nel roveto ardente alla gloria di Jahvè ancora più grande e infinitamente umile di Gesù-Signore. Per mezzo dell'immagine del "Pastore", così ben conosciuta nella vita palestinese, Ezechiele ha anticipato una delle più belle figure del Nuovo Testamento, quella del Buon Pastore; con questo oracolo il profeta ha cominciato a preparare i cuori all'accoglienza del Signore Gesù, che avrà l'audacia di proclamare: "Io sono il buon Pastore": Ez 34, 11-16; Gv 10, 1-8.

E Gesù lo dice con le stesse parole usate da Ezechiele, in modo che i suoi ascoltatori non potessero dubitare della sua consapevolezza di essere identico al Dio dell'A.T. e di manifestare in sé il Dio della gloria nell'immagine della sua tenerezza, cioè del Pastore. Gesù-Pastore va in cerca delle sue pecore e si prende cura dì esse, le conduce al pascolo, non risparmia fatica per raccogliere le smarrite (cf. Lc 15, 4-7) e fasciare le loro piaghe, perché è cosciente che il Padre gli ha affidato questa missione. In Gesù "è apparsa la grazia di Dio...,  si sono manifestati la bontà di Dio, Salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini" (Tito 2, 11; 3 ,4). Così si esprime Paolo nella sua lettera a Tito, pensando forse alla figura del Pastore, nella quale la presenza gloriosa di Dio appare nella sua mansuetudine e dolcezza.

Ecco la Nuova Alleanza, "Alleanza Eterna" del "Pastore grande, il Signore nostro Gesù", conclusa nel suo sangue (Eb 13, 20). È l'ultima, la più gloriosa manifestazione di benevolenza e misericordia di Dio, preannunciata da Ezechiele, nel suo annuncio dell'era nuova di pace sotto la guida del nuovo Pastore: "Susciterò per loro un pastore nuovo che pascerà le mie pecore. Davide mio servo ? che sarà poi la figura di Gesù? le condurrà al pascolo" ed "io, il Signore, sono il loro Dio" (Ez 34, 23-24).

Il termine di Jahvè-Signore, lo stesso di Esodo, cap. 6, appare qui in tutta la sua importanza definitiva: il Dio della gloria, creatore del cielo e della terra, si rivela all'uomo nel mistero del suo amore, della sua benevolenza, della sua compassione per chi soffre e geme. E quasi per sottolineare la portata di questo sublime mistero, il profeta ci fa ascoltare di nuovo: "Io, il Signore, ho parlato" (Ez 34, 24).

La parola divina è verità assoluta, che si realizza sempre e dovunque. Così nell'Alleanza che Dio intende stringere con gli esiliati in Babilonia, è anticipata la Nuova Alleanza futura e definitiva di Gesù, Buon Pastore, con la Chiesa, nuovo popolo di Dio, destinato ad estendersi su tutta la terra. Guardando al futuro, il profeta vede già vicino il nostro Pastore, Cristo Gesù. Nella sua divina Persona riscontriamo la sintesi più luminosa dell'antico concetto d’Alleanza conclusa nel segno dell'amore, della tenerezza e della misericordia. Veramente possiamo dire di Lui con il salmista: "La sua tenerezza si espande per tutta la terra" (Sl 145, 9).

E non si limita alla vita di quaggiù: Gesù è il Pastore che ci dona la vita eterna. Lo stesso Ezechiele, dopo aver abbozzato il grandioso quadro delle ossa inaridite che riprendono vita, ci fa ascoltare la divina parola di risurrezione: "Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi risusciterò dalle vostre tombe, o popolo mio". Da ciò "riconoscerete che io sono il Signore" (Ez 37, 12-13).

Il Signore che con soffio vitale fa rivivere ciò che è morto, anche là dove speranze umane di rinascita non esistono più, è colui che dirà un giorno, davanti alla tomba dell'amico morto: "Io sono la risurrezione e la vita" (Gv 11, 25). E non occorre pensare soltanto alla risurrezione finale. Alla luce della visione-parabola di Ezechiele, come alla luce delle parole di Gesù, ogni "risurrezione" dalla morte del peccato può essere interpretata come azione salvifica della misericordia di Dio (cf. T. Beck, Gesù è il Signore, pp. 70-74).

Dio non è partecipe della nostra impazienza, dei nostri timori né dei nostri impulsi di punizione. È giunta l’ora in cui il silenzio prenderà il posto del grido, e la tenerezza della minaccia, e la misericordia della giustizia. “Gesù di Nazaret, mite e paziente; io vivo pieno di impazienza e di timori. Dammi Tu un cuore dolce e umile; fammi comprendere che la tenerezza guarisce più del castigo, Amen”. (Ignacio Larrañaga).

5. VIA ALL’ACCOGLIENZA DELLA MISERICORDIA È LA CONVERSIONE A GESÙ

Chiunque di noi può provare il desiderio di possedere qualcosa, di farlo mio, per me. Questo qualcosa può essere un’idea, una persona, un podere, una carica, un nome… lo faccio mio nella misura in cui lo uso per mio profitto o soddisfazione. E così possiamo stabilire un legame tra la mia persona e questo qualcosa; questo legame si chiama appropriazione. Il peggio che possa capitare è che questo qualcosa sia io stesso; in tal caso io mi trasformo in padrone di me stesso. Grossa schiavitù!. “Gesù, Signore mio; ho bisogno di distaccarmi da tante cose. Ho bisogno di disappropriarmi di me stesso. Liberami da tutte le schiavitù interiori, e metti dentro di me un cuore dolce e umile.” (Ignacio Larrañaga).

 

5.1 La conversione, dolorosa-gioiosa “trafittura del cuore”

La “Divina Misericordia” trabocca dal cuore di Dio Padre-Madre al Cuore del Figlio Gesù e dal Cuore di Gesù al nostro cuore e dal nostro cuore al cuore del mondo. La misericordia è il mistero dell’amore folle, tenerissimo del Padre che trasale di gioia quando vede tornare a casa il figlio più lontano e invita tutti a gioire con Lui. Questo mistero di amore misericordioso nella storia umana prende il volto di Gesù, e si esprime nei gesti e nelle parole di Gesù, così che tutta la sua vita è azione di misericordia, amore fattivo ”sino alla fine” (cfr. Gv 13,1; Lc 23,34).

Il Cuore di Gesù squarciato dalla lancia sulla croce si è fatto per tutti cuore accogliente, sorgente della sua misericordia rigenerante per tutti coloro che sono stritolati dalle vicissitudini della vita, per far giungere a tutti l’annuncio del Vangelo e il dono della salvezza eterna. Questa azione rigenerante del Cuore di Gesù arriva al nostro cuore di “miseri” lasciandoci incontrare da Lui attraverso la conversione:
36Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso". 37All'udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: "Che cosa dobbiamo fare, fratelli?". 38E Pietro disse loro: "Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. 39Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro" (At 2, 36-37).

La conversione è “a Gesù”, non ai valori cristiani o al cristianesimo o a qualcosa da fare, a una funzione da esercitare nella Chiesa. È un evento assolutamente personale, che permette al discepolo di rivolgersi con verità a Cristo come a “il mio Signore Gesù”. La conversione consiste nell’incontrare Cristo Signore, nell’orientare verso il suo Cuore il nostro cuore, la nostra mente e, di conseguenza, le nostre azioni. Si tratta di una conversione a Cristo, che è la Via alla verità della vita, che è la Verità che illumina e che è Vita e Amore che si dona per primo. Per tanto, l’amore a Dio e al prossimo non è anzitutto un “comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio-Padre ci viene incontro in Cristo Gesù. Conquistato dall’amore di Cristo, il suo discepolo è mosso da questo amore all’amore per il prossimo.

Questo rapporto personale, diretto, con il suo Signore, è l’obiettivo che il credente, spinto dallo Spirito del Signore Gesù, è intento a ricercare come centro della sua vita, senza alcun limite di tempo, di spazio o di cultura. La condizione e il segno di questo incontro è la “trafittura del cuore” (At 2,37), cioè l’intima coscienza della salvezza ottenuta “per me” dalla morte del Signore che “io stesso” ho ucciso con il mio peccato. Il rapporto personale con il Signore Gesù nasce dall’annuncio kerigmatico di Pietro: “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,36). Finché non mi riconosco in quel “voi”, non posso entrare in una intima conoscenza di Gesù. La salvezza è per me che l’ho crocifisso. Il mio essere uccisore è paradossalmente la mia salvezza. Se non accetto di essere uccisore di Gesù e non sento trafiggermi il cuore, egli non è il mio Signore.

Questo paradosso terribile è ciò che scatena la vera conversione, la quale non è vissuta come una comprensione intellettuale o come impegno etico, ma anzitutto come una dolorosa-gioiosa “trafittura del cuore”. Un colpo al cuore che scuote tutta l’esistenza e dal quale, solo, può scaturire la vita rinnovata ( cfr. 1Tim 1,12-17). La trafittura di cui parlano gli Atti rappresenta il segno e il sigillo della conversione e dell’appartenenza al Signore Gesù.

Succede, allora, che di fronte al peccato il discepolo di Gesù non si scandalizza, ma si riempie di compassione verso il peccatore e gli annuncia l’urgenza della conversione mosso dalla sua stessa esperienza di conversione. Questo Gesù da me crocifisso e costituito da Dio Cristo e Signore è un Gesù, nello stesso tempo, tenero, forte e glorioso. Gesù è anzitutto il chinarsi di Dio sull’uomo, il suo Salvatore, colui che nessuno e niente, nemmeno il peccato, può separare da me. La tenerezza di Gesù non è tuttavia un alibi per una vita già appagata, alienata in una immagine di Dio rassicurante e tranquilla. Gesù nella sua tenerezza non è un ingenuo bonaccione, ma il condottiero della grande battaglia dell’uomo contro il male e il peccato, contro ogni meschinità, cattiveria e menzogna: la battaglia della santità.

Gesù rivela e fa traboccare in noi la misericordia del Padre e ci invita ad imitarla: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36); ci chiama a comunicare la tenerezza misericordiosa del Padre, a tendere la mano al fratello nel bisogno (cfr. Mt 25). Ma Gesù è soprattutto il Signore glorioso, Colui che Dio ha costituito Signore.

“Gesù è il Signore”. Questa sintesi di tutta la rivelazione biblica, il discepolo di Gesù si sente spinto a gridarla in ogni suo annuncio e a testimoniarla nella vita vissuta come una corsa verso “la sublime conoscenza di Gesù mio Signore” (Fil 3,8). Gesù lo attira come un amante, come meta, come la vetta del monte, come il più intimo degli amici. E più questa attrazione è intima e forte, più Gesù appare glorioso e refrattario a qualsiasi riduzione che l’uomo tenta sempre di fare con Dio trasformandolo in idolo. Per questo la dimensione della “gloria” è imprescindibile dalla persona di Gesù; mai Gesù potrà essere ridotto a una ideologia, a un sistema di pensiero o ad un comportamento etico. Gesù non è il completamento, il coronamento della nostra vita interiore, una specie di supporto per alzare il livello della nostra statura spirituale o del nostro impegno per gli altri e farci così compiacere di noi stessi.

A seguito della “trafittura del cuore” che consente l’accesso alla conoscenza intima di Gesù, si compie allora il passaggio dalla morte alla vita, quella insperata, impossibile risurrezione narrata da Ezechiele nella visione delle ossa aride (Ez 37,1-10), di cui è protagonista lo Spirito Santo. Il medesimo Spirito creatore che aleggiava sulle acque; lo stesso Spirito che anima, ispira, conduce, guida i grandi personaggi biblici: Gesù compreso.

Allo Spirito, infatti, spetta sempre il primato dell’azione nelle anime, perché allo Spirito e solo a Lui appartiene il prodigio della risurrezione: il prodigio del passaggio dalla morte alla vita, dalla tristezza alla gioia, dalla disperazione alla speranza; solo a Lui appartiene il potere di farci conoscere Gesù oggi, permettendoci di dire: Gesù è il Signore (1Cor 12,3). Lo Spirito fa riconoscere il crocifisso Gesù come il Signore, il Kyrios, fa proclamare la folgorante uguaglianza Jahavè-Adonai(Signore)-Gesù, e innesca nel cuore del credente reazioni a catena che radicano nella Parola delle Scritture e nel “suo” Signore Gesù.

Adonai è il Dio misericordioso che si china sull’uomo per salvarlo “perché è eterna la sua misericordia” (Sl 136).

Adonai è il Dio dell’Esodo che libera Israele “con mano potente e con braccio teso” (Dt 26,8).

Adonai è il Dio creatore, colui che chiama le stelle per nome «ed esse rispondono: “eccoci!” e brillano di gioia per colui che le ha create» (Bar 3,35).

Adonai è “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”.

Nel Nome di Adonai converge tutta la rivelazione biblica e tutta la storia di Israele: ”Ascolta, Israele: Adonai è il nostro Dio, Adonai è uno solo”. Ma Adonai, Signore, Kyrios, è il titolo di Gesù pronunciato sotto la forza dello Spirito Santo; “Gesù è il Signore” (Rom 10,9.13), costituisce la fondamentale proclamazione di fede, che coinvolge l’anima cristiana e che affonda le radici nel cammino del popolo di Israele nell’A. T (cfr. Dt 26,4-10). Ma Adonai, Signore, Kyrios è l’Amore/Vampa di fuoco che dal Cuore Trafitto di Gesù scende sul Calvario, e da qui si effonde sulla miseria umana per rigenerare ogni uomo e tutto l’uomo  ed elevarlo a Lui (cfr. Scritti 2742)

Il destino definitivo dell’uomo è nel divenire, nella transitorietà, nel distruggere l’egoismo; meglio nel liberare le grandi energie oggi incatenate a se stesso, e proiettarle al servizio di tutti in generosità e amore. “Oh Signore Gesù, tu che tutto puoi, compi il prodigio, fa che io non badi tanto a me stesso, ma che mi apra in benignità, bontà e affetto a tutti i fratelli che mi circondano”, (Ignacio Larrañaga), “tenendo sempre gli occhi fissi in Te, Crocifisso, amandoti teneramente e procurando di intendere sempre meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza degli uomini” (Daniele Comboni, cfr. S 2721).

5.2 La conversione a Gesù sfocia nel ministero apostolico e nella condivisione del suo destino

L’amore trasforma il vento in canzone a condizione che il flauto sia vuoto. Svuotami interamente, mio Dio, da interessi, egoismi, vanità, protagonismi…, affinché la mia anima intoni ninne nanne per riempire di gioia i tristi e di consolazione gli afflitti. Amen. (Ignacio Larrañaga).

Del nesso intrinseco tra conversione, ministero e condivisione del destino di Gesù è emblematica la vocazione-conversione di Paolo.

All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione definitiva (cfr Deus caritas est, 217, EG 7). Si tratta di “inciampare” in Cristo, che è il “nuovo” del Nuovo Testamento (P. F. De Gasperis).

Tra coloro che nel cammino della vita hanno incontrato Cristo Gesù in modo travolgente ed emblematico, emerge la figura di Paolo di Tarso. Sulla via di Damasco, in fatti, Paolo inaspettatamente “inciampa in Cristo”, si imbatte in Lui ed è da Lui “afferrato” o “impugnato” come si impugna una spada (cfr. Fil 3,12): fa esperienza dell’amore misericordioso di Cristo che lo chiama alla fede e al ministero, cioè alla collaborazione intima con lui. Paolo, prima di tutto, si ritiene un chiamato, una persona a cui Dio ha dato un nome nuovo. Il nome di Apostolo.

«1 Saulo, spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote 2 e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via. 3E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo 4e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: "Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?". 5 Rispose: "Chi sei, o Signore?". Ed egli: "Io sono Gesù, che tu perséguiti! 6Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare". 7Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce, ma non vedendo nessuno. 8Saulo allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco. 9Per tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda» (Atti 9,1-9).

Che cosa è avvenuto esattamente sulla strada di Damasco, qual è stato quell’evento che ha sconvolto la vita di Paolo al punto da farlo diventare da feroce persecutore dei cristiani ad apostolo delle genti?

Gli Atti degli Apostoli ci parlano di un’esperienza di luce, di una vicenda in cui sembra svolgersi un combattimento tra l’Io di Cristo e il Tu di Paolo, che rimane prostrato a terra, lui il giustiziere, che andava a incarcerare i cristiani di Damasco. Tre giorni di cecità, di digiuno assoluto, in cui si decreta la morte del vecchio Saulo e la nascita dell’Apostolo delle genti. In questo combattimento si opera in Paolo un passaggio dalle tenebre alla luce. Le tenebre sono la sua vita senza relazione con Cristo Gesù. La luce che cominciò ad abitare nel cuore di Paolo è Cristo Gesù, luce del mondo, splendore del Padre che, a sua volta, egli dovrà comunicare.

Dio, chiamando Paolo, lo ha ri-creato, cioè gli ha dato nuove radici e un nome nuovo. La vera identità di Paolo è contenuta nella parola “apostolo”, che indica allo stesso tempo un 'essere in Cristo' che è anche 'vivere per Cristo’, cioè un comportarsi in maniera coerente, in virtù della forza che gli proviene da Cristo stesso per realizzare la missione che gli affida. Lo stesso Paolo, all’inizio della prima Lettera a Timoteo, presenta la propria vocazione come la “conversione” di un bestemmiatore, persecutore e violento:

«12 Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. 15 Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. 16Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. 17 Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen». (1Tim 1,12-17).

Questo brano autobiografico ci permette di cogliere il motivo più profondo che determina questa svolta. In esso, infatti, Paolo presenta la sua fase precristiana in termini molto negativi: dichiara di essere stato un persecutore, un violento, un bestemmiatore. Ma Gesù ha voluto scegliere proprio lui, il suo peggior nemico, chiamandolo dall’incredulità alla fede in Cristo Signore; non solo, ma anche al ministero, chiamandolo a collaborare intimamente con lui e conferendogli anche la forza necessaria per portare a termine questo mandato. Questa esperienza avviene in Paolo in forza della misericordia di Cristo ed è destinata a giovare a tutti i peccatori. È proprio così che Paolo dirà. La sua vicenda ha un valore esemplare. Il peggior peccatore, guardando alla storia di Paolo, potrà dire: - Se Cristo ha avuto misericordia di lui, potrà averla anche di me.

Questo è il vero significato della svolta di Damasco, dove Paolo “inciampa in Cristo”, si lascia catturare da Lui e fa esperienza del suo amore misericordioso. Per tanto, chi si presenta come un “chiamato da Cristo” ad essere un suo discepolo missionario, deve poter dar ragione della sua conversione, del riordino della sua vita anteriore mettendo come Centro della sua esistenza Cristo Signore, così che la sua vita diventi un raggio che emana da questo Centro: «Questo Istituto diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l'Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanto sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano». (S 2648).

La forza nasce dalla debolezza, la vita dalla morte, la consolazione dalla desolazione, la maturità dalle prove. “Signore Gesù, il tuo apostolo Paolo ci dirà che quanto più sono debole, tanto più sono forte. Per sperimentare la forza di Dio, è imprescindibile sperimentare prima la debolezza umana. Quando sono immerso in una desolazione profonda, allora giungo a provare la dolcissima consolazione divina. Grazie, Padre.” (Ignacio Larrañaga).

5.3 Inciampato in Cristo, Palo condivide il suo destino

La partecipazione nel Mistero Pasquale, la condivisione del destino di Cristo, é l’esperienza che definisce l’esistenza di ogni battezzato ed é quanto l’apostolo coscientemente vive in prima persona e annuncia agli altri. Infatti, la vita e la parola di Paolo ci annunciano che la vita del cristiano e tanto più dell’apostolo é incorporazione a Cristo crocifisso e risuscitato. Paolo, mentre riconosceva la propria debolezza, trovava in Cristo la forza in mezzo a tutte le tribolazioni e guardava a Cristo crocifisso e risuscitato e ringraziava “Colui che mi ha reso forte” (1Tim 1,12).

Così Paolo, dopo aver raccontato la sua vicenda esistenziale come Apostolo, in cui ha riprodotto in sé la vita di Cristo (“Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me”: Gal 2,19s), verso il termine della sua vita è consapevole che anche la sua morte riproduce la vicenda di Gesù. E questo per un fine salvifico a beneficio di tutta l’umanità bisognosa di incontrarsi con la Divina Misericordia.

«9 Cerca di venire presto da me, 10 perché Dema mi ha abbandonato, essendosi innamorato del mondo presente, ed è partito per Tessalònica … 11 Solo Luca è con me. … 16Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. 17Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l'annuncio del Vangelo e lo ascoltassero tutte le genti… » (2Timo 4, 9-22).

Nella seconda Lettera a Timoteo, che può essere considerata come il testamento spirituale di Paolo, soprattutto negli ultimi due capitoli appaiono elementi autobiografici, che richiamano il martirio imminente dell’Apostolo. Tali elementi sembra che siano disposti in modo tale da accostare la morte di Paolo ormai vicina alla vicenda della passione di Cristo come viene narrata nei Vangeli.

Gesù è stato abbandonato da tutti i suoi discepoli al momento dell’arresto(Mt 26,56) e da due di essi da uno è stato tradito (Lc 22,47s) e dall’altro rinnegato (Lc 22,54-62. Anche Paolo menziona Dema, uno della equipe missionaria che collaborava con lui, che si è innamorato del mondo presente e gli ha voltato le spalle. Gesù ha avuto un discepolo fedele che lo ha seguito fin sotto la Croce, Giovanni (Gv 19,26). Anche Paolo ha avuto Luca che lo ha accompagnato fino all’esperienza del carcere e fino a pochi giorno prima della morte.

E come Gesù ha perdonato tutti dall’alto della croce: “Padre, pedonali, perché non sanno quello che fanno”(Lc 23,34), allo stesso modo anche Paolo invoca il perdono su tutti coloro che in qualche modo lo hanno danneggiato.

Questo modo di leggere la vita di Paolo si riscontra anche negli Atti degli Apostoli. In essi, infatti, i capitoli 21-28 vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura.

Secondo una tradizione il capo di Paolo staccato dal corpo balzò tre volte pronunciando il nome di Gesù, e facendo scaturire tre zampilli d’acqua (Tre Fontane), figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. É una tradizione molto significativa che rimanda al detto di Gesù: “Scaturiranno fiumi di acqua viva” (cf. Gv 7,38).

Nella “passio Pauli”, molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Col 1,29). A differenza di Gesù, Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, rivive rivivendo in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte: “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). L’Apostolo delle genti conclude la sua esistenza parlando dalla più alta ed eloquente delle cattedre, cioè il martirio, e sigilla nel silenzio eloquente del martirio stesso il suo amore per il suo Signore Gesù e per la Chiesa.

In sintesi, Paolo vive in prima persona e annuncia la Misericordia del Maestro come fonte di vita, come ciò che gli dà il coraggio di mostrare che la propria vita e le realizzazioni apostoliche non sono conquiste personali, ma si radicano nella Misericordia di Cristo, che lo ha rigenerato e lanciato in un impegno apostolico senza pari: proprio lui, il feto abortivo, in virtù della grazia che ha ricevuto e assecondato, è colui che per il Vangelo si è affaticato più di tutti (1Cor 15,10).

Appare chiaro, per tanto, che la vacazione del discepolo missionario è legata all’incontro personale con il Signore Gesù, il Crocifisso-Risorto, alla conversione e alla condivisione del suo destino (cfr. S 2742; RV 2-5; 21; 21.1-2): non c'è autentica vocazione per la missione in chi non si è convertito e non si trova in un continuo processo di conversione (cfr. RV 82.1; 99) e non può dar conto di essa nella comunità.

5.4 Sulle orme di Paolo, Comboni si proclama “felice nella Croce

A questo punto, a noi missionari comboniani, non ci è difficile mettere a confronto l’esperienza martiriale dell’Apostolo delle genti con l’esperienza dell’apostolo dell’Africa Centrale, san Daniele Comboni.

Paolo, crocifisso con Cristo e partecipe della sua morte, gioiva nella visione della vittoria finale: partecipe della morte di Cristo, lo sarà poi della sua consolazione e risurrezione.

Comboni sa - e lo dice in molti modi - che le stigmate sono le credenziali di ogni apostolo, il quale di nient’altro si vanta se non della croce del Signore Gesù (cfr. Gal 6, 17), lieto delle sofferenze che sopporta per completare ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella sua carne a favore dei fratelli (cfr. Col 1, 24).

Sulla scia di Paolo, Comboni meditò molto sul Mistero della Croce e lo visse intensamente nella sua vita di missionario dall’inizio alla fine, da quando imparava a fare il Segno della Croce sulle ginocchia della mamma (S 342), fino alla morte avvenuta nel pieno della sua attività missionaria. Egli visse convinto che la legge della Chiesa é la Croce, che nella Croce vi é tutta la forza del cristianesimo, che nella Croce vi é la garanzia della bontà di ogni opera di Dio e perciò anche della sua opera.

Il coinvolgimento nella logica del “mistero pasquale” é così la chiave per cogliere “dal di dentro” la storia del grande apostolo dell’Africa: “Ad ogni modo, io dopo tanti patimenti, mi sento più e più forte di prima colla grazia di Dio: la convinzione, che le croci sono il suggello delle opere di Dio, mi conforta.[...] È ai piedi del Calvario il luogo dove sta tutta la forza della Chiesa e delle opere di Dio; dall’alto della Croce di Gesù Cristo esce quella forza prodigiosa e quella virtù divina, che deve schiantare nella Nigrizia il regno di Satanasso, per sostituirvi l’impero della verità, e della legge di amore, che alla Chiesa conquisteranno le sterminate genti dell’Africa Centrale” (S 4290-91). «Dio vuol salva l'infelice Nigrizia (S 3941). Ora ci restano maiores labores, pericula, hoerumnae, e innumerevoli croci. Ma non pervenitur ad victoriam nisi per magnos labores. Cristo risuscitò dopo aver subito la morte di Croce. Egli ci aiuti a morire per amor suo e per la salvezza dell'infelice Nigrizia, per la quale morì sulla Croce (S 3942).

Così Comboni, dopo aver costantemente amato e abbracciato la Croce, dopo averne profondamente sentito il peso, mentre intorno a sé vi é il buio e l’isolamento morale più assoluto, scrive le ultime parole: sono parole di gioia nella Croce che redime. Siamo di fronte a una delle lettere con la data più vicina alla morte di Comboni, quella del 4 ottobre 1881. Questa lettera ci presenta un Comboni pervaso come Paolo dalla forza e dalla gioia, che sono frutti della Croce abbracciata con amore: “Che avvenga pure tutto quello che Dio vorrà. Dio non abbandona mai chi in lui confida... Io sono felice nella Croce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna” (S  2746).

É proprio questo fiducioso abbandonarsi in Dio nella Croce l’apice della attività missionaria: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

In realtà, prima di essere raggiunto dalla morte corporale il 10 ottobre del 1881, Comboni era già morto a se stesso, avendo voltato le spalle al mondo consacrandosi ad uno stato di vita simile a quello degli Apostoli (cfr. S 442), e viveva una vita centrata in Dio-Trinità, segnata dall’esperienza carismatica del 15 settembre 1864. È sintomatico il fatto che nel narrare questa esperienza, Comboni non parla in prima persona, cominciando quindi con “io Daniele”, ricorre invece alla terza persona, mettendo quindi come soggetto “il cattolico”. Così ci confida che tale esperienza, mentre lo espropriava di se stesso e lo elevava da terra unendolo al Mistero di Dio, Amore-Misericordia, che entra nel regno della morte per mezzo di Gesù Crocifisso, nel contempo lo inseriva nella tragica realtà dei popoli oppressi dell’Africa Centrale, trasportato dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulle pendici del Golgota ed uscita dal costato di un Crocifisso...e spinto da una virtù divina a stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quei fratelli suoi nell’infelice Nigrizia, unica passione della sua vita (cfr. S 2742).

Coerente con la sua “dedizione totale alla causa missionaria per la quale parlò, lavorò, visse e morì”, le sue ultime parole furono quelle di un generale che si sente morire e che lascia ai superstiti le sue ultime raccomandazioni, in fretta, prima che una densa nube gli offuschi la mente: ”Abbiate coraggio; abbiate coraggio in quest’ora dura, e più ancora per l’avvenire. Non desistete, non rinunciate mai. Affrontate senza paura qualunque bufera. Non temete. Io muoio, ma la opera non morirà”.

La terra d’Africa, dopo averne ricevuto le sue lacrime e i sudori, ora si apre ad accoglierne le spoglie, poi si richiude in un geloso abbraccio. Su quella tomba presto passerà la bufera mahdista, i missionari verranno allontanati, le chiese distrutte e nulla resterà più in Africa dell’opera del Comboni, ma egli era laggiù, nel seno della terra dell’Africa, quale “pietra nascosta” e angolare del fondamento di quella Chiesa africana che oggi, pure in mezzo a sofferenze e croci, brilla “come una perla bruna” nel diadema della Chiesa di Cristo (cfr. S 2701; 2314).

PREGHIERA DEL DISCEPOLO MISSIONARIO

Signore Gesù,
che hai voluto assumere un cuore d’uomo
per poter condividere in modo sensibile le miserie dell’umanità,
concedimi di non dimenticarmi neppure per un istante
di questa tua sensibilità.

Non ti chiedo che approvi e benedica ciò che io stesso ho deciso vivere,
ma ti prego di darmi la grazia di scoprire e vivere
quello che tu hai sognato per me, chiamandomi a far miei,
sotto la guida di san Daniele Comboni,
l’universalità del tuo amore per il mondo
e il tuo coinvolgimento nel dolore e nella povertà
dei più dimenticati della terra.

Concedimi che, in ginocchio, adori negli altri,
specialmente nei più infelici e sofferenti,
il Mistero del tuo amore creatore e redentore;
che rispetti il tuo progetto su di essi  senza voler imporre il mio;
che li lasci percorrere il cammino che hai tracciato per loro,
senza cercare di farli miei seguaci;
che mai mi stanchi di tenere lo sguardo fisso in essi,
e con questo sguardo contemplativo sia arricchito
dai tesori che tu hai depositato nei loro cuori.

Signore Gesù
concedimi di conoscere perfettamente la tua volontà,
con ogni sapienza ed intelligenza spirituale,
per comportarmi nella maniera a te gradita e piacerti in tutto;
quando apro la bocca,
dammi una parola mite ed umile, ma coraggiosa e franca,
per annunciare il Vangelo,
del quale mi hai fatto ambasciatore per vocazione.
Concedimi di esercitare il mio apostolato
con la stessa carità apostolica di Pietro e Paolo,
di Daniele Comboni e dei tanti missionari martiri.


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Casavatore, marzo 2016
P. Carmelo Casile, mccj

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[1] Per trattare il tema della visita della Divina Misericordia all’umanità nella tragica situazione di esilio, mi sono stati di particolare aiuto i libri: 1) T. Beck e Giovanna della Croce, Gesù è il Signore, Ed Ancora; 2) A. Doneda, E Dio creò il cuore, Ed Dehoniane; 3) altri libri e appunti presi in incontri di preghiera guidati da P. Ignacio Larrañaga e da altri maestri di vita spirituale.

[2] Fernando, Armellini, Ascoltarti è una festa, III Dom. T.O. C, p. 324.

[3] Ignacio Larrañaga, Incontro. Manuale di preghiera, Ed. Messaggero Padova, p. 80s.

[4] Cf. DIO PADRE e MADRE, Quaderni di Eupilio / 17.

[5] Cf. Alberto Doneda, E DIO CREÒ IL CUORE, Ed. Dehoniane, pp. 49-59.

[6] Cf. Angelo Amato, Il Vangelo del Padre, Ed. Dehoniane, pp. 26-30.

[7] C. Maria Martini, Ritorno al Padre di tutti, Centro Ambrosiano, pp. 29-32.

[8] Ignacio Larrañaga, Incontro. Manuale di preghiera, Ed. Messaggero Padova, p. 11.