Giovedì 14 giugno 2018
La funzione del Superiore locale e dei Superiori maggiori è fondamentale e determinante nella vita delle singole comunità, delle circoscrizioni e dell’Istituto. Qui pubblichiamo tre sussidi [vedi anche allegati] che potrebbero aiutare nella rilettura della Regola di Vita riguardo appunto il ruolo del superiore.

I primi due testi – “Il ministero del Superiore locale nella Regola di Vita” e “La funzione del Superiore locale, della comunità e di ogni missionario nella formazione permanente” – appartengono a P. Carmelo Casile. Essi li ha elaborati nel Noviziato di Huánuco – Perù (1982-1995) e li ha rivisti in questi ultimi mesi, cercando di aggiornarli nel contesto del “Cammino di rivisitazione e revisione della Regola di Vita” e metterli a disposizione nella speranza che servano a qualcuno come punto di partenza per una più approfondita comprensione delle cose che ci riguardano come comunità di discepoli missionari comboniani.

Il terzo testo è di P. Bruno Ramazzotti, biblista comboniano (+1996), intitolato “La figura di chi è chiamato a presiedere la comunità apostolica nella Bibbia”. È stato scritto verso la metà della decada degli anni ’80.

IL MINISTERO DEL SUPERIORE LOCALE
NELLA REGOLA DI VITA

1.

LA MISSIONE DELL’AUTORITÀ[1]

RdV 102

La Chiesa come popolo di Dio riconosce una sola autorità, Cristo. Nell’Istituto l’autorità è un servizio che partecipa di quella di Cristo e vi si ispira. Egli, infatti, venne “non per essere servito, ma per servire”. Questo servizio è reso alla comunità e a ciascun membro per aiutarlo a vivere la sua consacrazione e a sviluppare i suoi doni personali e carismi nel servizio missionario.

* Gesù, chiamatili a sé, disse: “I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”.  [Mt 20, 25-28].

* Il più grande tra voi sia vostro servo. [Mt 23, 11].

***

Per comprendere la funzione del Superiore locale, secondo la Regola di Vita, è necessario anzitutto considerare la missione dell’autorità nella vita della Chiesa.

L’autorità nella Chiesa nasce come conseguenza dell’obbedienza dovuta al Signore Gesù e, quindi, come servizio.

Autorità e obbedienza, infatti, costituiscono i due aspetti complementari di un unico mistero, cioè dell’oblazione di Cristo Gesù; sono, per tanto, inseparabili e possono essere capite solo in connessione e a partire dal Mistero Pasquale di Gesù.

Gesù non è unicamente il modello della nostra obbedienza (RdV 33), ma anche il termine della stessa, cioè la Persona e l’Autorità a cui obbediamo. La Chiesa, come Popolo di Dio, riconosce una sola autorità, il Signore Gesù (RdV 102). Ogni forma di obbedienza cristiana è, in definitiva, obbedienza a Gesù Cristo e – in Cristo – a Dio-Padre.

In effetti, per avere obbedito fino alla morte, Gesù Cristo è il Signore (Fil 2,8-11; Ef 4,5), il vero Capo, il Maestro e il Buon Pastore (RdV 102.1). Esiste quindi una sola autorità, quella del Signore Gesù, non c’è nessun’altra.

Adesso però il Signore Gesù è invisibile, giacché dal momento della sua Risurrezione e Ascensione, lasciò di essere segno visibile per noi, avendo nello stesso tempo bisogno di visibilità, per rispondere adeguatamente alla nostra condizione attuale di pellegrini in questo mondo verso l’Approdo definitivo.

Così nella Chiesa l’autorità è visibilizzante e rappresentativa dell’unica autorità del Signore Gesù. Perciò ogni forma di autoritarismo è contraria al Vangelo (Mt 20,28).

La missione dell’autorità nella Chiesa è totalmente subordinata, dipendente e relativa all’autorità di Cristo; perciò, si può concepire solamente come servizio di amore e di unità, come diakonia, che è servizio umile di amore, che partecipa e si ispira in quello di Gesù (RdV 102; cfr. Gv 13,12b-17).

Tale servizio si rende alla comunità e ad ognuno dei suoi membri, per aiutarli a vivere la loro consacrazione e sviluppare i loro doni personali e carismi nel servizio missionario (RdV 102).

È un servizio delicato che deve coniugare l’attenzione alla persona con le esigenze del servizio missionario.

Il Superiore appare così come Pastore e santificatore o, più esattamente, come interprete e servo della volontà di Dio per i suoi fratelli. E non esercita tale funzione in nome proprio, né in quanto delegato dalla comunità, ma come cooperatore del Superiore Maggiore, del Vescovo e in definitiva del Papa (RdV 9.1; 33.3; 112), il successore di Pietro, a cui l’unico “Bel Pastore” (Gv 10,1-18), l’Arcipastore (1Pt 5,4), affida la custodia del gregge di Dio, del quale è chiamato ad essere  modello disinteressato e diligente (1Pt 5,1-3).

2.

NATURA DEL SERVIZIO DELL’AUTORITÀ

RdV 107:

Il superiore anima la comunità e i singoli membri alla ricerca della volontà di Dio, alla realizzazione della loro consacrazione missionaria e alla crescita della carità. Egli esercita l’autorità con responsabilità sia nel prendere decisioni, come nel curarne l’esecuzione, sempre in conformità con il fine dell’Istituto; inoltre presta il suo servizio nell’armonizzare i vari aspetti della vita comunitaria e nel prendersi cura del singolo missionario.

* Custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede.[1Tim 6,20].

* Un servo del Signore non dev'essere litigioso, ma mite con tutti, atto a insegnare, paziente nelle offese subite, dolce nel riprendere gli oppositori, nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi, perché riconoscano la verità e ritornino in sé sfuggendo al laccio del diavolo, che li ha presi nella rete perché facessero la sua volontà. [2Tim 2,24-26].

* Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero. [2Tim 4,1-5].

* Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. [1Pt 5,2-3].

***

L’autorità è, per tanto, un servizio reso all’individuo e alla comunità. Tal servizio nasce dallo Spirito Santo. L’autorità, infatti, è un dono, un carisma, concesso dallo stesso Spirito per il bene di tutti (RdV 35.1).

Questo dono si concretizza nella funzione di guida, lidar (RdV 102.2;107.2), coordinatore (RdV 106; 106.1-2; 112) e animatore (Rd V107; 112) nella comunità.

Dal loro versante, queste caratteristiche non eliminano il carattere specifico soprannaturale dell’autorità religiosa, ma si coniugano con essa, rivestendola di qualità umane, che la rendono più efficace e corrispondente alla dignità della persona umana.

Consideriamo ciascuna di queste caratteristiche:

Guida o lidar: è colui che guida, colui che cammina davanti per indicare il cammino tracciato dalla Regola di Vita e le disposizioni dei Superiori Maggiori e della Gerarchia ecclesiastica; colui che persuade con l’esempio (cfr. 1Pt 5,1-4: modello del gregge).

Coordinatore: ha funzioni simili a quelle della guida; però incarna meglio la dinamica interna del gruppo, perché partecipa di essa come gli altri membri della comunità, senza tuttavia rinunciare a “suscitare nella comunità la certezza della fede che deve guidarli” (Ev. Test. 25).

Animatore: è colui che ha capacità per vitalizzare le energie della dinamica di gruppo in tutti i membri della comunità. Non si tratta propriamente di un compito specifico attribuito a un membro del gruppo. L’animazione comunitaria è, anzitutto, compito comune di tutti i membri. Tutti partecipano del coordinamento e animazione del processo della vita di comunità. Il membro che porta il titolo di “animatore” si distingue, in certo modo, per la partecipazione più attiva e intensa in questa responsabilità comune. L’animatore della comunità è un membro del gruppo investito di competenza personale per disimpegnare la funzione basica di ottenere la partecipazione massima e ottima di ciascuno dei membri nel raggiungimento degli obiettivi comuni.

Il buon disimpegno di questa funzione esige che il coordinatore si converta nel catalizzatore che intensifichi l’integrazione e coordini le attività del gruppo. Dal modo come disimpegna questi compiti dipende la crescita della comunità (P. Finkler, Unificación de la vida en la comunidad religiosa, pp. 203-206).

Inoltre il Superiore esercita le sue funzioni:

  • nel discernimento individuale e comunitario: RdV 33; 33.4; 111;
  • nella animazione dei missionari riguardo al loro continuo rinnovamento, offrendo loro sufficienti opportunità e le necessarie strutture: RdV 100; 100.4;
  • nei programmi d’incarnazione della povertà adattati all’ambiente: RdV 29.1;
  • nella programmazione della vita di preghiera secondo i tempi liturgici e un ritmo diario, settimanale e mensile, che si riveda periodicamente: RdV 50; 50.1;
  • nella preparazione dell’orario: RdV 39.3;
  • nel promuovere incontri frequenti che favoriscano la conoscenza e il dialogo fraterno: RdV 39.2.

3.

L’ESERCIZIO DELL’AUTORITÀ

RdV 105:

Il governo ordinario dell’Istituto viene esercitato da superiori eletti o nominati costituzionalmente, assistiti dai loro consigli. Il superiore generale, il superiore provinciale e i loro vicari sono superiori maggiori e ordinari a norma della legislazione ecclesiastica. Per gli uffici di superiore e vicesuperiore, a tutti i livelli, è esigito l’ordine sacerdotale.

* Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio.  Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l'autorità? Fà il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male.  Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. [Rom 13, 1-5].

***

La funzione di guida, coordinatore e animatore del Superiore si riveste di qualità umane necessarie alla funzione specifica del governo della comunità.

Infatti, «i missionari comboniani vivono in comunità locali rette da un Superiore locale» (RdV 103). Perciò «il Superiore locale ha autorità sui membri della comunità, che coordina e anima in spirito di servizio» (RdV 112), per «garantire l’unità e le finalità dell’Istituto» (RdV 106.3).

Nel suo compito di animazione e di governo della comunità, il Superiore agisce in modo da inserire i membri della sua comunità nel dinamismo della Regola di Vita, offrendo così ai Comboniani « le certezze della fede, che devono guidarli. La ricerca ha lo scopo di approfondire queste certezze e di tradurle in pratica nella vita quotidiana secondo le necessità del momento, e non già, in alcun modo, di rimetterle in discussione.

Questo lavoro di comune ricerca deve, quando è il caso, concludersi con le decisioni dei superiori, la cui presenza e il cui riconoscimento sono indispensabili in ogni comunità» (Ev. Test. 25; RV 106; 106.1-3).

Perciò «il governo ordinario viene esercitato da Superiori eletti o nominati costituzionalmente» (RV 105) e «l’autorità ordinaria risiede nella persona del Superiore, che, in ultima analisi, è responsabile di ogni decisione» (RdV 106).

Tuttavia l’esercizio dell’autorità non può tradursi in autocrazia.

Nella autocrazia il capo autocrate prende le decisioni da solo, in nome del gruppo che dirige; aspira al controllo e al potere assoluti sul gruppo comunitario; è incapace di condividere con altri le responsabilità mediante la delega di poteri e mediante la sussidiarietà o autorità condivisa.

Neppure deve tradursi in paternalismo, sistema di governo, nel quale il Superiore è dittatore camuffato da padre tollerante; né deve tradursi in liberalismo, sistema nel quale il Superiore né coordina né comanda, ma lascia fare, senza intervenire assolutamente in niente.

L’autocrazia, il paternalismo e il liberalismo in pratica annullano la proposta di autorità condivisa, che la Regola di Vita fa ai Comboniani.

La Regola di Vita, infatti, si orienta verso il sistema democratico o dell’autorità condivisa o basata sul principio di sussidiarietà (RdV 106).

In questo sistema il Superiore passa a essere il coordinatore (RdV 106; 106.1-2), l’animatore (RdV 107) e guida della comunità (RdV 107.2), che «in ultima analisi, è responsabile di ogni decisione» (RdV 106).

In quest’ottica, la dinamica interna della comunità nasce non solo dal principio di autorità, che in ogni caso bisogna salvaguardare, ma anche dallo spirito comunitario, che si origina nella comunione degli obiettivi trascendenti proposti dalla Regola di Vita. Allora l’autorità si trasforma in funzione coordinatrice e animatrice dello sforzo comune per la realizzazione degli obiettivi e di continua interpretazione dell’autenticità dello spirito che si manifesta per mezzo del gruppo (RdV 106).

Tale processo nell’esercizio dell’autorità:

  •  richiede corresponsabilità, collaborazione e rispetto di ogni missionario (RdV 106);
  • si esprime specialmente nel dialogo (RdV 106), che si realizza soprattutto nel consiglio di comunità (RdV 35.5; 39.2; 107.2; 1 11) e nelle comunità numerose nel Consiglio ristretto, formato da pochi membri, con competenze e compiti ben determinati (RdV 111.4);
  • richiede nei membri della comunità obbedienza attiva e illuminata dalla fede (RdV 35.1-2), lealtà, rispetto, comprensione, cooperazione, astensione da interpretazioni erronee e critiche puramente negative (RdV 35.2);
  • può richiedere anche rinunce e limitazioni all’iniziativa personale.

 

Lo stile dell’autorità condivisa si riflette anche nel modo di nominare il Superiore e il Vice - superiore e nella durata nell’incarico di Superiore.

Il Superiore locale, infatti, è nominato dopo che il Provinciale ha consultato la comunità locale (RdV 112.1); l’incarico dura per un periodo di tre anni e può essere rinominato Superiore nella stessa comunità solamente per un secondo periodo consecutivo (RdV 112.2). Il Vice - superiore della comunità locale è proposto al Superiore Provinciale e al suo Consiglio dalla comunità (RdV 112.5).

Il Superiore locale non solo è coordinatore, animatore e guida della comunità, ma assume anche la funzione di Direttore Amministrativo (RdV 174).

Tuttavia, nella dinamica dell’autorità condivisa, l’amministrazione della casa e dei beni si trasforma in coamministrazione, basata nella corresponsabilità di ogni membro della comunità riguardo ai beni economici della stessa (RdV 165; 166; 174). Consiste fondamentalmente nel controllo dei beni usati dalla comunità (RdV 174). Ciò implica che ogni membro della comunità sia informato su ciò che avviene circa i beni economici della comunità e che sia impegnato ad un retto uso degli stessi beni (RdV 166; 166.1).

L’amministrazione suppone delega di poteri e di responsabilità; ciò semplifica molto i compiti amministrativi e coinvolge in essi responsabilmente i membri della comunità. In questa dinamica si colloca la funzione dell’economo locale, che per tanto ordinariamente non è il Superiore, e realizza le decisori finanziarie prese dal Superiore nel Consiglio di Comunità (RdV 174).

4.

AUTORITÀ E OBBEDIENZA

RdV 107:

Il superiore anima la comunità e i singoli membri alla ricerca della volontà di Dio, alla realizzazione della loro consacrazione missionaria e alla crescita della carità. Egli esercita l’autorità con responsabilità sia nel prendere decisioni, come nel curarne l’esecuzione, sempre in conformità con il fine dell’Istituto; inoltre presta il suo servizio nell’armonizzare i vari aspetti della vita comunitaria e nel prendersi cura del singolo missionario.

* Custodisci il deposito; evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede.[1Tim 6,20].

* Un servo del Signore non dev'essere litigioso, ma mite con tutti, atto a insegnare, paziente nelle offese subite, dolce nel riprendere gli oppositori, nella speranza che Dio voglia loro concedere di convertirsi, perché riconoscano la verità e ritornino in sé sfuggendo al laccio del diavolo, che li ha presi nella rete perché facessero la sua volontà. [2Tim 2,24-26].

* Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del vangelo, adempi il tuo ministero. [2Tim 4,1-5].

* Pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. [1Pt 5,2-3].

***

ALCUNE PREMSSE

A- Attenzione alla persona

La Regola di Vita coglie l’attenzione alla persona come un segno dei tempi a cui bisogna dare una risposta e afferma che: “le persone dei missionari sono i maggiori beni dell’Istituto e di ognuna ha la massima cura” (RV 162.2); perciò mette la persona al centro della comunità (RV 42) e dei vari spetti della vita dell’Istituto.

Il missionario appare come soggetto chiamato ad essere sempre più persona (RV 23.2) con e per gli altri a partire dalla sua comunione con Dio, origine e fondamento della sua consacrazione per la missione (RV 20; 46). È descritto come una persona in cammino (RV 16), coinvolta in un processo di crescita integrale umana e cristiana che dura tutta la vita nella comunità e per la comunità, come risposta personale e libera all’azione dello Spirito. Nell’ottica dell’attenzione alla persona, è il primo responsabile della sua risposta vocazionale. Spetta a lui scoprire il suo modo di essere e di agire e così divenire il principale artefice della propria realizzazione come missionario; deve essere sua l’iniziativa di integrare nella sua personalità gli obiettivi proposti dalla RV nella dimensione della consacrazione, comunità e missione (RV 82–85).

Assume e vive gli impegni oggettivi della vocazione comboniana secondo le sue reali capacità nelle varie tappe e circostanze della vita (RV 42; 42.4; 86-101); approfondisce intellettualmente e assimila vitalmente il particolare modo di pensare, sentire e vivere che corrisponde allo spirito dei MCCJ e così si rende sempre più capace di viverlo nella fedeltà al vangelo, alla Chiesa, alle istanze del mondo attuale e alla sua propria individualità (RV 80-82). Se da un lato la vita missionaria ha caratteristiche proprie che il missionario deve integrare nella sua vita (RV 10; 23), dall’altra spetta a lui assumere queste esigenze come soggetto, in dialogo e collaborazione con la comunità (RV 36.1; 41; 41.1-2; 88.2). L’identificazione personale, infatti, si realizza per mezzo delle relazioni interpersonali nella comunità, che portano ad un impegno comune per la missione nella Chiesa (RV 84; 84.1-2; 88).

Nella comunità, dove l’attenzione alla persona deve essere un fatto che coinvolge tutti i suoi membri, tutto deve concorrere, perché la persona “raggiunga la perfezione della carità” (RV 3.3; 10.2; 22.8; 58) mediante uno sviluppo armonico e progressivo. All’attenzione ricevuta, il missionario corrisponde con l’attenzione che egli stesso dà alle persone all’interno della comunità e nel campo del lavoro (RV3.2; 3.3).

Tale comportamento è parte della tradizione dell’Istituto ed ha la sua origine in “quella carità fraterna, che deve essere un segno distintivo della comunità comboniana” (RV 3.3).

L’attenzione alla persona determina lo stile di vita della comunità, che è basato sul riconoscimento della pluralità delle persone e nella complementarità dei carismi (RV 10.3; 11; 11.1-2; 18; 18.1-2; 36.4; 37.1-2; 38.1.4.5.6).

L’attenzione alla persona si sviluppa anche attraverso la corresponsabilità, che deve animare la vita della Congregazione nelle sue attività interne e nella sua attività evangelizzatrice (RV 145; 106.1; 68.1)

L’esercizio dell’autorità alla luce dell’attenzione alla persona è soprattutto “servizio reso a ciascun membro della comunità” (RV102).

B- Scoperta dell’obbedienza consacrata

La scoperta dell’obbedienza consacrata come partecipazione all’obbedienza redentrice di Gesù (RdV 33), anzitutto deve eliminare dalla nostra vita quell’aria triste di vittimismo che può caratterizzare la nostra vita di consacrati (Sudditi e Superori), per passare a vivere con realismo il fatto che “23tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio” (Rom 3, 21-26). Non dimentichiamo che molto prima delle nostre tensioni, ci fu la tensione tra Do-Padre e suo Figlio, che si risolse nel dono reciproco dell’amore. Né facciamo di ogni momento della nostra obbedienza una crocifissione: Gesù Cristo non passò tutta la vita  nel giardino del Getsemani né sulla Croce.

Tuttavia è vero che l’ago della nostra bussola deve essere orientato verso il Monte «di quella " follia " che san Paolo desidera per tutti noi, perché solo essa ci rende sapienti», perché è lì nella Croce, prova del più grande amore, che dimostriamo se crediamo in Gesù obbediente fino alla morte (Ev. Test. 29; RdV 35.3).

C- “Sudditi” e “Superiori” sono uomini e fratelli: RdV 35.1-2; 38.1; 42

I termini “suddito e “superiore” corrono il rischio di oscurare la forza del concetto evangelico di servizio (Mt 10,45; Gv 13,14) e di chiudere la Vita Consacrata ai valori umani vissuti dalla società di oggi e che, vissuti alla luce del Vangelo, possono rendere la Vita Consacrata segno più chiaro nel mondo di oggi.

Resta il fatto che il Vangelo riassume il contenuto del lungo periodo di vita di Gesù nella Santa Famiglia di Nazareth (fino a 32 anni almeno) con la breve espressione: «Egli era loro sottomesso: et erat subditus illis» (Lc 2,51). Questo dato evangelico è assai interessante per chiarire la nostra obbedienza: Gesù obbedisce qui a delle creature umane, così come obbedirà più tardi alle autorità pubbliche e alle leggi, e anche a Pilato che lo condanna. Com’è possibile per il Figlio di Dio? Il fatto è che egli vedeva in Maria e in Giuseppe i segni e i rappresentanti del Padre e dunque gli interpreti autentici della sua volontà. L’episodio dei dodici anni a Gerusalemme non fa altro che confermare questa realtà, anziché contraddirla (Cfr. J. Aubry, Teologia della vita religiosa, p.142s).

Al giorno di oggi non si capisce più l’autoritarismo assoluto della Chiesa degli imperi passati, quando al “popolo fedele o non fedele non era permesso conoscere i segreti dell’autorità, ma doveva soltanto obbedire e tacere; e questo sembra che fu più vero nelle comunità religiose”. Ma non si può capire neppure come sia possibile un’obbedienza senza mediazioni umane; sarebbe pretendere un privilegio che neppure il Figlio di Dio ha preteso per sé, quando piantò la sua tenda in mezzo a noi… Sta di fatto che i tentativi fatti in questi ultimi decenni per trovare un termine con il quale sostituire quello di “superiore”, sembra che ancora non abbiano avuto successo…

In effetti, il “Superiore” nella Vita Consacrata è chiamato così non perché sia migliore degli altri, un super-man, ma in senso figurato: avendo in custodia la vita della comunità nella sua globalità, per vederla tutta, in modo che non gli sfugga nulla e abbia una visione d’insieme, ha bisogno di guardarla costantemente dall'alto, cioè da un luogo, da un piano elevato, «superiore».

Il suo, per tanto, non è un privilegio o una promozione da desiderare, ma un servizio alla comunità, da svolgere con la coscienza che sta anch'egli obbedendo alla volontà di Dio, unico Signore suo e dei suoi confratelli.

Egli ha «autorità» nel senso etimologico della parola, che viene dal verbo latino augere, col significato di «rendere migliore», far crescere, moltiplicare i semi di bene presenti nella comunità. Allora si può dire che più che stare al di sopra degli altri, il “Superiore” è «stuoia» sulla quale gli atri passano, aria che si respira senza accorgersi, battito di cuore che – silenzioso – non si arresta mai (Guglielmo Rebora, poeta rosminano (1885-1957).

Comunque tenendo mente e cuore fissi nel Vangelo, possiamo capire che “Superiori” e “Sudditi” sono uomini, persone, con diritti e doveri dentro la comunità, in ordine a un bene comune da raggiungere assieme (RdV 36.1; 42). Per questo è indispensabile che la comunità sia ben informata e conosca il più esattamente possibile gli argomenti e i problemi che la riguardano (RdV  16.3; 43; 43.1; 145; 145.1-2; 158; 158.1;166; 166.1-2). Solo così può esserci comunione e partecipazione nella corresponsabilità per il conseguimento del bene comune.

L’azione del suddito come quella del Superiore ha come finalità la realizzazione del bene comune, secondo la funzione specifica di ciascuno: il Superiore non è tanto il capo che tutto sa e comanda, ma è soprattutto il cuore che fa pulsare il cuore dei sudditi, uniti armoniosamente nell’amore (RdV  26; 38; 62.1; 160.1).

Il suddito deve avere anche lui un posto e una funzione ben determinata nella comunità: egli coopera per il bene comune secondo le sue qualità, sviluppando attività precise e ben determinate (RdV 37; 37.1-2; 38.1; 41; 41.1-2; 42; 42.1;107.3).

Ma è anche vero che l’individuo è membro di una comunità, il bene della quale a volte oltrepassa il bene individuale di ogni membro. I Superiori che sono guardiani del bene comune, devono far sì che questi conflitti si risolvano secondo lo spirito dell’Istituto (RdV  13; 13.1-2; 33; 34; 35; 41.2; 42; 84.3)

Tuttavia i Superiori hanno il dovere di scoprire e formare le personalità, di rendere i sudditi più compartecipi del potere-servizio della comunità, non raramente riunito indebitamente nelle mani di pochi (RdV  83; 83.1; 85; 99-100; 23.2; 42; 42.1-3).

L’Evangelica Testificatio (n. 25) afferma che il Superiore, con la sua decisione  pone termine al lavoro di comune ricerca, ma aggiunge “quando è il caso”. Questo significa che non è necessario che tutte le volte il Superiore decida formalmente. Alle volte è sufficiente l’illuminazione comunitaria, lasciando che dopo ogni membro decida secondo la sua coscienza; altre volte la decisione può essere lasciata alla comunità (RdV 2.1; 107; 107.2; 111; 111.1-2).

D- “Sudditi” e “Superiori” sono figli di Dio e fratelli: RdV 10; 42

Il suddito non può essere considerato una cosa, ma come figlio di Dio che il Padre vuole che sia rispettato.

Anche se è vero che il Padre dà al Superiore carismi speciali perché divenga più intimo il dialogo tra il suddito e il Padre celeste, Dio non vuole che l’intermediario (il Superiore) si interponga in modo da disturbare il suddito nel dialogo diretto con il Padre. Dio può concedere a volte al suddito, nella preghiera, luci che non necessariamente concede al Superiore. L’idea che il Superiore parla direttamente con Dio e che poi comunica al suddito la volontà divina, non può essere assolutizzata. Di fatto, Dio parla direttamente a tutti i suoi figli, tanto più quanto più si dedicano alla preghiera. Per questo il religioso deve essere ascoltato dal Superiore.

Ma non si può dimenticare che anche il Superiore è figlio di Dio, che ha in più il particolare carisma comunitario del ministero dell’autorità (RdV 35.1). Perciò ha il potere di dare al religioso le certezze della fede che lo devono guidare e, quando è il caso, le decisioni (Ev. Test. 25; RdV 106; 34; 35).

Questo carisma fa sì che il volere del Superiore scorra in tutto il corpo comunitario, senza atrofizzare  la funzione specifica di ogni membro, anzi vivificandola (RdV 34; 35).

4.1. Atteggiamento evangelico del religioso obbediente

a). I religiosi prestino umile ossequio ai loro Superiori secondo quanto prescrivono la Regola e le Costituzioni: PC 14b; RV 35.2-3

L’umiltà è la base di ogni vera obbedienza. Il Concilio sottolinea che questa umile sottomissione si effettua “secondo quanto prescrivono la Regola e le Costituzioni”. Questo significa che il religioso dipende dal Superiore in quello che è previsto dalla Regola di Vita, e niente più. C’è, per tanto, una parte di vita concreta che il religioso deve assumere direttamente sulle sue spalle. C’è un campo personale e intimo che sfugge ad ogni intromissione. Ci sono attività che dipendono da leggi particolari: dovere elettorale, aspetti tecnici di certi servizi o lavori. La Regola di Vita parla espressamente del rispetto dovuto alla intimità di ciascuno («pricy») e delle iniziative personali che non intralciano la vita comunitaria (RdV 42.3).

b) Sottomissione attiva e creativa: RV 35.1; 106

Il Concilio dopo aver affermato il dovere dei religiosi di prestare umile ossequio ai loro Superiori, insiste nello stesso tempo perché i religiosi obbediscano responsabilmente.

«I religiosi […] prestino umile ossequio ai loro superiori col mettere a disposizione tanto le energie della mente e della volontà, quanto i doni di grazia e di natura, nella esecuzione degli ordini e nel compimento degli uffici loro assegnati, nella certezza di dare la propria collaborazione alla edificazione del corpo di Cristo secondo il piano di Dio. Così l'obbedienza religiosa, lungi dal diminuire la dignità della persona umana, la conduce alla maturità, facendo crescere la libertà dei figli di Dio» (PC 14b).

La Regola di Vita traduce questo insegnamento proponendoci una obbedienza attiva (RdV 35.1), che suppone un esercizio di autorità basato nel principio della sussidiarietà, che richiede corresponsabilità, collaborazione, rispetto di ogni missionario e si esprime specialmente nel dialogo (RdV 106).

L’obbedienza attiva si può esprimere a tre livelli:

Primo livello: Nell’interpretazione adeguata dell’ordine dato dal Superiore

Il Superiore non deve prendere tutte le decisioni al posto del religioso. Quest’ultimo, come uomo, ha il dovere di pensare la sua vita e la sua azione di religioso come qualsiasi adulto maturo pensa la sua vita umana, e di cercare di scoprire sempre più chiaramente ciò che Dio attende da lui.  Non è affatto un male se il religioso umilmente presenta al Superiore le sue idee e i suoi progetti, disposto in anticipo ad accettare, facendola sua, la decisione del Superiore, qualunque essa sia.

Il suddito maturo non è colui che risponde sempre “sì”, ma colui che, cosciente di essere uomo, manifesta con sincerità ciò che pensa; non mosso da risentimenti personali, ma per essere illuminato da chi comunitariamente sa più di lui, disposto alla collaborazione anche se marginato; non riferisce ai Superiore tutte le piccolezze, ma accetta di dialogare con essi quando situazioni importanti esigono che esprima la sua opinione.

Secondo livello: Nell’accettazione coscienti dell’ordine dato del Superiore

Infatti, il religioso è ancora una libertà che accetta, che accoglie, che trasforma l’ordine ricevuto in compito proprio, personale, ne assume la responsabilità, soprattutto se l’esecuzione gli impone sacrifici.

L’obbedienza meccanica o passiva non ha niente della vera obbedienza, è indegna della persona umana. Secondo una formula ben appropriata: «Bisogna avere iniziativa nell’obbedienza, e obbedienza nell’iniziativa»

Nel caso che il Superiore comandasse di fare una cosa che sembra inopportuna, correndo il rischio di andare incontro a gravi conseguenze, il religioso deve esprimere il suo pensiero e la sua preoccupazione. L’obbedienze non è rinuncia a comportarsi responsabilmente, ma è assumere personalmente l’ordine ricevuto così che il suddito lo senta e lo viva come proprio.

Terzo livello: Nell’esecuzione attiva dell’ordine ricevuto

Una volta che il religioso accetta l’ordine responsabilmente, così che lo senta come «proprio», allora si impegna attivamente anche nella sua esecuzione.

Apporta in essa “tanto le energie della mente e della volontà, quanto i doni di grazia e di natura” (PC 14b). Apporterà soprattutto l’energia del suo amore, e l’amore è sempre creativo.

Non è sufficiente accettare ed eseguire l’ordine, ma è necessario coinvolgersi in esso con tutta la capacita e le forze, come se si trattasse di una iniziativa e decisione personale.

L’obbedienza così intesa e vissuta “lungi dal diminuire la dignità della persona umana, la conduce alla maturità, facendo crescere la libertà dei figli di Di” PC 14b).

Il religioso, ben lungi dal sotterrare i suoi talenti, deve farli fruttificare al massimo, là dove l’obbedienza lo collocherà “nella certezza di dare la propria collaborazione alla edificazione del corpo di Cristo secondo il piano di Dio”(PC 14b).

4.2. Esercizio evangelico dell’autorità da parte del Superiore: RdV 106

a) Il Superiore, primo obbediente della comunità e servitore dei suoi fratelli

Il Perfectae Caritatis definisce il Superiore in questi termini: « I superiori …, docili alla volontà di Dio nel compimento del loro ufficio, esercitino l'autorità in spirito di servizio verso i fratelli, in modo da esprimere la carità con cui Dio li ama» (PC 14c).

Il Superiore è l’intermediario tra la volontà del Padre celeste e la fedeltà dei fratelli. Ciò esige che egli rimanga sempre sintonizzato con due poli: la volontà divina, traboccante di amore, e i religiosi che deve servire, manifestando loro questo e aiutandoli a corrispondervi con generosità.

Per tanto, la sua autorità si esercitata in un duplice servizio esistenzialmente unificato, che è il servizio del Padre e il servizio dei fratelli. Esattamente come ha fatto Gesù. Nel cristianesimo il modello dell’autorità sarà sempre il Signore Gesù, che lava i piedi ai suoi discepoli e dice loro: «14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,14-15).

Il Superiore, dunque, è il primo obbediente della comunità, colui per il quale il mistero fondamentale dell’obbedienza (= la comunione con la volontà del Padre) si realizza in modo eminente, fino al punto da essere rappresentante di Dio (cfr. PC 14a). Così egli deve aver cura di due obbedienze al Padre:

Innanzitutto, obbedisce alla volontà del Padre sulla comunità così come si manifesta nella Regola di Vita (della quale è interprete concreto) e anche negli eventi, le situazioni e le necessità umane, per mezzo dei quali Dio lancia le sue chiamate.

In secondo luogo, obbedisce agli appelli dello Spirito Santo nei religiosi, valutandoli con tutta la sua prudenza soprannaturale, aiutando ogni religioso in questa valutazione e sostenendolo nell’esecuzione.

Tutto questo suppone la pratica del dialogo (RdV 35.5) e del discernimento (RdV 33). Ognuno infatti ha una certa maniera, legittimamente personale, di vivere la vocazione comune dell’Istituto.

Secondo il P. Dherbomes, Maestro dei Novizi della Congregazione dei Figli della Carità, il Superiore deve essere un uomo che si interessa dei gusti umani dei suoi figli; la sua affettività deve essere ben integrata, deve saper dialogare e non far sempre entrare i sudditi nel gioco come pedine su uno scacchiere; deve suscitare confidenze; se il religioso è considerato come sospettoso o è tenuto in poco conto, mai accetterà di collaborare; infine sia autentico e sincero: se è sincero nelle amicizie, sarà per i fratelli esempio di castità; se potrà mettere sul tavolo l’agenda delle sue spese, sarà esempio di povertà; se prenderà decisioni in forza degli avvenimenti e darà le spiegazioni, sarà il vero promotore dell’obbedienza.

b) Il Superiore, padre di ogni membro della comunità

Tra il Superiore e il suddito, le relazioni devono essere quelle che intercorrono tra uomo e uomo, tra persona e persona, relazioni di tipo familiare, nel rispetto reciproco, nella reciproca fiducia, nel reciproco amore.

«Per realizzare la comunicazione dei valori umani nella relazione autorità-obbedienza, l’atmosfera ideale è data dalla bontà e dall’affetto. Ogni tensione ostacola la comprensione e l’accettazione dei valori proposti dall’autorità … Nella Chiesa non c’è modello più significativo di un banchetto, per comprendere i doveri dell’autorità e anche quelli di chi obbedisce. Proprio nel contesto della Cena Eucaristica Gesù, servendosi dell’esempio della lavanda dei piedi, suggerì il modo di governare la comunità dei credenti. L’esercizio dell’autorità è concepito come servizio ai commensali di Dio» (A. Di marino).

L’obbedienza e l’autorità si realizzano nell’incontro dell’autorità paterna (senza paternalismo) e della fiducia filiale (senza arbitrarietà) « (I Superiori) governino come figli di Dio quelli che sono loro sottomessi, con rispetto della persona umana e facendo sì che la loro soggezione sia volontaria» (PC 14c).  

c) Il Superiore, animatore della corresponsabilità comunitaria

La funzione dei Superori è che « guidino i religiosi in maniera tale che questi, nell'assolvere i propri compiti e nell'intraprendere iniziative, cooperino con un'obbedienza attiva e responsabile. Perciò i superiori ascoltino volentieri i religiosi e promuovano l'unione delle loro forze per il bene dell'istituto e della Chiesa, pur rimanendo ferma la loro autorità di decidere e di comandare ciò che si deve fare» (PC 14c).

Il Concilio sottolinea anche la necessità della pratica regolare dei Capitoli e dei Consigli nelle comunità locali. È sempre meno normale che il Superiore faccia tutto da solo, senza la collaborazione e corresponsabilità dei sudditi, anche se al Superiore spetta l’ultima decisione (PC 14c).

Un Superiore che governa una Provincia o una comunità locale, sollecitando pareri, inchieste e condividendo il più possibile certe zone di potere, avrà più certezza di scoprire la volontà di Dio; il cammino o la prassi contraria è sempre meno normale. Tuttavia non si può dimenticare che una comunità religiosa non è un’assemblea di deputati, dove ottiene valore di legge ciò che è approvato dalla maggioranza. Per questo nel caso che il Superiore non giudica conveniente o non può consultare i sudditi, le sue decisioni devono essere accolte con filiale obbedienza e senza opposizione.

Per tanto, nella vita religiosa non c’è obbedienza-imposizione: Superiori che soltanto comandano e mai sbagliano; sudditi che soltanto obbediscono e mai sbagliano, anche se piantano i cavoli con le radici in su…

C’è, al contrario, obbedienza-sottomissine, comune a tutti, Superiori e sudditi, davanti alla volontà di Dio.

Gesù è “inviato” e viene per obbedire al Padre per la salvezza del mondo. Egli comunica la sua missione a tutti i membri del Corpo Mistico: Superiori e sudditi, perché lo aiutino e collaborino con Lui, secondo la volontà di Dio, alla quale tutti sono chiamati a obbedire, come già si era espresso S. Agostino, dicendo: «Per voi sono Vescovo, con voi sono cristiano». Altrimenti, vivono nell’errore sia i Vescovi sia i battezzati, sia il Superiori sia i sudditi.

d) Libertà, coscienza, dialogo, obbedienza.

L'obbedienza nella vita religiosa non richiede e non produce esecutori passivi, privi di responsabilità, ma persone a cui è chiesta una profonda maturità morale, la quale comporta la capacità di agire con una coscienza profondamente protesa alla ricerca e all'attuazione del bene vero.

In questa ricerca, nonostante tutta la buona volontà ed entusiasmo, può sorgere conflitto tra coscienza e autorità.

La coscienza è il santuario dove Dio parla, ma deve essere formata secondo norme oggettive, giacché è relazionale.

Può succedere quindi che si presentino casi, di fronte ai quali, si rende necessario sottrarsi alla volontà del Superiore facendo ricorso all'obiezione di coscienza, ma a una condizione: che l'obiezione di coscienza non sia intesa come una sorta di meschina «furbata» per eludere il dovere dell'obbedienza; che il religioso non giudichi con troppa frequenza e leggerezza che la norma proposta dal Superiore sia “oggettivamente meno buona”. Simile modo di giudicare e agire distrugge il bene comune.

Praticamente: non si ammetta con leggerezza e con frequenza che ci sia contraddizione tra Superiori e sudditi; se per caso questo succeda, al religioso autentico non gli resta niente altro che ricorrere all’obbedienza sofferente di Gesù, così come è presentata nella lettera agli Ebrei (5,8).

L’esempio di Teilhar de Chadin

L’opera di Teilhar è una testimonianza di amore per Cristo: «Tentare tutto per il Cristo! Sperare tutto per il Cristo» (L’ambiente divino, p. 189).

La vita di Teilhar indica chiaramente che il suo riconoscimento di Cristo non è un frase entusiastica e a buon mercato. Nel momento in cui vide che gli veniva negata la possibilità di pubblicare le sue opere filosofico-teologiche, rifiutò ogni specie di appoggio, nonostante che sentisse una immensa amarezza. Quando alcuni dei suoi amici, scandalizzati per gli ostacoli posti contro la sua carriera scientifica o contro la sua libertà apostolica, lo consigliavano a liberarsi della fascia dell’Ordine e passare a essere semplice Sacerdote secolare, rispose con tutta serietà: «Se uscissi dal mio ambiente divino, se lasciassi la fascia che mi mantiene legato alla volontà di Dio, non avrei più la fiducia di essere guidato da lui». Egli si sottomise umilmente e questa è forze la sua opera più grande, dal punto di vista dell’Eternità ancora più grande delle sue opere creative. La sua umiltà è l’essenza che penetra le sue affermazioni. Esse hanno perciò una particolare importanza esistenziale; il suo amore per Cristo diviene credibile, perché custodito nell’umiltà fino alla fine della sua vita.

Questa umiltà dimostra che viveva effettivamente immerso nella realtà divina della quale testimonia:

«La tentazione del Mondo troppo grande, la seduzione del Mondo troppo bello, dove sono ora?

Non esistono più. La Terra mi afferri, ormai, tra le sue braccia giganti. (…) I suoi incantesimi non mi possono più nuocere da quando essa è diventata per me, al di là di se stessa, il Corpo di Colui che è, il Corpo di Colui che viene! L’Ambiente Divino!» (L’ambiente divino, p. 189; cfr. Alexander Gosztonyi: Teilhar de Chadin, Sansoni, p. 242).

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LA PREGHIERA DEL SUPERIORE

La preghiera di Salomone per ottenere la sapienza

1 «Dio dei padri e Signore della misericordia,

che tutto hai creato con la tua parola,

2e con la tua sapienza hai formato l'uomo

perché dominasse sulle creature che tu hai fatto,

 3e governasse il mondo con santità e giustizia

ed esercitasse il giudizio con animo retto,

 4dammi la sapienza, che siede accanto a te in trono,

e non mi escludere dal numero dei tuoi figli,

 5perché io sono tuo schiavo e figlio della tua schiava,

 uomo debole e dalla vita breve,

 incapace di comprendere la giustizia e le leggi.

 6Se qualcuno fra gli uomini fosse perfetto,

privo della sapienza che viene da te,

sarebbe stimato un nulla.

9Con te è la sapienza che conosce le tue opere,

che era presente quando creavi il mondo;

lei sa quel che piace ai tuoi occhi

e ciò che è conforme ai tuoi decreti.

10Inviala dai cieli santi,

mandala dal tuo trono glorioso,

perché mi assista e mi affianchi nella mia fatica

e io sappia ciò che ti è gradito.

11Ella infatti tutto conosce e tutto comprende:

mi guiderà con prudenza nelle mie azioni

e mi proteggerà con la sua gloria.

(Sap 9,1-6.9-11)

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SUPPLICA
per l’esercizio dell’autorità e per la pratica dell’obbedienza

Dammi, Signore, la semplicità di un bambino

e la coscienza di un adulto.

Dammi, Signore,

la prudenza di un astronauta

ed il coraggio di un soccorritore.

Dammi, Signore, l'umiltà di uno spazzino,

e la pazienza di un infermo.

Dammi, Signore, l'idealismo di un giovane

e la saggezza di un anziano.

Dammi, Signore, la disponibilità

del Buon Samaritano

e la gratitudine del bisognoso.

Dammi Signore tutto ciò che di buono

vedo nei miei fratelli,

che hai colmato dei tuoi doni.

Fa', Signore, che io sia imitatore dei tuoi santi,

o, meglio, che sia come Tu vuoi:

perseverante come il pescatore,

e pieno di speranza come il cristiano.

Che rimanga nella vita di tuo Figlio

e al servizio dei fratelli. Amen.

[Preghiera tratta dal Manuale di Preghiera "Incontro", a cura di Ignacio Larrañaga].

P. Carmelo Casile
Casavatore, febbraio-maggio 2018

 

[1] Per chiarire e approfondire questo argomento è molto attuale l’Istruzione della CIVC-SVA “Il servizio dell’autorità e l’obbedienza. Faciem tuam, Domine, requiram. (FT), dell’11 maggio 2008.

Questa Istruzione vuole essere, infatti, uno strumento di riflessione e di aiuto, di animazione e di incoraggiamento a tutti i consacrati, perché rendano sempre più sicura la loro vocazione (cfr 2Pt 1, 10), avanzando fra le sfide e le difficoltà del momento presente, con il cuore e la mente fissi in Cristo, Maestro e Signore e Figlio obbediente al Padre.

LA FUNZIONE DEL SUPERIORE LOCALE,

DELLA COMUNITÀ E DI OGNI MISSIONARIO

NELLA FORMAZIONE PERMANENTE

Introduzione

Il primo testo della Regola di Vita, frutto del rinnovamento promosso dal Concilio Vat. II che invitava i religiosi a tornare alla “primigenia inspiratio” e del Capitolo Speciale del 1969 che segnò l’inizio della risposta a tale invito, è nato nel XII Capitolo Generale del 1979 e fu approvato per sette anni dalla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli il 5 febbraio 1980.

Durante questo settennio di gestazione del testo, la Congregazione per i vescovi e SCRIS pubblicò l’istruzione Mutuae Relationes dedicata ai Criteri direttivi sui rapporti tra vescovi e religiosi nella Chiesa (14 maggio 1978), e nel 1983 Giovanni Paolo II promulgò il Codice di Diritto Canonico, che nella Parte Terza del Libro Secondo tratta degli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica: can. 573‑746.

È di particolare interesse il fatto che il nuovo Codice nei suoi canoni, con grande senso pastorale, tiene conto delle esigenze legittime poste dalla realtà socioculturale di oggi, quella in particolare del rispetto della persona, e dà luogo a numerosi elementi teologici spirituali.

Nella Mutuae Relationes di particolare importanza è il Cap. III (nn. 10‑14), che tratta della  Vita Religiosa nella comunità ecclesiale.

In rapporto alla Formazione Permanete e del ruolo del Superiore in essa, sono interessanti e ancora di piena attualità i numeri 11 e 14 di questo capitolo.

Questo era il clima ecclesiale che ha certamente influito positivamente nel periodo di gestazione del primo testo della nostra Regola di Vita

Il Capitolo Generale del 1985 è stato un momento di verifica di questo primo testo, che viene migliorato, tenendo conto delle osservazioni particolari dei confratelli, del Capitolo stesso, delle indicazioni della Mutuae Relationes, del nuovo Codice di Diritto Canonico e delle osservazioni della Santa Sede.

Nell’entusiasmo degli inizi era necessario mantenere vivo l’interesse per la Regola di Vita come stimolo per fomentare la nostra fedeltà al carisma (MR 11 e14).

Da qui nasceva la necessità sempre urgente che i Superiori nella funzione di animatori delle comunità creassero con i confratelli un ambiente favorevole per accogliere la Regola di Vita, studiarla, meditarla in comunità e individualmente, in modo che fosse fonte di spiritualità missionaria e di metodologia apostolica.

In questo contesto, il P. F. Pierli, prima come Assistente Generale e poi durante il suo mandato come Superire Generale (1985-1991), pubblicò varie riflessioni nel MCCJ Bulletin, dove approfondisce questo tema, offrendo interessanti motivazioni teologiche e proponendo iniziative concrete perché la Regola di Vita diventi “espressione e sorgente della spiritualità comboniana” e di metodologia missionaria sotto la guida di san Daniele Comboni:

  • Comboni nella «Regola di Vita», MCCJ Bulletin 127, Marzo 1980, pp. 24-30
  • Comboni nella nostra vita, MCCJ Bulletin 148, Gennaio 1986, 1ss
  • Regola di Vita, espressione e sorgente della spiritualità comboniana, MCCJ Bulletin 149, Aprile 1986, p.1s
  • Il ministero del Superiore locale nella comunità missionaria comboniana. Un invito alla riscoperta e alla accettazione da parte di tutti del ministero del Superiore locale, MCCJ Bulletin 166, Aprile 1990, pp. 1ss

Alle riflessioni di P. Pierli c’è da aggiungere una di P. Milani:

  • Il ruolo del governo provinciale di fronte alle sfide di oggi, MCCJ Bulletin 1150, Luglio 1986, pp. 22-24: un testo che può essere applicato anche al ruolo del Superore locale.

Così si arrivò al 3 dicembre 1987, data in cui la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli ha approvato definitivamente il testo della Regola di Vita come lo abbiamo oggi, frutto della accoglienza e dell’approfondimento del primo testo.

Riguardo alla Formazione Permanente, l’attuale Regola di Vita delinea un piano che deve continuare anche dopo che il missionario ha completato le fasi della formazione di base. Lo richiede il carattere carismatico/profetico della nostra consacrazione missionaria comboniana mediante la professione pubblica dei consigli evangelici (RV 1; 10; 16) e il concetto stesso di formazione che mira alla “crescita integrale umana e cristiana” della persona (RV 83). Ciò pone il missionario comboniano “in un processo di crescita che dura tutta la vita” (RV 85).

In questo contesto, la Regola di Vita esplicita la FP in primo luogo come:

  • necessità che ogni missionario sia egli stesso evangelizzato;
  • conversione personale;
  • rinnovamento nel settore teologico, culturale e tecnico (RV 99).

In secondo luogo asserisce che la responsabilità della FP spetta al singolo missionario, alle comunità, ai superiori, in mutua collaborazione (RV 100), in stretto rapporto anche con la Chiesa locale e l’ambiente in cui il missionario vive. Infatti, “il missionario è membro della comunità in cui vive, dell’Istituto, della Chiesa e del mondo: è quindi beneficamente influenzato nel suo rinnovamento se rimane aperto ad essi e vi partecipa in modo conveniente”(RV 100.3).

1. Responsabilità della “Formazione Permanete”

Per determinare la funzione del Superiore locale nella FP, è imprescindibile avere una visione chiara della responsabilità e delle funzioni che in tale processo vengono proposte nell’Istituto.

L’Assemblea Intercapitolare del 1988, realizzata a Ellwangen, partendo dalle indicazioni delle Regola di Vita, e dal Capitolo del 1985 (AC ‘85,69-84), ha elaborando un esauriente progetto per la “Formazione Permanente nel nostro Istituto”: AI ’89,18-26.

I punti fondamentali di tale progetto mantengono sostanzialmente intatta ancora oggi la loro attualità e attraversano in qualche modo gli Atti Capitolari dal Capitolo del 1991 fino ad oggi.

In questo documento appare chiaro che il primo punto da prendere in considerazione è che “la responsabilità della FP è condivisa, anche se in forme diverse, con tutti i membri dell’Istituto” (AI ‘88, 24.1), cioè: ogni missionario, le comunità, e i superiori in stretta collaborazione (cfr. RdV 100).

Il n. 24.2-4 specifica la responsabilità di ciascuno:

  • il missionario è il soggetto primordiale e responsabile della sua formazione permanente e deve essere il primo al impegnarsi;
  • la comunità locale è soggetto di formazione ed è il luogo ideale per mettere in movimento un vero processo di maturazione del missionario;
  • i Superiori, come animatori competenti (MR 23), hanno una responsabilità particolare nel incrementare il rinnovamento continuo dei Missionari dell’Istituto.

Il numero 25 propone le linee di azione per la FP secondo le rispettive funzioni: comincia dal singolo comboniano, passa alla comunità locale, al Consiglio Provinciale, ecc., senza nominare espressamente il Superiore locale.

Certamente la Regola di Vita nel numero 100 e l’AI ’88 nel numero 24, parlando dei Superiori in quanto responsabili della FP intendono parlare del Superiore Generale e Provinciali con il loro rispettivi Consigli e ausiliari fino al Superiore locale, che è l’ultimo anello della catena costituita da coloro che esercitano il “servizio dell’autorità” nell’Istituto e la cui responsabilità nella FP della comunità è descritta nella Regola di Vita soprattutto nei numeri 42 e 107.

Il Direttorio della Provincia Italiana del 2000, nei numeri 77 e 77.1-2, evidenzia la funzione del Superiore locale presentando la comunità come “il luogo più favorevole al processo di crescita e rinnovamento del missionario” e il Superiore, “come animatore della comunità, s’impegna a promuovere con responsabilità il cammino di formazione permanente sia a favore del singolo che della comunità».

Una visione simile viene proposta anche dal Direttorio della Provincia del Perù al n. 9.5, dove mette in evidenza la funzione del Superiore, presentando la comunità come soggetto e luogo ideale della FP, “animata dal Superiore”.

Non c’è dubbio che nella FP, “processo di crescita continua e globale della persona che riguarda tutti i comboniani” (AI ’88, 23.1), la funzione del Superiore locale è fondamentale e determinante. Tuttavia la sua attuazione sarà possibile ed efficace nella misura in cui agiscano tutti gli altri attori: la comunità come tale, ogni suo membro, i Superiori Maggiori, che sono animatori qualificati (MR 23) e la cui azione arriva alle comunità locali attraverso il servizio dei rispettivi Superiori.

Per questo cercheremo di sottolineare la funzione del Superiore locale, tenendo davanti allo sguardo l’insieme delle funzioni che devono intervenire nel processo della Formazione Permanente.

2. Il dinamismo di una comunità comboniana

La AI ’88 segnala che il missionario e la comunità locale sono ambedue soggetto della Formazione Permanente in mutua relazione per la loro crescita: il missionario è il soggetto primordiale e responsabile della propria formazione; la comunità locale è soggetto di formazione e luogo ideale per mettere in movimento un vero processo di maturazione del missionario (AI ’88, 2 e 3; cfr. RdV 100.1-2; AC ’85,22-34; AC ’91, 38.1).

Per tanto il dinamismo di una Comunità Comboniana locale è il punto di partenza, perché il Superiore locale percepisca la sua funzione e, nello stesso tempo, costituisce una condizione indispensabile, che gli permette assumere “il servizio dell’autorità” in questa Comunità concreta, e così promuova un processo di FP d’accodo alle esigenze della stessa Comunità, che costituzionalmente è Comboniana.

2.1. Alcuni principi su cui riflettere

Per esercitare il “il servizio dell’autorità”, in vista a incrementare o a rendere possibile il processo della Formazione Permanente, il Superiore deve fare suoi alcuni principi dottrinali basici.

Nella riflessione sulla Missione e soprattutto sulla Vita Consacrata che si viene facendo a partire dal Concilio Vat. II, si cerca di analizzare l’autorità e l’obbedienza alla luce della missione.

Si dice che è necessario passare dalla “imitazione di Cristo obbediente” alla “fedeltà alla missione di Cristo obbediente”, fino alla morte.

L’obbedienza non è un virtù statica, ma un continuo scoprire la volontà del Padre nella storia degli uomini qui e ora (cfr. RdV 16; Preambolo). È necessario lasciarsi coinvolgere dalla Missione, che è l’elemento dinamico e unificatore per gli individui e per la comunità. In quest’ottica, sono obbligati all’obbedienza tutti i membri di un Istituto, i Superiori e i singoli religiosi. Ognuno è chiamato a dare il suo contributo per scoprire il progetto di Dio e le modalità della sua realizzazione oggi.

Da qui segue che è necessario passare dal verticalismo alla sussidiarietà. L’autorità è una delle funzioni attraverso le quali si realizza la missione. Questa richiede uno spirito di creatività e di iniziativa, di compartecipazione responsabile. Non già un attitudine di dipendenza, ma di interdipendenza. E tutto questo non elimina la funzione gerarchica.

Questa visione ha il suo fondamento nel Concilio Vat. II: Gaudium et Spes 3; 4; 6; 7; 11; 27; 92; Lumen Gentium 18; 20; 24; 27.

Il primo documento segnala la comune dignità della persona umana; il secondo afferma la visione della Chiesa-Popolo di Dio, con le conseguenze della collegialità e della compartecipazione (es.: Sinodo dei Vescovi, Consiglio presbiterale, ecc.).

Altro elemento è la Teologia dello Spirito Santo che agisce in ogni credente. Questo ha portato alla scoperta del discernimento comunitario come esercizio della funzione profetica.

In sintesi: l’obbedienza e l’autorità sono una costante ricerca della volontà di Dio, in modo dinamico e creativo, con il concorso di tutti e con lo sguardo fisso sulla missione.

2.2. Necessità del ministero dell’autorità e dell’accoglienza del dono della comunità

Il Capito del 1985 dà un panoramica della situazione delle Comunità locali nell’Istituto e, sottolineando i punti in cui c’è da migliorare, constata la “la mancanza di incisività nel ruolo del Superiore locale” (AC ’85,22).

Certamente con la nomina il Superiore non riceve automaticamente la capacità che questo servizio richiede; e richiede la sua spiritualità e la sua tecnica che bisogna attivare coltivandole. In fatti, se coloro che hanno la responsabilità vengono meno nella loro capacità organizzativa, di coordinazione e di animazione spirituale, la Comunità non funziona ed è impossibile evitare certe deviazioni come l’individualismo, la settarizzazione della comunità, manipolando le persone e creando in esse senso di isolamento e frustrazione, con il pericolo che la comunità perda di vista la sua finalità o la scolori.

Se la Comunità locale non funziona, vuol dire che anche la Provincia non sta bene in salute, perché ciò che esiste in concreto non è la Provincia come tale, ma le comunità locali, dove di fatto si sviluppa la vita comunitaria e il carisma si esprime e si vive nella quotidianità.

Per tanto, parlando di servizio di animazione della Comunità, bisogna partire necessariamente anche dalla riflessione sulla Comunità, o meglio dall’impegno di ogni missionario comboniano nell’assumere la vita comunitaria come elemento essenziale della sua identità (AC ’85,22).

È questo un aspetto fondamentale della responsabilità del missionario riguardo alla sua formazione permanente personale, perché è capace di fare della comunità il luogo ideale per mettere in marcia un vero processo di maturazione del missionario (Cfr. AI ’88, 24.2-3). 

In analogia con il Concilio Vat. II che nel Cap. III della LG parla della autorità gerarchica come realtà inserita nel Popolo di Dio, così anche nell’Istituto dobbiamo intendere il ministero dei Superiori, principalmente del Superiore locale, come ministero dentro una comunità, cioè dalla e per la comunità.

Se non si comprende bene la comunità, se non si assume il dono della vita comunitaria (cfr. RdV 36) e le sue esigenze (cfr. RdV 37-45, ecc.) è difficile capire ed accettare il ministero dell’autorità, e il vuoto di questo servizio o la mancanza di incisività nella funzione del Superiore locale (AC ’85,22) non saranno facilmente rettificati. Al contrario, si corre il rischio di cadere o di continuare nel protagonismo individualista in una Comunità-Hotel, e di passare da una interpretazione autoritaria del “ministero dell’autorità” al lassismo del lasciar fare (AC ’85,22).

La Regola di Vita, nel numero 102, presenta la funzione del Superiore come “capacità di servizio in spirito di comunione e partecipazione”. Infatti, la Comunità-Popolo di Dio può e deve aiutare nel discernimento, riconoscendo e sottomettendosi in tutto all’unica autorità che è il Signore Gesù, il quale esercita la sua signoria nell’Istituto servendosi della mediazione dell’autorità, perché non c’è obbedienza al Signore Gesù senza la mediazione dell’autorità da Lui stesso costituita.

Un’obbedienza a Cristo senza mediazioni è un privilegio che non fu concesso a nessuno nella Storia della Salvezza.

La Settimana Santa, e in particolare il Venerdì Santo, sono la rivelazione del valore salvifico dell’obbedienza a Dio e della necessità di imparare non astrattamente, ma vivendola entro le lotte quotidiane, senza tentare di scappare o farsi dispensare o ottenere privilegi. È necessario imparare a obbedire rimanendo e impegnandosi là dove la Provvidenza ci ha messo, dove i problemi inseguono, e dove si sperimentano situazioni di morte, a somiglianza di Gesù, il quale «imparò l'obbedienza da ciò che patì9e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,7-9).

Per questo, tale capacita di servizio è possibile, se si supera l’istinto che ci porta all’autoaffermazione e si entra nello spirito del “Servo di Jahavé”.

Gesù una volta che spinto dallo Spirito entra nel cammino del “Servo di Jahavé”, trova opposizione nei suoi parenti e anche nei Dodici, i quali, senza questo Spirito di Gesù, vogliono servirsi degli altri invece di servirli.

È una tentazione sempre latente nella vita di una Comunità cristiana, che emerge lasciando le sue nefaste tracce, anche se ciò avviene “a fin di bene”, cioè perché uno riesca a fare “il suo apostolato…”.

Chi è chiamato a esercitare “il servizio dell’autorità”, è necessario che sia imbevuto dello spirito del Buona Pastore, per essere capace di caricarsi del peso della responsabilità, disposto a tentare di ricostruire continuamente le relazioni fraterne e a prestare a ciascuno il servizio o l’attenzione di cui ha bisogno, tenendo presente le persone concrete con la loro storia, le loro esigenze, talenti, aspirazioni, sensibilità, limitazioni, ecc.

Ma questo genere di servizio sarà effettivamente benefico nella misura in cui ogni missionario accoglie con gratitudine il dono della vita comunitaria e rinnova ogni giorno il suo impegno a questa vita comunitaria (RdV 36; 36.3), ed è convinto che “l’essere essenzialmente comunione di fratelli e comunità evangelizzatrice lo interpella continuamente alla valutazione e al rinnovamento” (AC ’85,22-34; AI ’88,23.3; cfr. RdV  100.2;).

2.3. Origine e fondamento della comunità comboniana

Nel processo di FP non si tratta di dinamizzare una Comunità missionaria religiosa in generale, ma una Comunità ben determinata, che è la Comunità comboniana.

Senza questo approccio, si sbiadirebbe la vita comunitaria e personale, per la mancanza di un punto di riferimento stimolante con il quale identificarsi e orientarsi nel cammino di fede nel mondo e per il mondo (RdV 16).

L’origine e il fondamento della Comunità comboniana è precisamente l’esperienza di san Daniele Comboni.

Fare l’esperienza di Daniele Comboni o interiorizzare il suo carisma, significa che un missionario è comboniano, perché sta costruendo la sua personalità di missionario religioso sotto la guida di san Daniele Comboni.

Infatti, un Istituto missionario religioso nasce nella Chiesa in virtù della mediazione originaria, remota e prossima dell’esperienza del fratello, che provoca l’attuazione della fede verso la realizzazione di un progetto vocazionale comunitario: “fides ex auditu”.

Fare l'esperienza del fratello significa:

  • ascoltare il Dio della vita che ci chiama e c’invia al mondo d’oggi per mezzo di una persona concreta, che ci coinvolge nel suo cammino di fede, speranza e carità da essa vissuto nella missione che é stata chiamata a svolgere nella Chiesa;
  • accettare la mediazione di questa persona come dono provvidenziale di Dio che ci stimola e ci guida nella continua crescita in Cristo e nell'identificazione vocazionale;
  • riconoscere in questa persona il “padre” secondo lo spirito, che ci genera ad un particolare stato di vita nella Chiesa e diviene “capostipite” e “timoniere” di un gruppo di con-vocati per la realizzazione di un progetto vocazionale comunitario.

Può darsi che ci sia chi faccia fatica ad accettare che un fratello divenga suo padre nello spirito.

Un tale atteggiamento può dipendere dal “complesso paterno” presente nella società attuale, che porta all'incapacità di accettarsi come “figlio” ad un livello più radicale ed universale di quello biologico, cioè generato da qualcuno che sia fonte della propria vocazione e missione nel mondo.

La ragione di quest'atteggiamento sta nel fatto che l'uomo attuale vuole essere la causa di se stesso e realizzarsi con le proprie forze con la conseguente tentazione del protagonismo, dell’opzione di vivere in funzione di se stesso.

Ma la Parola di Dio ci invita a entrare in un cammino di fede nel Dio dei nostri padri, che è un intreccio di solidarietà tra i membri del popolo in cammino e tra le generazioni.

Nasce così un cammino di fedeltà non tanto a partire da quanto noi abbiamo promesso a Dio, ma piuttosto da quanto ci è stato promesso da Lui mediante quest’intreccio di solidarietà. La fedeltà ci porta, per tanto, a guardare la vita nella prospettiva del disegno di Dio, che è il Dio-con-noi, capace di fare della nostra fragilità un cammino di fedeltà a beneficio dell’umanità intera.

Per i Missionari Comboniani del Cuore di Gesù l’esperienza originaria del fratello, che provoca il loro comune progetto di consacrazione a Dio per tutta la vita per il servizio missionario universale, è Daniele Comboni e i suoi primi seguaci: RV 1-9; 81; 81.2.

Daniele Comboni infatti, in quanto Fondatore, è una mediazione vocazionale eloquente e determinante, che imprime un tono caratteristico nella realizzazione della vocazione missionaria di un gruppo di persone che costituiscono l’Istituto Comboniano.

Daniele Comboni è il Fratello al quale Dio concesse una vocazione trans-storica, per metterlo così come guida nel cammino vocazionale di molti altri, chiamandoli a seguire Gesù Cristo, unico missionario del Padre, accentuando i suoi atteggiamenti di Buon Pastore dal Cuore Trafitto: RdV 1: 1.1.3.4; 3-5; 81; 81.2.

L’esperienza remota del Fratello sono i Missionari Comboniani che hanno dato continuità a questa prima esperienza originaria e quindi hanno contribuito a incrementare il patrimonio spirituale dell’Istituto: RV 1.4

L’esperienza prossima del Fratello sono i Missionari Comboniani del Cuore di Gesù con le loro attuali Costituzioni: RdV 36.4; 92.3.

Il carisma del Fondatore infatti si rivela come una esperienza nello Spirito trasmessa ai discepoli per essere vissuta, coltivata, approfondita e costantemente sviluppata da essi (MR 11).

Questo sviluppo deve essere realizzato in un contesto di apertura universale, illuminata e costruttiva davanti ai segni dei tempi (RdV 16), i movimenti di spiritualità nella Chiesa e i valori delle religioni non-cristiane: RdV 47; 50.4; 84.3; 100; 48; 48.3-6.

L’esperienza missionaria vissuta da Daniele Comboni, accolta e sviluppata dai suoi discepoli fino all’attuale Regola di Vita dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù (RdV 1), ha come fondamento tre pilastri inseparabili, dai quali risulta l’immagine integrale del Missionario Comboniano: la consacrazione, la comunione e il servizio missionario.

2.3.1. La consacrazione o alleanza

La consacrazione è l’esperienza di Dio in Cristo e costituisce l’ esperienza mistica che dà il tono alla personalità missionaria. È intesa e vissuta come alleanza con Dio, in quanto percepisci che Dio ti chiama “a faticare alla sua gloria, e a consumare la vita per il bene delle anime”, e che tu gli stai rispondendo.

Daniele Comboni vive la dimensione della consacrazione come fede invincibile che la sua vocazione viene da Dio; non usa il termine alleanza, ma l’atro equivalente, cioè “Gloria di Dio”: S 13; 15; 407; 2698; RdV 46; 81; 20-35.

2.3.2. La comunione o koinonia

La comunione o koinonia è la vita comunitaria con il rispettivo senso di appartenenza all’Istituto. Va intesa come relazione fraterna con coloro con in quali ogni missionario condivide il carisma del Comboni: RdV 1-9; 10; 36-45, ecc. Nel linguaggio di Comboni è “il Cenacolo di Apostoli”: S 2648.

Questa comunità o “Cenacolo di Apostoli” bisogna intenderla come una realtà che è nello stesso tempo umana e spirituale (teandrica). 

La dimensione spirituale implica accettare la sfida che la nostra condizione umana, individuale e comunitaria, sia trasformata in Cristo per lo Spirito Santo. Infatti, nella comunità comboniana “lo Spirito Santo è il vincolo della comunione. Egli distribuisce con larghezza a ciascuno doni e servizi diversi” (RdV 37), e così, dopo averci chiamati, ci mantiene uniti e ci fa lavorare con spirito di gratitudine (Cfr. RdV 20). 

La dimensione umana è composta della storia di ciascun membro e della sua realtà concreta come uomo, che è portatore di talenti e aspirazioni (RdV 42) ed è accompagnato anche da limitazioni e problemi (RdV 38.4). Lo Spirito Santo non sorvola questa realtà contrastante. Rendersi conto di ciò non è  per niente facile, si capta solamente mediante un dialogo costante ed  un contatto interpersonale che porti ad assumere la realtà dell’altro.

In questo dinamismo di integrazione entra anche il giusto equilibrio tra carisma e istituzione come elementi non contrapposti ma complementari. Anche il fattore umano si converte in mediazione per l’azione dello Spirito Santo.

2.3.3. Il servizio missionario o diakonia

Il servizio missionario nella sua dimensione “ad Gentes” e di animazione missionaria (cfr. RdV 13; 57-76) è parte costitutiva del carisma comboniano, assieme alla dimensione mistica e comunitaria.

In Daniele Comboni la diakonia implica due aspetti: “A chi?” e “Come?”. La Regola di Vita definisce lo “A chi?” al n. 13 e include anche le comunità cristiane che hanno bisogno di animazione missionaria. Riguardo al “Come?”, la Regola di Vita lo definisce sottolineando una metodologia certa, espressa nel motto comboniano “Salvare l’”Africa con l’Africa” (RdV 7). Questa visione profetica del Fondatore porta il Missionario comboniano a:

  • rispettare e avere fiducia nei popoli ai quali è inviato.
  • promuovere lo sviluppo di comunità cristiane locali, autosufficienti e responsabili della diffusione del Vangelo anche ad altri popoli (RdV 7.1; cfr. anche 61-70).

Questo induce il missionario a prendere coscienza della provvisorietà del suo servizio missionario.

Per tanto, esperienza mistica, comunità fraterna e impegno apostolico formano un insieme indivisibile, nel quale il missionario, attraverso il cammino ascetico, va plasmando la sua identità vocazionale: identità che diviene problematica, se il progetto carismatico viene ad essere mutilato negli elementi essenziali che lo compongono.

Un carisma, infatti, è come un mosaico, ideato dallo Spirito Santo; la sua originalità bisogna cercarla nel suo insieme e anche e soprattutto nella armonia della relazione tra le parti che lo compongono, cioè nel modo come ogni elemento si coniuga con gli altri.

Un equivoco fatale in questo cammino di identificazione è la tendenza a identificare il carisma con l’impegno apostolico, cioè la “missione ad gentes”, che l’Istituto Comboniano è chiamato a realizzare nella Chiesa. Questo è un modo riduttivo e puramente funzionale di considerare il dono dello Spirito Santo, ricevuto mediante san Daniele Comboni. Simile visione del carisma impoverisce l’efficacia apostolica (la dimensione testimoniante, RdV 58) in favore dell’efficienza, fino al punto di perturbare la crescita continua e integrale della persona del Missionario o portare alla perdita dell’identità vocazionale.

L’efficacia infatti dipende dall’armonia esistente tra le componenti del carisma comboniano; si deve distinguere dall’efficienza che si limita semplicemente a un buon uso dei mezzi necessari per realizzare le opere apostoliche.

Così, per esempio, un missionario comboniano che sia un ottimo agente di promozione umana o ottimo agente sanitario, ecc., rimarrà unicamente a livello di efficienza con danno della efficacia apostolica, se non riesce ad armonizzare le sue buone qualità con l’esperienza mistica e la vita fraterna, che sono elementi fondamentali del carisma comboniano.

Il criterio ultimo di questa efficacia vocazionale è la manifestazione visibile, la testimonianza dei valori proclamati da Gesù e vissuti intorno ad un valore accentuato nell’esperienza mistica del Fondatore (RdV 2-5; 10). La mancanza di questa armonia conduce ad efficienze più che ad efficace vocazionali, impoverendo e danneggiando la vita del missionario e quindi della comunità.

Di fatto è impossibile comprendere integralmente l’obbiettivo apostolico, quando uno lascia di approfondire l’esperienza mistica  e comunitaria, che deve stimolare la vita dell’Istituto. Allo stesso modo, esperienza mistica e relazioni comunitarie e senso di appartenenza devono essere unite in funzione del servizio missionario.

Per tanto, uno dei compiti fondamentali del Superiore locale, in quanto animatore della Formazione Permanente nella comunità, è mantenere viva nella comunità e aiutare a tradurre nella pratica questa convinzione, cioè che la vita di un missionario comboniano sarà autentica e significativa nella comunità tanto quanto ognuno dei suoi membri si impegna a vivere secondo il carisma del Fondatore nella sua globalità e in ciascuna delle sue dimensioni.

Il processo di assimilazione della esperienza del Comboni, cioè del suo carisma, da parte di ciascun membro della comunità, porta ad un’identità comune, l’identità comboniana, che diviene il fondamento della crescita nell’identità personale e nella vita fraterna.

I numeri 1 e 10 della Regola di Vita sottolineano la sequela di Cristo vissuta da ogni missionario comboniano in modo peculiare sotto la guida di san Daniele Comboni. A partire da questa esperienza comune, la personalizzazione del carisma che ne deriva, arricchisce la vita della comunità e dell’azione missionaria.

In questa prospettiva non ha senso enfatizzare nella comunità il “secondo me”, cioè la percezione o il modo di intendere di ciascuno, ma bisogna mettere l’accento sull’esperienza del carisma del Comboni, che la Regola di Vita legge e traduce con un linguaggio teologico oggi disponibile e accessibile a tutti (= consacrazione-comunione-missione), così che ciascuno lo esprima secondo le sue caratteristiche personali e culturali e nasca il “noi” comboniano.

2.4. La comunità comboniana come realtà escatologica

Un’esperienza di tipo carismatico come avviene nella Vita Consacrata non è qualcosa di già fatto, ma è un processo, una tensione verso qualcosa da costruire tutti i giorni; è un essere orientati verso una meta da raggiungere “insieme”, per essere “insieme” segno del Regno che viene in mezzo al mondo (cfr. S. 2648).

Per tanto, lamentarsi che “non c’è comunità” perché la comunità è in movimento, significa pensare in comunità statiche e definitive, in comunità del “si è sempre fatto così”, quindi senza anima. La comunità, invece, è il luogo dove uno entra e comincia l’interazione intorno al carisma comune nel “qui e ora” della storia.

Tale interazione è fondamentale e può essere disturbata dalla rotazione dei membri della comunità, quando è molto frequente, come a volte avviene tra di noi.

L’instabilità che nasce da questa situazione, può essere superata mediante la continuità nel fine e nella metodologia che devono essere garantiti dal Progetto comunitario e soprattutto dal servizio dell’autorità, che dovrà essere definito il più possibile, per lo meno riguardo ai criteri di attuazione.

La comunione è un dono di Dio, che bisogna chiedere al Signore e che bisogna anche accogliere (RdV 36; 36.2); in quanto accolta è il risultato di un serio impegno di ascesi personale, nel quale il missionario “sperimenta in modo singolare il mistero della vita che nasce dalla morte” (RdV 35.3), cioè dal coinvolgimento nella logica del Mistero Pasquale.

Perciò, la comunità sarà luogo di gratificazione, quando nello stesso tempo è luogo di continua conversione, in primo luogo al Signore Gesù, poi a san Daniele Comboni e in fine alle persone con le quali lo Spirito Santo ci chiama vivere.

La Regola di Vita al numero 36.3 parla di esperienze di difficoltà e tensioni nella convivenza con i fratelli, che convincono il missionario della necessità di rinnovare ogni giorno il suo impegno alla vita di comunità.

Nessuno ha diritto di imporre ciò che porta dentro di sé, se non entra in una vera comunione, con la quale si mette in una posizione di reciprocità nel dare e nel ricevere, nell’accogliere e nell’essere accolto.

2.5. La Comunità comboniana come realtà aperta all’universalità

Nella misura in cui viene interiorizzato il carisma attraverso un sincero camino di conversione, lo sviluppo dell’esperienza del carisma comboniano deve realizzarsi in un contesto di apertura universale (RdV 8), alla luce dei segni dei tempi (RdV 16), dei movimenti di spiritualità della Chiesa e dei valori delle stesse religioni non-crstiane: RdV 47; 48.3-6; 50.4; 84.3; 100.3).

In particolare nel contesto multiculturale e internazionale dell’Istituto, questo sviluppo si deve tradurre in reinterpretazione del carisma di Daniel Comboni a partire dalla varie culture e spiritualità.  È indispensabile che il Superiore sia attento perché questa sana diversità si esprima nell’unità, che è cercata e costituita in Cristo Gesù, intorno all’ispirazione del Comboni e alla finalità dell’Istituto, che deve essere ben chiara nella coscienza e negli ideali di tutti.

Inoltre è necessario che si crei un clima di serenità e di preghiera, in modo da permettere anche un’autentica promozione e correzione fraterne e così le tensioni non sfocino in rotture o perdite di energie nel cammino di comunione fraterna (RdV 38.5; 102.2).

2.6 La Comunità comboniana come comunità locale e localizzata

Ogni missionario appartiene ad una comunità locale (RdV 40). Comunità locale, secondo la Regola di Vita 106, designa una comunità di fratelli, che ha una certa capacità di camminare con le proprie forze e sforzi, dentro la finalità dell’Istituto e garantendo l’unità dello stesso Istituto. Comunità localizzata designa la comunità che abbia una fisionomia segnata dalla realtà in cui è inserita e che ha assunto (RdV 28; 60; 61; ecc.).

2.7. La funzione del Governo Provinciale davanti al dinamismo di una comunità comboniana locale e localizzata

Una comunità locale e localizzata vive dentro il dinamismo della Comunità provinciale (RdV 130) e, attraverso di essa, dell’Istituto stesso.  Se ciò non avviene perde il dinamismo della sua identità comboniana.

La Comunità provinciale è dinamizzata dal Provinciale e suo Consiglio (RdV 12), che ha il compito di favorire una duplice mediazione, cioè tra la Direzione Generale e la base della Provincia, nei due sensi, creando così la comunione tra il centro e la base.

Questo vale ancor più nell’attualità, quando si comincia a sentire la necessità di una maggiore decentralizzazione e perché si vive in un’epoca di cambiamenti rapidi e radicali, anche all’interno dell’Istituto.

Da qui nasce una conseguenza per il Consiglio Provinciale: questo non è un mero Consiglio di amministrazione o un comitato di gestione, ma soprattutto l’animatore spirituale delle persone e delle comunità locali (cfr. PC 20; Ev. Test. 26; MR 13).

Perciò, il Superiore provinciale con il suo Consiglio è l’animatore qualificato (MR 23) e ha una responsabilità particolare nel promuovere la Formazione Permanente nella Provincia (AC ’85, 69-84; IC ’88, 25; AC ’91,38; ecc.

Per tanto, il processo della Formazione Permanente è il risultato di una base convinta e decisa a camminare verso il rinnovamento continuo e la maturazione vocazionale, e dell’impegno di animazione da parte dell’autorità a livello generale, provinciale e locale. Da qui nasce l’importanza della formazione dei Superiori, soprattutto locali, per portare la Comunità a mettere in pratica le iniziative di Formazione Permanente in un Progetto comunitario, che rivede ogni anno e nel quale specifica la sua finalità, la vita interna e il progetto apostolico (AC ’85, 83).

È impossibile che il Superiore locale sia animatore della Formazione Permanente della Comunità, se i membri della comunità non sono i primi ad esigere questo, e se a livello provinciale non c’è un piano specifico di Formazione Permanente in sintonia con la programmazione della Provincia, in comunione con la Direzione Generale e aperto alle iniziative organizzate dalla Chiesa locale, specialmente in campo pastorale (AI 88, 24.1-5; 25.3.7.8).

2. 8 Le persone formano la comunità e la comunità forma le persone

Il Missionario e la Comunità, come soggetti di formazione (AI ’88, 24.2-3), sono i veri artefici della crescita personale e comunitaria attraverso una reciprocità di interdipendenza: i Missionari, che appartengono ad una comunità locale, tutti assieme creano la comunità e sono agenti della Formazione Permanente della stessa e, a sua volta, la comunità come tale crea e forma permanentemente il missionario.

La cornice, per tanto, della Formazione Permanente è la comunità comboniana.

La comunità, infatti, costituisce una vera scuola di vita missionaria, come lo è stato per il gruppo dei Dodici Apostoli (cf VC 25). In questa scuola interagiscono il missionario, la comunità e la missione; entrando nel suo dinamismo, il missionario trova le motivazioni ed i mezzi necessari per mantenersi "in un processo di crescita che dura tutta la vita" (RV 85) nella duplice direzione della identificazione vocazionale e della risposta alla sfida della missione "ad Gentes" nel modo di oggi.

Così, nella vita comunitaria il missionario intraprende e vive uno dei viaggi più costosi ma più necessari, perché gli offre un'opportunità preziosa: l'uscita continua da se stesso, dalle sue abitudini gratificanti, dai modi di vita e dai punti di vista esclusivamente personali. Tale uscita lo porta verso gli altri membri della comunità per conoscerli meglio, per accettarli come fratelli con cui condivide la stessa vocazione-missione in un atteggiamento di reciproco arricchimento. Tale esperienza lo rende nello stesso tempo capace di contribuire in modo particolarmente efficace nell'edificare la Chiesa come "Famiglia di Dio", perché le nostre comunità siano segno che porta la gente alla sequela di Cristo (AC '97, 28-28).

Il luogo di partenza di questo viaggio è il cuore che, attivato dall’esercizio contemplativo, diviene il luogo dove Consacrazione, Comunità e Missione trovano la loro integrazione.

Il cuore, infatti, è il centro della persona, il punto di sintesi dove pensiero e volontà si unificano e stanno all’origine della nostra tensione ideale e della nostra attività pratica. Inoltre costituisce il simbolo e la sede privilegiata della presenza del divino nell’uomo (A. Gentili). Si presenta come il raccordo tra il corpo, l’anima (affettività) e lo spirito (cfr. 1Tes 5, 23: “Tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo”).

In questa visione unitaria dell’essere umano, Pietro vede nel cuore il profondo dell’essere, la sede dell’uomo non ancora neppure a lui rivelato. Si tratta dell’“uomo nascosto in fondo al cuore” (1Pt 3,4). È quello che filosofi e teologi hanno chiamato homo interior, che può essere intercettato nel quotidiano della vita quando la persona intraprende un itinerario di interiorizzazione. Attualmente alcuni lo captano nel “camino de Santiago de Compostela” ed esperienze simili.

In quest’orizzonte si riveste di particolare significato la preghiera per il cuore nuovo, come nella supplica di Davide: “Crea in me, o Dio, un cuore nuovo” (Sl 51,12), frutto della presa di coscienza della necessità della conversione, intesa come riordinamento del cuore. Di fronte a questa necessità, Dio stesso promette a chi avanza nella sua interiorità di sostituirgli il cuore di pietra con un cuore di carne (cf. Ez 36, 26; 11, 19).

Il termine cuore, per tanto, si riferisce alla scaturigine profonda della persona che si trova in immediato perenne contatto con la Vita (2Pt 3, 1-4; + Ef 3, 17: Cristo abita nei vostri cuori per la fede). L’uomo interiore è la persona che nella sua integralità si apre attraverso la totale e amorosa disponibilità all’azione salvifica di Dio operante nella storia fino all’intima partecipazione in essa mediante la Consacrazione missionaria.

Il cuore, per tanto, è il primo luogo naturale di formazione permanente, perché la Consacrazione è un avvenimento dinamico che coinvolge anzitutto il cuore: è un dono gratuito di Dio che l’uomo riceve nel cuore per mezzo della fede e al quale è chiamato a corrispondere “liberamente con il suo impegno personale” (RV 82; 20). La consacrazione come opzione fondamentale per Cristo è unica, ma la sua realizzazione nel concreto della vita, avviene nel tempo, è perciò successiva, in continua evoluzione, secondo la natura limitata ed evolutiva della persona e la ricchezza infinita di Dio che ad essa si dà. Per tanto, il rischio, l’incertezza, la precarietà, la continua crescita, il bisogno di discernimento fanno parte della natura della consacrazione. In nessun momento della sua vita il missionario si può dispensare dall’impegno personale, per scoprire ed attuare il “qui e ora” della sua consacrazione. La consacrazione costituisce un avvenimento sempre vivo e nuovo in una esistenza personale: è un continuo mettere in gioco se stesso, il proprio cuore, causato dal dono ricevuto. C’è consacrazione nella misura in cui c’è questa vitalità sofferta, questo tentativo di risposta cosciente e responsabile a Qualcuno che chiama, nella misura in cui esiste la certezza di trovarsi dinanzi al Vivente, che interpella continuamente (cf RV 47.2).

Il missionario, impegnato nel suo processo di crescita personale, interagisce prima di tutto con i suoi confratelli della comunità.

Così la vita comunitaria diviene il secondo luogo naturale e normale della formazione permanente del missionario comboniano. È qui infatti dove egli apprende quotidianamente la difficile arte del crescere insieme, lasciandosi formare e plasmare dal fratello al quale non lo lega alcun vincolo di carne e sangue e che proprio per questo diventa strumento misterioso dell'azione formatrice del Padre (cf RV 36; 36.1-4).

La vita fraterna in comunità, infatti, è il luogo dove tutto è ritmato in funzione della crescita di tutti, dove si condivide la tensione di santità e pure quella misericordia che è più forte del peccato....; ma è prima ancora il luogo della relazione con l'altro, e dell’ “altro" veramente tale, perché non scelto dal soggetto, o perché spesso, e sempre più oggi, diverso per origine e nazionalità, cultura ed esperienza di vita, gusti e abitudini. Si può dire pertanto che la comunità è una sicura scuola di alterità, a volte anche ruvida, dove si impara l'ascesi del radicale riconoscimento dell' "altro", dell'accettazione incondizionata della sua realtà totale, comprese le sue povertà e quanto lo rende non amabile.

Anche in questo caso la trasformazione non avviene in modo spontaneo e inevitabile. La vita comunitaria, infatti, certamente non forma i tipi dall'atteggiamento passivo e un po' parassitario, i cosiddetti "consumatori" di comunità, ma solo coloro che si lasciano da essa formare e accompagnare, che sono i costruttori di comunità; coloro che accettano di essere responsabili l'uno della crescita dell'altro, che si fanno carico di chi sta loro accanto e al tempo stesso sono aperti e disponibili a ricevere il dono dell'altro, capaci di aiutare ed essere aiutati, di sostituire ed essere sostituiti.

A questa scuola il missionario comboniano impara a lavorare per far nascere e servire le nuove comunità cristiane, che sono basate su questi stessi dinamismi di comunione e partecipazione (RV 62; 70).

Comboni attribuiva chiaramente alla vita comunitaria questa funzione formativa in chiave missionaria, cioè capace di plasmare le persone all’interno della comunità e di prepararle così al ministero apostolico. Infatti concepiva l’Istituto da lui fondato come “un piccolo Cenacolo di Apostoli per l’Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanti sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura da cui emanano” (S 2648). Sottolineava ancora il fatto che “la convivenza e le buone discipline dell’Istituto delle Missioni per la Nigrizia sono utili non solamente a stringere un santo legame di fratellanza i Missionari, ed a creare quella uniformità di metodo e di spirito, che è la forza degli Istituti e tanto serve a conservare e perpetuare il frutto delle buone opere, ma giovano altresì ad accrescere e maturare le virtù, ed a fornire quel corredo di cognizioni, di avvertenze, e di attitudini più speciali, che si richiedono per apparecchio prossimo a così alto ministero” (S 2696).

In questa prospettiva è significativo il Cap. X delle Regole del 1871, dedicato precisamente alle “Norme e discipline ordinate a coltivare lo spirito e le virtù degli alunni dell’Istituto” (S 2698‑2722).

Infine, il processo di continua crescita del missionario, realizzato “insieme “ ai suoi confratelli della comunità, avviene nel contesto del servizio missionario e a favore di questo stesso servizio.

Perciò il servizio missionario, con i suoi successi, fatiche e delusioni, diviene il terzo luogo naturale dove il missionario è chiamato a crescere, dove è edificato dal ministero che esercita e dove ha continue occasioni di sviluppare in sé quella “carità missionaria” che costituisce il segreto di un ministero tutto orientato al servizio della Chiesa nella sua ardua missione evangelizzatrice. Vige nell’esercizio del ministero apostolico il principio della circolarità: mentre si esercita il dono o ministero, e proprio perché lo si esercita, il dono cresce e quindi fa maturare la persona che lo esercita. Questa circolarità tuttavia non è automatica: occorre un minimo di disponibilità interiore a lasciarsi plasmare, occorre che il cuore plasmato dalla consacrazione e arricchito dalla vita in fraternità sia attivo, vigilante, e allora davvero il ministero si fa carico della formazione del missionario, formando in lui lentamente l'uomo di Dio e il suo inviato.

2.9. Il Superiore locale, testimone-animatore della crescita personale e comunitaria

Nel processo di Formazione Permanente della comunità locale il Superiore è chiamato ad essere testimone-animatore in rapporto alla crescita personale di ogni membro della comunità e della vita fraterna in comunità.

In effetti, il “Superiore” nella Vita Consacrata è chiamato così non perché sia migliore degli altri, ma in senso figurato: avendo in cura tutta l' opera della comunità, per vederla tutta, in modo che non gli sfugga nulla e abbia una visione d’insieme, ha bisogno di guardarla costantemente dall'alto, cioè da un luogo, da un piano elevato, «superiore».

Il suo, per tanto, non è un privilegio o una promozione da desiderare (coltivare un tal desiderio è come subire un auto-gol), ma un servizio alla comunità, accettato in umiltà e spirito di sacrificio, da svolgere con la coscienza che sta anch'egli obbedendo alla volontà di Dio, unico Signore suo e dei suoi confratelli.

Egli ha «autorità» nel senso etimologico della parola, che viene dal verbo latino augere, col significato di «rendere migliore», far crescere, moltiplicare i semi di bene sul campo.

Il tesoro essenziale, la cassaforte coi gioielli di famiglia, che il Superiore deve tener sempre d’occhio è il bene spirituale dei confratelli. Essi sono stati messi insieme dal Signore per aiutarsi reciprocamente sia a tenere le proprie anime lontane dal peccato, sia a perfezionarle con le virtù, perché siano sante. La dedizione totale alla causa missionaria è il frutto, la visibilità della carità che vive come linfa pura nei cuori dei missionari: il “correre a grandi passi nelle vie di Dio e della santità” (S 2375), l’essere “santi e capaci” (S 6655), per san D. Comboni sono esigenze inderogabili, perché la vita del missionario si realizzi in pienezza e porti abbondante frutto apostolico.

È, infatti, la carità, cioè l’amore di Dio infuso nel nostro cuore, che ci rende capaci, operosi. Senza la “carità”, che ha la sua radice in Dio-Amore, la “capacità” è solo efficientismo, produzione e organizzazione materiale, protagonismo. La missione richiede altro tipo di “capacità”: capacità di trasmettere non solo a parole, ma testimoniandolo, l’annuncio evangelico e la vita vera, capacità di comunione, di liberazione, di trasformazione delle coscienze, di denuncia per risanare mentalità e strutture di peccato… Santità e capacità hanno come matrice comune la carità di Dio. Quando la carità interna o santità si viene a spegnere, allora il nostro lavoro, la fatica, i successi visibili sono finti, di plastica.

Più l'opera da portare avanti è grande ed i confratelli sono numerosi, più si restringe lo spazio che il superiore vorrebbe ritagliare per sé e per i suoi legittimi desideri. Il suo corpo ed il suo sangue non sono più suoi, ma di chi ricorre al suo servizio. Per dirla con il linguaggio di Guglielmo Rebora, poeta rosminano (1885-1957), egli è «stuoia» sulla quale gli atri passano, aria che si respira senza accorgersi, battito di cuore che – silenzioso – non si arresta mai. Per dirla con linguaggio paolino, il superiore è colui che sa «farsi tutto a tutti».

Proprio per questo motivo, è difficile che egli sia del tutto felice o del tutto triste, o tutto di un pezzo. Ci sono sempre nelle comunità luci e ombre, anime tentennanti mescolate ad anime forti, spiriti malaticci e spiriti sani, eventi tristi ed eventi gioiosi. Nel cuore del superiore i contrasti convivono, ed egli ha un cuore solo: mentre gioisce per un evento positivo, soffre per un altro negativo. Né può essere del tutto forte o del tutto debole: deve adattarsi allo stato di salute del fratello, e dargli il cibo o la medicina che più fanno al caso specifico.

L’importante non è vincere o perdere una partita, ma cercare quotidianamente di adattare i ritmi del proprio cuore individuale ai misteriosi ritmi cosmici del cuore di Dio, riposandosi fiducioso sul petto del Salvatore[1].

A questo punto appare chiaro che è di somma importanza che ogni membro della comunità esamini e valuti con il Superiore il proprio cammino di crescita personale nei sui aspetti positivi e negativi; ognuno deve sentire la necessità di fargli conoscere in modo sufficiente tutto ciò che egli ha bisogno di sapere per favorire in modo adeguato il cammino di crescita di ognuno.

Questo esercizio richiede che il Superiore locale sia un uomo che susciti fiducia e che sia attento alle persone, cioè che abbia la chiara coscienza che ha il dovere di accompagnare la crescita personale di ogni membro della comunità.

Questo compito di attenzione alla persona in ordine alla sua crescita nell’identità vocazione, esige al Superiore che si impegni a:

  • creare nella comunità un ambiente in cui ogni membro possa manifestare e sviluppare le proprie qualità; e in cui tutti vivano in stato di Formazione Permanente nella sequela di Gesù come discepoli-missionari secondo l’esperienza del Fondatore;
  • prestare particolare attenzione ai membri più giovani, con la finalità di aiutarli anche nell’inserzione nella vita della Provincia, della Chiesa locale e nel proprio lavoro specifico;
  • fare attenzione a non proiettare sui membri della comunità i propri problemi personali.

Come animatore della vita fraterna in comunità, il Superiore è colui che cerca di mantenere vivi i valori che si propone la comunità in quanto parte dell’Istituto e cerca il cammino per farli rivivere quando si vanno spegnendo. È uno che si occupa con amore delle persone in quanto formano una comunità, e per questo è capace di fare proposte a livello di motivazioni e significati profondi, e sa essere una provocazione emozionale per gli altri membri della comunità.

Per tanto, il Superiore, nel suo ministero, è uno strumento dello Spirito Santo, per animare e aiutare i fratelli a vivere la loro consacrazione e i loro impegni missionari in fraternità. Sarà strumento valido nella misura in cui si lascia guidare da Lui, nella docilità e capacità di preghiera.

Per realizzare la sua missione di animatore della Comunità, il Superiore ha a sua disposizione i mezzi che gli offre la Regola di Vita, soprattutto il consiglio di comunità, la preghiera liturgica e comunitaria, la promozione e correzione fraterna, il progetto di vita personale e il progetto comunitario, ecc..

Attraverso questi mezzi si riesce a superare le tensioni, approfondire l’amicizia tra i membri della comunità e incrementare la partecipazione e la corresponsabilità nella vita della stessa comunità e l’attività missionaria.

Nella sua attività di animazione della Comunità, il Superiore prende come punto di partenza il fatto che le nostre comunità hanno una triplice dimensione:

  • pastorale-kergimatica: partecipiamo delle gioie, sofferenze, sicurezze e angustie del popolo che siamo chiamati a servire con l’annuncio del Vangelo, come punto di incontro di tutte le dimensioni della missione cristiana ed elemento caratteristico dell’Istituto Comboniano, per essere testimoni e portatori dell’amore di Dio;
  • comunitaria: siamo membri dell’Istituto in quanto viviamo i suoi valori, la sua spiritualità e le sue opzioni concrete; sentirsi parte di un corpo è essenziale per la crescita e la perseveranza nella vocazione personale e comunitaria;
  • religiosa: la ragione della nostra vocazione è la nostra appartenenza esclusiva a Dio; è la certezza di essere amati e salvati da Lui e scelti per partecipare della missione evangelica di Gesù.

I pilastri o forze che permettono di vivere una consacrazione missionaria realizzata a livello comunitario e che il Superiore deve incrementare, sono:

  •  una preghiera che conduca al dialogo, al discernimento e alla direzione spirituale;
  •  un apostolato basato nella fede e aperto alle necessità del mondo e della Chiesa;
  •  una comunità che ci faccia sperimentare la nostra appartenenza all’Istituto.

2.10. L’apporto del Dialogo spirituale nel cammino della crescita in Cristo

L’azione del Superiore locale come testimone-animatore della crescita personale e comunitaria, non supplisce il bisogno del sostegno che si riceve dalla pratica del Dialogo spirituale.

La vocazione, infatti, come dono gratuito di Dio, richiede la risposta cosciente e libera del missionario nelle situazioni concrete della vita. In questa risposta, il Dialogo spirituale rende capace il chiamato a fare attenzione alla comunicazione personale di Dio con lui, a rispondere a questo Dio che si comunica personalmente, ad aumentare la sua intimità con lui, e a vivere le conseguenze di questa relazione. Il Dialogo spirituale, infatti, è il sostegno che un cristiano dà ad un altro cristiano per aiutarlo a notare l’azione di Dio in lui e a rispondere a questa azione che, mentre lo salva, gli fa prendere coscienza che lo elegge come strumento di questa stessa salvezza per il mondo.

In quest’ottica la Regola di Vita ricorda al missionario che viene a trovarsi in un processo di crescita, che fondamentalmente è discernimento vocazionale e ricerca dell’integrazione della consacrazione nelle scelte concrete della vita quotidiana (cf. RV 20).

Il Dialogo Spirituale è uno dei mezzi che fomenta e sostiene questo processo di crescita, per questo la sua pratica è necessaria lungo tutto l’arco della vita del missionario (cf. RV 54.3; 86.3; 97.2;  82-85).

Per tanto, il processo del Dialogo o Direzione Spirituale consiste fondamentalmente in una comunicazione aperta dell’insieme della vita e dell’attività basica della vita interiore che è la preghiera, come è fatta dalla persona e quali effetti produce nella vita quotidiana.

La Guida assiste la persona perché arrivi a oggettivare, ad appropriarsi e a valutare l’esperienza positiva, per animarla; lo stesso fa riguardo all’esperienza negativa, per allontanare la persona da essa. Per mezzo del discernimento spirituale, la Guida ascolta, domanda, aspetta, provoca, anima e chiarifica secondo le necessità della persona. Ciò facilita il lavoro della conoscenza personale e l’orienta verso una più chiara ed intensa risposta di fede a Dio in Cristo Signore secondo le esigenze di una vocazione particolare.

In concreto: nella dinamica del Dialogo Spirituale per un comboniano è fondamentale la volontà di progredire nella vita comboniana; se ci fosse un accomodamento nella mediocrità, sarebbe inutile l’accompagnamento spirituale, il quale suppone una sincera volontà di progresso come corrispondenza al dono della vocazione e come risposta alle crescenti esigenze della missione (cf. RV 20; 16).

È detto “progredire nella vita comboniana” nel senso che include tutte le dimensioni: spirituale, intellettuale, apostolica; e soprattutto nel senso che la caratteristica della vita comboniana è il processo di configurazione con il Signore Gesù del Vangelo secondo il carisma comboniano, che consiste nel prendere la Croce della sequela per e nella la missione, fino alla con-crocifissione definitiva, come ultimo e supremo gesto di donazione missionaria, che diventa la porta per entrare nella “eternità”, meta ultima di ogni creatura umana.

3. Le sfide della Formazione Permanente

Nel processo della Formazione Permanente nei suoi diversi livelli, - il missionario, la comunità locale, i superiori-, si presentano varie grandi sfide che bisogna tenere in conto e che il Capitolo del 2015 sintetizza nel n. 31 degli Atti Capitolari:

«Molti elementi negativi svuotano la nostra vita e ne minacciano l’equilibrio: individualismo, fragile maturità umana, poca cura della vita interiore, superficialità nel vivere i valori della nostra consacrazione, scarso senso di appartenenza e responsabilità, stili di vita inadeguati, perdita di passione per il servizio missionario. La comunità deve essere realmente il luogo ove prenderci cura gli uni degli altri, anche, quando è richiesto, con il coraggio della correzione fraterna».

3.1. L’inerzia spirituale

La prima sfida è l’inerzia spirituale, cioè la diminuzione di fede, che si può infiltrare e si manifesta in vari modi nella vita del discepolo missionario come ci segnala il n. 31 degli AC’’15. Esiste il pericolo di considerare la fede come un dato di fatto; invece è necessario verificare se la fede è veramente la motivazione che dinamizza tutta la vita, le opzioni concrete quotidiane.

Bisogna verificare qual è la scala di valori, l’importanza data al fare e all’essere, il tipo di programmazione che si fa, sia individuale che comunitaria; se una programmazione è il frutto della contemplazione del Mistero del Cuore di Gesù e della lettura dei segni dei tempi (RdV Preambolo; 3-5; 16) o di teorie autoreferenziali, cioè basate su desideri personali, senza curarsi del rapporto con la realtà in cui si vive.

Se manca l’impegno nella crescita spirituale personale e comunitaria, diventa difficile passare dalla testimonianza personale a quella comunitaria, come anche assumere una spiritualità missionaria e uno stile di presenza come comunità o gruppo, secondo le indicazioni della Regola di Vita, dei Capitoli Generali, delle Assemblee Provinciali, in sintonia con il cammino della Chiesa nel mondo di oggi.

D’altra parte, l’impegno individuale di rinnovamento, se non è accompagnato e integrato nel cammino di crescita comunitario, non arriva a produrre frutti soddisfacenti e può portare ad accentuare l’individualismo o approdare alla stagnazione spirituale dei membri della comunità attraverso l’indifferenza, la rassegnazione, la stanchezza, la noia e, in fine, la ricerca di compensazioni dentro e fuori della comunità….

In particolare, i missionari di età più avanzata che sono o sono stati artefici di tante considerevoli realizzazioni missionarie, possono trovare difficoltà ad accettare la legge della progressiva crescita globale (umana-religioso-spirituale-missionaria) lungo le varie tappe della vita e ad aprirsi alle attuali loro condizioni operative e alle esigenze dell’attuale ambiente socio-ecclesiale.

D’altra parte, i confratelli giovani ricevono e vengono con un tipo di formazione, ispirata alle linee di rinnovamento proposte dal Concilio Vaticano II, sviluppate successivamente dal Magistero ecclesiale e assunte con notevole impegno nel cammino formativo dei giovani nel nostro Istituto. Tale tipo di formazione contrasta a volte con la posizione di confratelli della età più avanzata, che spesso è verticista, individualista, improntata al protagonismo, e sostenuta dal “sempre si è fatto così”.

Allora, che succede quando le “due età”, o le varie tendenze, vivono e si confrontano nella stessa comunità? L’accoglienza risulta favorevole ai giovani e in continuità con la loro formazione? Risulta stimolante per l’età adulta l’inquietudine dei giovani? Risulta mutuamente arricchente? È mezzo di discernimento e di consolidazione delle inquietudini e delle intuizioni giovanili? Stimola l’eventuale inerzia della vita adulta? Mette in questione un tipo di attività missionaria imperniata sull’individualismo o sul protagonismo, che ormai sono anacronistici?

La mancanza di risposta a questo confronto sarà fonte di accentuata delusione e rassegnazione nei giovani missionari e una presa di posizione rigida e di autodifesa in un settore dell’età adulta, come se la condotta missionaria passata ed eccellente non possa contenere aspetti di appesantimento nelle attuali circostanze storiche.

La sintesi può nascere da ciò che Papa Francesco va ripentendo alla Chiesa e al mondo di oggi: programmare la vita sociale ed ecclesiale nella convinzione che “gli anziani sono la preziosa memoria della società  e i giovani rappresentano il futuro della Chiesa e dell’umanità” (Pasqua 2018).

Tuttavia, la sfida si acuisce ulteriormente perché sembra che giovani missionari pensano di aver raggiunto la loro maturità spirituale-religiosa e si sentono a loro aggio solo nella attività apostolica, limitando la Formazione Permanente all’aspetto intellettuale e “professionale”.

Il risultato è che, proponendo uno stile nuovo di missione per la liberazione integrale dell’uomo in comunione e partecipazione al margine di un contesto di “conversione” missionaria permanente, cadono nella tentazione dell’impazienza, dell’intolleranza, della ricerca del potere protagonistico, in concorrenza con l’altro gruppo, chiudendosi al dialogo… e finendo vittime della rassegnazione.

Questa situazione, senza drammatizzarla ma neppure ignorarla, costituisce certamente la sfida più impegnativa per un Superiore locale nel compito di animatore della Formazione Permanente nella Comunità.

Infatti, dovrebbe portare la comunità a elaborare un Progetto di Vita comunitario in modo da favorire la crescita del di ogni missionario nella risposta alla chiamata di Dio (RdV 80) nella comunità e per la comunità (RdV 84), tenendo in conto gli obiettivi che propone la stessa Regola di Vita nei numeri 81-83.

Tale progetto è necessario, perché il tempo passa e l’essere umano passa attraverso il tempo e vive continuamente “situato” nel “qui e ora” della storia.

Per questo, la realizzazione umana e cristiana-religiosa è qualitativamente distinta, non solo per ogni persona, ma anche per ogni opportunità, per ogni tempo e età (stagione) della vita.

Dopo l’opportunità della gioventù, nella quale il missionario vive la sua vocazione con entusiasmo e impeto, in progetto o sogno permanente, viene l’opportunità dell’uomo maturo, che supera la tentazione del padre-padrone e del protagonismo individualista, prendendo coscienza del senso del possibile e del fatto che nella vita è questione di pazienza, accettando con pace e realismo la legge missionaria del chicco di frumento che per produrre deve morire (RdV 35.3).

Per tanto, si tratta di riorganizzare la propria risposta vocazionale, assumendo un atteggiamento di vigilanza contro la tentazione del potere (cfr. Mt 20,20-28), dell’efficienza davanti all’efficacia, dell’istallazione, dell’indipendenza, della solitudine, e continuare a seguire il Signore Gesù, mettendo a servizio del Regno di Dio tutto il vigore della virilità paterna, guardando sempre a Lui, il Buon Pastore, che offrì la sua vita per l’umanità sulla croce (RdV 3), che visse sempre mite e umile di cuore (Mt 11,29-30), che venne non per essere servito ma per servire e dare la vita per la moltitudine (Mt 20,28) e che propone ai suoi seguaci di mantenersi nella semplicità e nella disponibilità dei bambini (Mt 18,1-5).

Si tratta di approfondire le radici della vocazione missionaria, così che porti alla gioia di un cuore sempre più “spoglio affatto di tutto se stesso” (S 2702; 2890) che, dietro l’impatto delle prove della vita, impari a cercare il Signore per se stesso e a servirlo lungo i cammini nei quali lo invia, con tutte le sue energie. Il missionario supera così le aspirazioni personali di “trionfo”, entrando nella logica della “pietra nascosta sotterra” (S 2701); allora “ripete con profonda convinzione e con viva esultanza: servi inutiles sumus; quod debuimus facere fecimus” (S 2702) e assume l’atteggiamento del ”testimone” (RdV 58).

È l’epoca della “seconda conversione”, quando il missionario vive la situazione del pellegrino dell’Inferno di Dante che, nella metà della sua vita, si trova, senza uscita, nel cuore delle selva oscura, tentato di rifiutare i voti religiosi come risposta alla chiamata e all’amore del Signore Gesù. È il momento in cui Gesù chiama il missionario a lanciarsi nella misteriosa legge della morte dalla quale nasce la vita (cfr. RdV 35.3).

Il cammino che porta a questa “selva oscura” e che richiede una “seconda conversione”, si può chiamare “irreligiosità dei religiosi”.

Nel contesto della Vita Religiosa, infatti, si può parlare a volte di questo fenomeno.  L’espressione è certamente paradossale, ma la fortuna del paradosso sta precisamente nel fatto che oggi la Vita Religiosa manifesta la sua maggiore fragilità nel punto più essenziale e rappresentativo, cioè nell’opacità dell’esperienza di Dio in Cristo attraverso il vissuto della Consacrazione mediante la professione dei consigli evangelici, nella debolezza della proclamazione del messaggio evangelico con la testimonianza personale e comunitaria dei Consigli evangelici (RdV 58).

Una eco di questo fenomeno ci arriva attraverso la Lettera Apostolica di san Giovanni Paolo II ai Religiosi/e dell’America Latina nel Vo Centenario dell’Evangelizzazione dell’America, del 19 giugno del 1990. Infatti, “nell’orizzonte della Nuova Evangelizzazione, il Papa ha l’esplicita intenzione di orientare la nostra missione evangelizzatrice, prioritariamente a partire dalla consacrazione mediante i consigli evangelici che fa sì che la Vita Religiosa sia in se stessa evangelizzatrice; ci anima a continuare a vivere l’opzione preferenziale per i poveri, non esclusiva né escludente, a promuovere la vera libertà e autentica liberazione dei nostri popoli e a realizzare il nostro lavoro missionario in comunione con i nostri pastori.

Ma assieme ai suoi orientamenti, ci invita anche alla vigilanza e segnala alcuni pericoli che minacciano le nostre opzioni, a partire da ideologie riduttive estranee alla rivelazione e alla Missione della Chiesa o da qualunque parallelismo o dicotomia della nostra azione pastorale in rapporto ai nostri orientamenti pastorali”. (Mensaje del XI Asamblea de la CLAR a los Religiosos y Religiosas de America Latina, México 1991, nn 26-27).

L’eco della Lettera Apostolica di san Giovanni Paolo II ai Religiosi/e dell’America Latina si avverte ancora chiaramente nella parola di Papa Francesco quando parla ai Religiosi.

Le cause dell’insufficienza della Vita Religiosa nello specifico, sono varie. Anzitutto c’è la tendenza a considerare terminata la formazione per l’identità religiosa con la Prima Professione, facendo così del Noviziato una parentesi...

Dopo tale evento, il religioso si dedica all’attività intellettuale o professionale, si impegna nell’apostolato, e finisce per entrare con tutto il suo essere nella realtà umana, nei suoi problemi; pensa, sente, vive come gli altri che non hanno fatto la Professione Religiosa. Così, poco a poco, l’identità religiosa diviene sempre più scolorita e si entra nello sviluppo unilaterale e sproporzionato di alcuni aspetti operativi della Vita Religiosa, soprattutto apostolato e solidarietà con il mondo…

La Consacrazione che si esprime nei Voti è dono gratuito di Dio (RdV 20). Lo sviluppo di tanta grazia richiede forte dinamismo ascetico, fatto di necessità di aiuto, di vita in fraternità. C’è chi afferma che la durata normale per lo sviluppo pieno della vocazione religiosa è di 40-60 anni (P. Federico Ruiz, OCD).

Nell’arco di questo tempo, la vocazione continua a fluire, ad estendersi interiormente ed esteriormente. Ma ha bisogno di un clima e di un ritmo adeguato di approfondimento e di assimilazione personale. Se ciò non avviene, invece di crescere, il religioso entra nella via dell’involuzione, in forma di stagnazione o di regressione. Allora il religioso rimane nel  sottosviluppo o nanismo della sua vita consacrata.

Tutto ciò può essere il riflesso di un concetto di Formazione Permanente inadeguato o riduttivo: anzitutto non si coglie la continuità con la Formazione di base; in secondo luogo è ridotta, normalmente, all’aggiornamento intellettuale e pastorale; l’aspetto di stimolo per una crescita personale integrale e comunitaria nella risposta vocazionale (RV 80-85; AI ’88, 18.1-4; 21.1), è quasi assente, dandolo per scontato, quando non lo è né potrà esserlo per nessuno e in nessuna tappa della vita.

3.2. Difficoltà nel rapporto con la Regola di Vita

La seconda sfida è l’indifferenza, a volte la difficoltà di accogliere e interiorizzare la Regola di Vita, fino a dimenticarla….

Dall’elaborazione e approvazione per sette anni del primo testo della Regola di Vita (febbraio 1980) fino alla sua approvazione definitiva (dicembre 1987), c’è stato interesse e impegno sia nell’elaborazione sia nell’accoglienza e nell’approfondimento del testo.

Tuttavia il Capito del 1991, nell’introduzione alla Prima Pista dedicata alla Spiritualità Comboniana, constata che “per vivere la missione oggi con e come Comboni, vediamo necessario riappropriarci della sua spiritualità” (AC ‘91, 9).

Mettendo poi in evidenza i limiti del cammino percorso (11), segnala il fatto che “l'esperienza carismatica di Daniele Comboni incide ancora frammentariamente nel processo formativo di base e permanente, e nella vita quotidiana, e che la Regola di Vita e gli Scritti del Fondatore non sono sufficientemente utilizzati come fonte di ispirazione per la vita e il lavoro (11.1).

Ribadisce quindi che tra i mezzi fondamentali per la conoscenza e l’approfondimento del carisma c’é la Regola di Vita, gli Scritti, ecc. (15).

Per tanto, raccomanda: “Si continui l’assidua lettura e meditazione della Regola di Vita, quale strumento qualificato per garantire la presenza viva del Fondatore” (17).

Infine, trattando della Formazione di Base e Permeante sottolinea che la Regola di Vita e la Ratio sono i documenti fondamentali dell'Istituto a cui fare costante riferimento per strutturare il cammino vocazionale e formativo (34.1).

Il Capitolo del 1997 si svolge nel contesto della beatificazione del nostro Fondatore. Nella convinzione che la missione continua, ci invita a “Ripartire dalla missione con l’audacia del beato Daniele Comboni”.

In questa prospettiva, trattando del “Servizio dell’autorità in comunione e sussidiarietà”, chiede al Consiglio Generale che tra i punti della sua programmazione ponga quello di animare le province aiutando i confratelli a vivere la Regola di Vita e ad applicare le decisioni dei capitoli generali”: AC ’97, 168.2.

Come mezzi di animazione suggerisce alla Direzione Generale di favorire la preparazione della storia dell'istituto; dell'edizione critica de “Gli Scritti” del Fondatore; il commento della Regola di Vita: AC ’97, 175.

Circa la proposta “a favorire il commento alla Regola di Vita”, c’è da notare che era stata preceduta da una duplice iniziativa del Consiglio Generale. Nella prima, P. Venanzio Milani, nelle Presentazione al libretto “Oggi con Daniele Comboni”, dice che, il 13 marzo 1988, su invito della Direzione Generale, ha scritto ai Padri Maestri e ai Formatori pregandoli di inviargli i commenti da loro stessi usati nel presentare la Regola di Vita ai formandi; e osserva che la risposta, salvo qualche raro caso, è stata molto scarsa.

Nella seconda, sempre su invito della Direzione Generale, lo stesso P. Milani ha scritto a 30 confratelli invitandoli a fare un commento a determinate parti della Regola di Vita entro il 30 marzo del 1990. Diversi confratelli hanno inviato i loro apporti… ma tutto è rimasto incompiuto. (cfr. Oggi con Daniele Comboni. Commento biblico alla Regola di Vita, Presentazione, Roma 1999, p. 5).

Come risposta a queste due iniziative, nel Noviziato di Huánuco (Perú), è nata l’iniziativa di fare un commento biblico alla Regola di Vita con la partecipazione dei novizi. Il libretto “Oggi con Daniele Comboni” è frutto di questa iniziativa.

Una seconda risposta è il libro “Consacrati a Dio per la Missione nello spirito di Comboni”, Roma 2002.

Le pagine di questo libro contengono una serie di catechesi sulla Vita Consacrata Missionaria Comboniana, che ho preparato per compiere il servizio come formatore nel noviziato e che ho cercato di tenere aggiornate anche durante gli anni come incaricato del Corso comboniano di rinnovamento di Roma. Il primo a beneficiarne sono stato io stesso, perché ho avuto modo di scoprire la profonda ricchezza biblica, teologica, ecclesiale e missionaria della Vita Consacrata così come è presentata nella Regola di Vita.

Fin dal primo momento mi son proposto di preparare le catechesi attingendo a tre fonti: la Parola di Dio, il Magistero della Chiesa e la Regola di Vita. Ho cercato di avvicinarmi a queste fonti con l’occhio di san Daniele Comboni e tenendo sempre in vista la Missione. Il frutto, per me, è stato prezioso, perché ho preso coscienza che la Regola di Vita, letta in questo modo, ti introduce nel Mistero della SS. Trinità e nel suo dinamismo missionario (S 2742). Il missionario trova in questo Mistero la fonte e la ragione ultima del suo slancio missionario. Si trova qui il nucleo della Regola di Vita, che viene poi esplicitato in modo sistematico, sottolineando la vita apostolica comboniana come sequela evangelica “ad vitam” nella consacrazione, vita fraterna e servizio missionario “ad Gentes”. Mi ha chiamato l’attenzione il fatto che questo schema che risale a dicembre del 1987, è riconoscibile in linea di massima a quello della Esortazione Apostolica “Vita Consecrata” (25 Marzo 1996).

Il Capitolo 2003, celebrato nel contesto dell’inizio del Terzo Millennio e della canonizzazione di Daniele Comboni, trattando della Formazione Permanente, avverte come prima tra le sfide per l’oggi del nostro Istituto “ripartire dal Vangelo di Cristo e dalla Regola di Vita come fonti di ispirazione delle nostre scelte, dando più enfasi all’essere missionari che al fare missione (52.1).

Tra gli elementi di programmazione della formazione sottolinea che “la comunità rimane il luogo privilegiato della FP (59.1) e cheogni comunità sia aiutata ad elaborare la propria Carta della Comunità, in cui sono definiti gli incontri comunitari, la vita di preghiera, la riflessione sulla Regola di Vita, ecc.” (59.2).

Il Capitolo 2009 si svolge prendendo come punto di partenza il Piano di Comboni per arrivare all’elaborazione di un Piano per i Comboniani: “Dal Piano di Comboni al Piano dei Comboniani”.

In quest’ottica i membri della Direzione Generale nella “Lettera di presentazione” degli Atti Capitolari sottolineano l’urgenza della Formazione Permanente:

«Il Capitolo, pur non avendo detto niente di sorprendentemente nuovo, ci ha aiutato a ricordare che ci sono delle riflessioni e delle decisioni che già nel passato erano apparse come urgenti e adesso sembrano non lasciare spazio per ulteriori esitazioni o dilazioni.

Dobbiamo avere il coraggio di arrivare a delle scelte nel campo della nostra vita spirituale, della nostra identità come comboniani e come uomini consacrati e come persone decise a vivere la missione con tutte le sue esigenze.

Siamo convinti che arriviamo a queste scelte laddove e se la formazione permanente diventa un lavoro fatto responsabilmente da ognuno di noi, senza aspettare che altri prendano l’iniziativa al nostro posto. E’ necessario arrivare ad assumere un atteggiamento di serietà al riguardo di noi stessi e delle strutture in cui viviamo per assicurare una qualità di vita a tutti i livelli».

Le ragioni di queste affermazioni le troviamo espresse negli Atti Capitolari nella sezione dedicata alla “Spiritualità”.

Infatti, facendo l’analisi della situazione di quest’ambito della nostra vita, i Capitolari osservano che « il processo di discernimento della Ratio Missionis, che ci ha visti coinvolti in questi ultimi anni, ci ha fatto constatare che la nostra spiritualità è debole e che gradualmente abbiamo assunto un modo di vivere individualista e borghese, che non favorisce la vita fraterna e toglie credibilità alla nostra testimonianza missionaria. La nostra fede rimane spesso lontana dalla vita e dalla realtà della gente. Talvolta, riduciamo la nostra spiritualità a un ritualismo religioso che non raggiunge il cuore della nostra vita missionaria. D’altra parte, senza una pratica concreta e costante, la fede finisce per spegnersi»: AC ‘09, Spiritualità, B 17.

Poi nel mettere in evidenza gli elementi ispiratori della spiritualità comboniana, ribadiscono che “dobbiamo porre al centro della nostra vita la Parola di Dio, la vita e gli scritti di S. Daniele Comboni, la Regola di Vita, la tradizione dell’Istituto, il magistero della Chiesa e, in modo particolare, la missione, che ci porta a vivere con la gente»:AC ‘09, Spiritualità, C 20.

Quindi negli orientamenti pratici elaborati nel contesto di una comunità fraterna di discepoli e missionari, propongono di Recuperare la Regola di Vita nei seguenti termini:

«È necessario coltivare una maggiore familiarità con la Regola di Vita, come strumento di crescita nelle nostre opzioni, secondo il carisma comboniano ai diversi livelli: Personale: ogni comboniano si impegni in una lettura feconda della Regola di Vita. Comunitario: la comunità faccia una lettura continuata per una riflessione condivisa, secondo i tempi e le modalità specificate nella carta della comunità. Provinciale: ogni Circoscrizione organizzi durante il sessennio un corso di esercizi spirituali o seminari di Formazione Permanete che abbiano come oggetto la Regola di Vita e la sua contestualizzazione nell’oggi.

Nel primo triennio il CG scelga alcuni confratelli a cui affidare il compito di una riflessione qualificata sulla Regola di Vita, tale da aiutare a familiarizzarci con essa come strumento di crescita, in fedeltà al carisma comboniano: AC ‘09, Spiritualità, E 31; 31.1-4.

Di fatto, nel 2013, il Consiglio Generale ha nominato una commissione per riflettere sulla rilevanza della Regola di Vita nella vita dei missionari comboniani. È stato fatto un notevole sforzo, ma il percorso previsto si è insabbiato …

Si arriva così al Capitolo del 2015 e i Capitolari sentono ancora la necessità di invitare i confratelli ad avvicinarsi alla Regola di Vita, per conoscerla e riappropriarsi dei suoi contenuti come “discepoli missionari comboniani chiamati a vivere la gioia del Vangelo nel mondo di oggi”.

Nelle indicazioni operative, trattando delle persone, nell’ambito della spiritualità (48), circa la Regola di Vita, nota che è nata nel particolare contesto storico culturale, ecclesiale e comboniano degli anni ’70, il quale può rendere più difficile, per alcuni confratelli, la comprensione di tutta la sua ricchezza. Per questo propone la lettura, rivisitazione e revisione della Regola di vita, in linea con le indicazioni del Capitolo 2009, n. 31: AC ’15, 49-50.

Alla fine di questo excursus non è difficile notare gli alti e bassi nella accoglienza della Regola di Vita: dall’interesse ed entusiasmo iniziali suscitati dal rinnovamento post-conciliare, si passa alla indifferenza, alla difficoltà di comprenderla e di interiorizzarla…; nel contempo nasce il desiderio di ricuperarla, riappropriarsi, coltivare con essa una maggiore famigliarità, rivisitarla, rivederla…

Tale fenomeno non è esclusivo del nostro Istituto ma frutto di un fenomeno tipico del nostro tempo. Infatti, il grido del mondo in cui viviamo, della cultura che respiriamo ogni giorno, è il grido della libertà, intesa come possibilità di esprimere se stessi senza limiti, senza regole, senza condizionamenti e, alla fine, senza il rispetto di nulla e di nessuno. Ogni cosa altra, ogni altro, in questo schema, è un estraneo, un pericoloso nemico della piena espansione della propria libertà individuale. Non è sempre e per tutti così, ma a questo rischio siamo tutti esposti (cfr. Johnny Dotti-Mario Aldegani, Giuseppe siamo noi, Ed. San Paolo, 2017, p. 56s).

Tale mentalità circola certamente anche tra noi comboniani. A questa mentalità dobbiamo aggiungere l’annosa domanda: - Siamo “Religiosi” o (solo) missionari; le due cose assieme, oppure…?

Si tratta di una domanda che ha già ricevuto la sua risposta nell’attuale Regola di Vita, frutto del rinnovamento post-conciliare, avviato con il Capitolo Speciale del 1969, completato alla luce del Magistero ecclesiale nei Capitoli successivi, fino all’ultimo del 2015. A questo punto, nel 1500 anniversario dalla fondazione dell’Istituto, dovrebbe essere chiaro che il dilemma serpeggiante tra di noi: “missionari e/o religiosi?”, e richiamato nella Ratio Missionis del 2012 (n. 3.1.3), non ha consistenza alcuna e può essere definitivamente archiviato …, per rispondere con docilità creativa e generosità allo Spirito Santo, che “ci chiama a sognare e convertirci” in “veri discepoli-missionari-comboniani del Cuore di Gesù” nella Chiesa per e nel mondo di oggi. Da notare che il Capitolo del 2009 parla ancora di “comunità fraterna di discepoli e missionari; nel 20015 finalmente scompare la congiunzione “e”, così che siamo semplicemente discepoli-missionari-comboniani”….

Per uscire dal stallo nel nostro rapporto con la Regola di Vita, ci è di aiuto ritornare ai numeri 11 e 14 della MR. Qui infatti ci viene ricordato che «"il carisma dei fondatori" si rivela come un'esperienza dello Spirito trasmessa ai propri discepoli per essere da questi vissuta, custodita, approfondita e costantemente sviluppata in sintonia con il corpo di Cristo in perenne crescita».

Perché ciò avvenga,“ i superiori dei religiosi hanno il grave compito, assunto come prioritaria responsabilità, di curare con ogni sollecitudine la fedeltà dei confratelli verso il carisma del fondatore, promovendo il rinnovamento che il concilio prescrive e i tempi richiedono. […]. Consapevoli infine che la Vita Religiosa per sua stessa natura comporta una speciale partecipazione dei confratelli, i superiori ne cureranno l'animazione, giacché "un efficace rinnovamento e un equo aggiornamento non possono aver luogo senza la collaborazione di tutti i membri dell'istituto"» (14c).

Percorrendo le indicazioni sulla Formazione Permanente emanate dai vari Capitoli Generali, non è difficile cogliere l’insistenza sulla necessità di familiarizzarci con l’anima della Regola di Vita sia a livello personale che comunitario. Se l’abbondante flusso che parte dal centro, non fruttifica, vuol dire che si perde per strada per mancanza di manutenzione dei canali conduttori (come l’acqua di parecchi acquedotti italiani) e non giunge in modo adeguato alla base dell’Istituto, oppure che il canale addirittura è tenuto chiuso; oppure se il flusso giunge, non è utilizzato in modo da fruttificare. È questa una delle sfide delle Formazione Permanente, a cui il Superiore locale non può sottrarsi.

3.3. La comunione come superamento dell’individualismo

Nel contesto della società mondiale attuale il problema dell’autorità è cruciale: l’aspirazione alla democrazia, all’autonomia della persona e all’autodeterminazione senza riconoscere alcun limite, creano difficoltà nell’accettare soluzioni che non nascano dal discernimento democratico.

D’altra parte, nelle Comunità religiose, il discernimento comunitario non viene fatto sempre avendo come base motivazioni evangeliche, ma a volte ha come base motivazioni inadeguate (motivi personali, emozioni del momento, sicurezza o realizzazione nel lavoro).

Inoltre la fiducia reciproca che deve esistere tra i membri di una comunità (RdV 38.1) e una certa riservatezza e autonomia delle persone (RdV 42.3), costituiscono uno dei punti da cui possono nascere gravi difficoltà. Se questi diritti, infatti, non sono vissuti dentro il dinamismo proprio di una comunità religiosa (RdV 10), finiscono per creare barriere tra i Superiori e i membri della comunità. È un campo della vita comunitaria che esige vera amicizia, prudenza, amore evangelico e saggezza per intervenire al momento opportuno.

Per tanto, in questo contesto, esiste anche la sfida della comunione, come superamento dell’individualismo nella comunità di discepoli missionari e nelle relazioni con la gente.

Questa comunione deve anche farci sentire membri di tutta la Congregazione. Tutto ciò richiede che si stabiliscano relazioni di mutua stima e fiducia, ma anche che si trovino e si accettino strutture che rendano possibile la partecipazione di tutti nella vita della Comunità (RdV 111), e una informazione reciproca, e ciò a tutti i livelli: di comunità, di Provincia e tra le Province. Per noi è questo anche un modo per vivere la missione come comunità tra le Chiese sorelle.

3.4. Una quarta sfida è la capacità di programmare

È questa un’altra sfida,che deve rispondere alle esigenze dell’apostolato e anche al rispetto delle persone, dei loro ritmi, limiti, possibilità, ecc. Ciò deve integrare anche il dinamismo della profezia, che può provocare positive situazioni di conflitto.

La capacità di programmare trova la sua attuazione più concreta nel “Progetto comunitario”, nel quale ogni comunità locale specifica le sue finalità, descrivendo la sua vita interna e il suo “Piano di lavoro”. Tale Progetto diviene una piattaforma che può dare continuità alla vita della comunità pur mantenendosi aperta alla creatività…

Rivedendo questo Progetto tutti gli anni, la comunità entra in un cammino di revisione della propria vita e attività e si trasforma così progressivamente da comunità di lavoro in comunità di vita, capace di formare e sostenere ogni missionario.

3.5. La nostra presenza nelle chiese locali

L’ultima sfida è la nostra presenza nelle Chiese locali, che ci porta a essere più servitori che protagonisti. Ciò richiede che sappiamo dare un apporto specifico anche nella metodologia missionaria e nel fare l’animazione missionaria della Chiesa locale.

Di fronte alle difficoltà di dialogo con i Vescovi e le altre forze della Chiesa locale sarà necessario saper ascoltare con pazienza e trovare le forme più adeguate di mediazione. Ciò richiede inoltre che stiamo attenti ai mezzi che usiamo per la nostra vita e per il nostro apostolato.

4. Atteggiamenti del Superiore locale davanti a queste sfide

4.1. Essere persona di fede

Il Superiore locale deve essere tale non solo per la competenza giuridica, ma soprattutto per l’autorevolezza che gli viene dalla testimonianza che dà nella “Sequela Christi”, dalla sua costanza nella fedeltà.

Nell’ambito dei Superiori, c’è necessità di persone lucide, che sappiamo essere autocritiche, affinché le motivazioni del loro agire siano autentiche e non svilite a causa di compensazioni o per motivi di efficienza umana.

Sono necessarie persone spirituali, abitate dallo Spirito, persone che sappiamo ruminare la Parola; che siano trasparenti, casse di risonanza della voce dello Spirito. Sono necessarie persone pasquali, uomini della Croce e della Speranza, che vivano la fecondità della Croce e si ispirino nel “Servo di Jahavé”.

4. 2. Attenzione alla realtà

Il Superiore locale deve essere una persona attenta alla realtà, ai segni dei tempi. La realtà, infatti, è sacramento della presenza di Dio, ed è in essa che, come comunità missionaria locale localizzata, dobbiamo discernere le chiamate dello Spirito.

Ciò deve portare il Superiore ad evitare l’ amministrativismo e l’immediatismo.

A un Superiore locale gli sono anche necessari l’informazione e lo studio. Ciò gli permette di vivere con la comunità in una relazione dialettica: azione – riflessione – azione, che è indispensabile per il processo di Formazione Permanente.

Questi primi due atteggiamenti esigono che i Superiori, come tali, abbiano il desiderio costante e profondo di formazione permanente: è la condizione “sine qua non” per l’esercizio dell’autorità.

Si richiede inoltre che siano attenti alla propria crescita personale e diano tempo allo studio. Per questo si devono programmare tempi di Formazione Permanente per i Superiori locali e lo stesso Consiglio Provinciale.

4.3. Attenzione prioritaria alle persone

Compito prioritario del Superiore locale è prestare attenzione alle persone (RdV 107); 107.1): saper accogliere ogni missionario come un dono unico che Dio fa all’Istituto, perché ognuno ha il suo carisma, le sue esperienze, la sua cultura.

Una Comunità locale e la Congregazione stessa camminano bene nella misura in cui le persone sono libere e attive nella comunità per la missione (RdV 80-85). Perciò, c’è bisogno di saper governare animando e animare governando. Nel dialogo è indispensabile sincerità e audacia, senza temere i conflitti. È necessario anche un certo realismo riguardo ai ritmi e possibilità delle persone e l’obbiettività del giudizio.

Inoltre si richiede mantenere il giusto equilibrio tra lo stimolo che si deve dare e il saper non forzare le porte, evitando il paternalismo, che è autoritarismo e ingerenza nell’altro, ma anche l’irenismo ed i vuoti di autorità, la falsa diplomazia per evitare i conflitti e le sue difficoltà.

Bisogna saper orientare gli atteggiamenti più che imporre i comportamenti.

4.4. Attenzione alle critiche

Il Superiore locale deve saper stare attento alle critiche o osservazioni, per far confluire le divergenze e le critiche nel Progetto comunitario, senza veder in esse offese personali o disobbedienza.

È necessario saper favorire il pluralismo e valorizzare il profetismo, quando questo è autentico.

Il profetismo è autentico quando non ha niente a che fare con lo spirito di chi è convinto di saper tutto e presume di dover insegnare tutto agli altri. Il profeta autentico non si auto-gonfia con lo Spirito Santo. Non si gonfia, ma si lascia penetrare, si lascia unire agli altri per mezzo dello Spirito di Dio. L’azione dello Spirito Santo in noi ci spinge sulle tracce di san D. Comboni, per lasciarci sloggiare come lui dalla nostra corazza egocentrica e andare verso gli altri non perché noi sappiamo tutto e meglio e possiamo tutto, ma perché siamo stati raggiunti e abbiano gustato l’amore di Dio in Cristo e lo vogliamo testimoniare e proclamare anche agli altri, facendo dell’evangelizzazione la ragione della nostra vita (cfr. 1Gv1,1-4; S 2742; RdV 20-21; 56).

Andiamo verso gli altri, perché, nell’incontro con Dio in Cristo, lo Spirito Santo ci introduce nella contemplazione del Mistero del Cuore di Gesù, facendoci assumere i suoi atteggiamenti: la sua donazione incondizionata al Padre, l’universalità del suo amore per il mondo e il suo coinvolgimento nel dolore e nella povertà degli uomini; tale contemplazione diviene in noi stimolo alla azione missionaria come impegno a “raggiungere le periferie della sofferenza tra i più poveri e non evangelizzati” e a quella carità fraterna che deve essere un segno distintivo della comunità comboniana (cfr. RdV 3; 3.2-3; AC’15, Introduzione, 1-6).

4.5. Senso di appartenenza

In fine, è necessario che il Superiore locale abbia un forte senso di appartenenza alla Famiglia Provinciale e alla Congregazione, per poter sviluppare un ruolo di mediazione tra la base e il centro, così che la Comunità locale sia aperta alla Provincia e alla Congregazione.

PREGHIERE PER CHIEDERE IL DONO DELL’UNITÀ: RV 36

Per superare le difficoltà che possono presentarsi nel processo della FP a livello individuale e comunitario, abbiamo bisogno di aprirci al dialogo interpersonale. Solo così la comunità diviene «il luogo ove prenderci cura gli uni degli altri». (AC ’15,31).

Per raggiungere la comunione interpersonale, è indispensabile coltivare la propria interiorità attraverso la preghiera personale. Le preghiere che vengono riportate, tratte dal Manuale di Preghiera "Incontro", a cura di Ignacio Larrañaga, sono frutto di esperienze vissute e possono esserci di stimolo. Quel che importa infatti, non sono le formule, bensì l’obiettivo cui mirano: la comunione interpersonale nello spirito, la manifestazione di quello Spirito che opera nell’intimo di ogni persona (cfr. RdV 56-57) e che, di lì, “fa tutto Uno”.

Nella misura in cui eliminiamo gli ostacoli che ci chiudono in noi stessi e lasceremo scaturire lo Spirito, ci troveremo Uno, non grazie alla nostra attività strategica, ma per quella di Colui che ci è stato dato perché tutti siamo fratelli nell’unico Primogenito (cfr. RdV 36-37).

1. LA GRAZIA DI DIALOGARE

Signore Dio, noi ti lodiamo e ti glorifichiamo

per la bellezza di quel dono che si chiama "dialogo".

É un "figlio" prediletto di Dio perché é come quella corrente alterna

che palpita incessantemente nel seno della Santa Trinità.

Il dialogo scioglie i nodi,

dissipa le diffidenze,

apre le porte,

risolve i conflitti,

innalza la persona, é vincolo di unità

e madre della fraternità.

Cristo Gesù, nucleo della comunità evangelica,

facci capire che le nostre incomprensioni

si devono quasi sempre, alla mancanza di dialogo.

Facci capire che il dialogo non é una discussione,

né un dibattito di idee, ma una ricerca della verità fra due o più persone.

Facci capire che reciprocamente ne abbiamo bisogno e ci completiamo

perché possediamo per dare e abbiamo bisogno di ricevere,

perché io posso vedere ciò che gli altri non vedono

e questi possono vedere ciò che io non vedo.

Signore Gesù, quando la tensione fa la sua apparizione,

dammi l'umiltà perché io non voglia imporre la mia verità

attaccando la verità del fratello;

perché io sappia tacere al momento opportuno; perché io sappia attendere

finché l'altro finisca di esporre completamente la sua verità.

Dammi la saggezza per capire che nessun essere umano

è capace di captare interamente la verità completa,

e che no esiste errore o sproposito che non contenga una parte di verità.

Dammi il buon senso per riconoscere che anch'io posso essermi sbagliato

su qualche aspetto della verità,

e per lasciarmi arricchire con la verità dell'altro.

Dammi, infine, la generosità per pensare

che anche l'altro cerca onestamente la verità,

e per guardare senza pregiudizi e con benevolenza le opinioni altrui.

Signore Gesù, dacci la grazia di dialogare. Così sia.

2. LA GRAZIA DI COMUNICARSI

Signore Gesù,

chiamasti "amici" i discepoli

perché apristi loro la tua intimità.

Ma, com'è difficile aprirmi, Signore!

Quanto costa squarciare il velo del proprio mistero!

Quanti ostacoli si pongono sul cammino!

Ma so bene, Signore,

che senza comunicazione non c'è amore

e che il mistero essenziale della fraternità

consiste in questo gioco di aprirsi

e di accogliersi gli uni gli altri.

Fammi capire, Signore, che sono stato creato

non come un essere finito e chiuso,

ma come una tensione,

come un movimento verso gli altri;

che devo partecipare della ricchezza degli altri,

e lasciare che gli altri partecipino della mia ricchezza;

e che chiudersi é morte, ed aprirsi é vita, libertà, maturità.

Signore Gesù Cristo, re della fraternità,

dammi la convinzione e il coraggio di aprirmi;

insegnami l'arte di aprirmi.

Infrangi in me isolamenti e timori,

blocchi e timidezze che ostacolano

la corrente della comunicazione.

Dammi la generosità

per lanciarmi senza paura in questo gioco

arricchente di aprirmi ed accogliere.

Dacci la grazia della comunicazione, Signore Gesù.

3. LA GRAZIA DELL’AMORE FRATERNO

Signore Gesù,

fu il tuo Grande Sogno: che noi fossimo una sola cosa, come il Padre e Tu,

che la nostra unità si consumasse nella vostra unità.

Fu il tuo Grande Comandamento,

Testamento finale e bandiera distintiva per i tuoi seguaci:

che noi ci amassimo come Tu ci avevi amato;

e Tu ci amasti come il Padre Ti aveva amato.

Questa fu la fonte, la misura, il modello.

Con i Dodici formasti una famiglia itinerante.

Fosti con loro sincero e verace, esigente c comprensivo

e, soprattutto, molto paziente.

Come in una famiglia,

li hai messi in guardia di fronte ai pericoli,

li hai stimolati davanti alle difficoltà,

hai festeggiato i loro successi,

hai lavato loro i piedi,

li hai serviti a mensa.

Ci desti, per primo, l'esempio, e poi ci lasciasti il precetto:

amatevi come io vi amai.

Nella nuova famiglia o fraternità che oggi formiamo nel tuo nome,

ti accogliamo come Dono del Padre e ti inseriamo come nostro Fratello, Signore Gesù.

Tu sarai, quindi, la nostra forza unificante e la nostra gioia.

Se Tu non sarai vivo mezze a noi,

questa comunità precipiterà al suolo come una costruzione artificiale.

Tu ti ripeti e rivivi in ogni membro, e per questa ragione noi ci sforzeremo

di rispettarci l’uno con l'altro come faremmo con te;

e quando l'unità e la pace saranno minacciate nel nostro focolare,

la tua presenza ci custodirà.

Ti chiediamo, quindi, il favore che tu rimanga molto vicino in ognuno dei nostri cuori.

Abbatti in noi le alte mura innalzate dall’egoismo, dall’orgoglio e dalla vanità.

Allontana dalle nostre porte le invidie che ostacolano e distruggono l'unità.

Liberaci dalle inibizioni.

Calma gli impulsi aggressivi. Purifica le sorgenti originali.

Che noi arriviamo a sentire come Tu sentivi, ad amare come Tu amavi.

Tu sarai il nostro modello e la nostra guida, o Signore Gesù.

Dacci la grazia dell'amore fraterno:

che una corrente sensibile, calda, e profonda scorra nelle nostre relazioni;

che ci comprendiamo e ci perdoniamo;

ci stimoliamo e ci festeggiamo come figli della stessa madre;

che sul nostro cammino non ci siano ostacoli, reticenze, blocchi;

che soprattutto siamo aperti e leali, sinceri ed affettuosi,

e così cresca la fiducia come un albero frondoso

che copra con la sua ombra tutti i fratelli della casa, Signore Gesù Cristo.

Così avremo un focolare caldo e felice che si alzerà, quale città,

come profetico segnale che il tuo Gran Regno si compie,

e che Tu stesso, Signore Gesù, sei vivo in mezzo a noi. Così sia.

4. LA GRAZIA DI RISPETTARCI

Gesù Cristo, Signore e fratello nostro.

Metti un lucchetto alla porta del nostro cuore

per non pensar male di nessuno,

per non giudicare prima del tempo,

per non essere mal disposti,

per non supporre, né interpretar male,

per non invadere il sacro santuario delle intenzioni.

Signore Gesù, legame unificante della nostra fraternità.

Metti un sigillo alla nostra bocca per chiudere il passo

ad ogni mormorazione o commento sfavorevole,

per custodire gelosamente fino alla tomba le confidenze che riceviamo

o le irregolarità che vediamo,

sapendo che il primo e concreto modo di amare è custodire il silenzio.

Semina nelle nostre viscere fibre di delicatezza.

Dacci uno spirito di profonda cortesia

per riverirei l'uno con l'altro, come avremmo fatto con te.

Dacci, nello stesso tempo, la giusta saggezza

per unire convenientemente questa cortesia con la fiducia fraterna.

Signore Gesù Cristo, dacci la grazia di rispettarci. Così sia.

5. LA GRAZIA DELL’UMILTÀ

Signore Gesù, mite e umile.

Dalla polvere sale a me e mi domina questa sete insaziabile di stima,

questa pressante necessità che tutti mi vogliano.

Il mio cuore é impastato di deliri impossibili.

Ho bisogno di redenzione. Misericordia, Dio mio.

Non riesco a perdonare,

il rancore mi brucia,

le critiche mi feriscono,

gli insuccessi mi distruggono,

le rivalità mi spaventano.

Il mio cuore é superbo. Concedimi la grazia dell'umiltà,

o mio Signore mite e umile di cuore.

Non so da dove mi vengono questi folli desideri di imporre la mia volontà,

di eliminare il rivale, di dar corso alla vendetta. Faccio ciò che non voglio.

Abbi pietà, Signore, e concedimi la grazia dell'umiltà.

Grosse catene legano il mio cuore; questo cuore mette radici,

assoggetta e si appropria di quanto sono e faccio, e quanto mi circonda.

E da queste appropriazioni mi derivano tanto spavento e tanta paura.

Me infelice, proprietario di me stesso! Chi spezzerà le mie catene?

La tua grazia, o mio Signore povero e umile.

Concedimi la grazia dell'umiltà.

La grazia di perdonare di cuore.

La grazia di accettare la critica e la contraddizione

o, almeno, di dubitare di me stesso quando mi riprendono.

Concedimi la grazia di fare tranquillamente l'autocritica.

La grazia di mantenermi sereno nei disprezzi, nelle dimenticanze e indifferenze,

di sentirmi veramente felice nell'anonimato;

di non fomentare autosoddisfazioni nei sentimenti, nelle parole e nei fatti.

Apri, Signore spazi liberi dentro di me

in modo che possa occuparli Tu e i miei fratelli

Infine, o mio Signore Gesù Cristo, concedimi la grazia

di poter acquisire a poco a poco

un cuore disinteressato e puro come il tuo;

un cuore mite, paziente e benigno.

Cristo Gesù, mite e umile di cuore,

fa che il mio cuore somigli al tuo. Così sia.

P. Carmelo Casile
Casavatore, Maggio 2018


[1] Questa descrizione del Superiore, adattandola un poco, l’ho ricavata da: “Il Superiore religioso: pensieri”, considerazioni di Umberto Muratore, Sacerdote rosminiano, direttore del Centro Internazionale di Studi Rosminiani (Stresa).
 

LA FIGURA DI CHI È CHIAMATO A PRESIEDERE
LA COMUNITÀ APOSTOLICA NELLA BIBBIA
a cura di P. Bruno RAMAZZOTTI mccj (+1996)

La nostra conversazione ha come tema: "La figura di chi è chiamato a presiedere la comunità apostolica nella Bibbia"; ma, evidentemente e volutamente questo rapportarsi alla Parola scritta di Dio non ha lo scopo di proporre principalmente o esclusivamente uno studio esegetico, ma è in funzione di una migliore comprensione e di una valida fondazione dei dati della Regola di Vita (RdV) in materia.

Da questa perciò prendiamo l'avvio per la nostra riflessione.

PREMESSA: LA REGOLA DI VITA E IL SERVIZIO DELL’AUTORITÀ

Dove, e come parla la Regola di Vita della figura di chi è chiamato a presiedere la comunità?

Una parola sulla collocazione, sui limiti e valori del discorso della Regola di Vita

sul nostro tema.

a) Collocazione: Uno sviluppo esplicito sulla figura del Superiore è offerto nella RdV, nell'ambito della parte quarta, che porta il titolo: "Servizio dell'autorità nell'Istituto”; e, più precisamente, nella prima sezione di questa parte, che porta come intestazione: “Governo e autorità".

Questo primo sviluppo tenta di delineare i tratti caratteristici ed essenziali del ministero dell'autorità; gli altri capitoli hanno tenore prevalentemente giuridico e ne determinano i compiti a livello di comunità locale, provinciale e di Direzione Generale.

Qua e là, nelle altre parti, sono anticipate e abbozzate e talvolta illustrate le indicazioni raccolte nel settore dedicato a questo argomento.

b) Limiti e valori: Non è discorso ricchissimo sul piano dottrinale; è prevalente - come anche postula la materia - la preoccupazione giuridica. Tuttavia, un attento esame del complesso dei dati consente di cogliere e individuare, in relazione al ministero dell'autorità, elementi di notevole interesse. Tra l'altro, si danno ragguagli sui fondamenti, sui compiti, sulle caratteristiche di questo servizio.

Proponiamo i dati centrali della RdV circa il servizio dell'autorità e tentiamo di illustrarli e approfondirli, prendendo come punto di riferimento e di partenza l'insegnamento della Parola di Dio sull'autorità, integrato con l'insegnamento della Parola della Chiesa.

La nostra riflessione comprende due sezioni maggiori:

PRIMA PARTE: IL SERVIZIO DELL'AUTORITÀ NELLA CHIESA NELLA LUCE DELLA PAROLA DI DIO

SECONDA PARTE: IL SERVIZIO DELL’AUTORITÀ NELL’ISTITUTO COMBONIANO NELLA LUCE DELLA REGOLA DI VITA E NEL CONTESTO DELLA PAROLA DI DIO E DELLA CHIESA.

I DATI CENTRALI DELLA REGOLA DI VITA

102. Servizio dell’autorità

La Chiesa come popolo di Dio riconosce una sola autorità, Cristo. Nell’Istituto l’autorità è un servizio che partecipa di quella di Cristo e vi si ispira. Egli, infatti, venne “non per essere servito, ma per servire”. Questo servizio è reso alla comunità e a ciascun membro per aiutarlo a vivere la sua consacrazione e a sviluppare i suoi doni personali e carismi nel servizio missionario.

102.1. Il ministero dell'autorità unisce la vita e l'attività dell'Istituto alla Chiesa, nella quale Cristo è il vero capo, il maestro ed il Buon Pastore.

102.2. L'autorità è un servizio di guida nella comunità: è servizio di ispirazione, che coadiuva tutti i membri della comunità nel vivere la loro vocazione; di discernimento, che aiuta ciascuno a fare le giuste scelte nel raggiungimento del Regno di Dio; di unità e di coordinamento; d'incoraggiamento e di correzione fraterna, come sostegno per superare i momenti di debolezza, stanchezza e scoraggiamento, attraverso una guida amichevole.

107. Ministero del superiore

Il superiore anima la comunità e i singoli membri alla ricerca della volontà di Dio, alla realizzazione della loro consacrazione missionaria e alla crescita della carità. Egli esercita l’autorità con responsabilità sia nel prendere decisioni, come nel curarne l’esecuzione, sempre in conformità con il fine dell’Istituto; inoltre presta il suo servizio nell’armonizzare i vari aspetti della vita comunitaria e nel prendersi cura del singolo missionario.

PRIMAPARTE

IL SERVIZIO DELL'AUTORITÀ NELLA CHIESA
NELLA LUCE DELLA PAROLA DI DIO

In vista di illuminare questi scarni ma sostanziosi dati della RdV, di penetrarne il significato e - in certo modo - di integrarli, rivolgiamo ora il pensiero e lo sguardo ai ragguagli della Bibbia relativi al ministero dell'autorità nella comunità ecclesiale.

Il procedimento è legittimo, perché - come è detto nella RdV e come documenteremo - c'è stretto legame tra servizio dell'autorità nella Chiesa e servizio dell'autorità nella Congregazione.

Toccheremo - in questa prima parte - i punti seguenti:

I – I fondamenti dell'autorità

II – Il carattere eminentemente pastorale del servizio dell'autorità

III – Le espressioni del servizio pastorale dell'autorità

IV – Le ragioni di essere del servizio pastorale dell'autorità

V – Le caratteristiche del servizio pastorale dell'autorità e il rapporto tra pastori e Popolo di Dio.

I – I FONDAMENTI DELL’AUTORITÀ

Premessa la nozione di autorità, mostriamo che essa in pienezza risiede nel Cristo, come nella sua sorgente, e che, grazie all'azione dello Spirito Santo, è partecipata alla e dalla Chiesa.

 “Autorità" deriva da “augére”, che vale produrre, alimentare e - genericamente parlando - dice attitudine a promuovere e far crescere la comunità con parole e opere cariche di efficacia (cfr. Commentarium pro Religiosis et Missionariis 60, 1979, pagg. 227ss.); in senso cristiano è la capacità e il compito di operare per la crescita della comunità ecclesiale e per portate gli uomini a quella comunione con Dio e i fratelli, che consente di superare i limiti che li condizionano.

  1. Il Cristo Gesù, pienezza e sorgente di ogni autorità, come vero capo, Maestro e Buon Pastore

La RdV detta al n. 103: “La Chiesa come popolo di Dio riconosce una sola autorità”, nel senso che in essa "Cristo è il vero capo, il Maestro e il Buon Pastore" (102.1).

È affermazione basilare che bene riflette il pensiero biblico.

  • Il Cristo è il capo del suo corpo, che è la Chiesa, perché è colui che tutto e tutti supera in perfezione, e massimamente perché è colui che svolge - in rapporto a tutte le membra - una intensa e ininterrotta attività di animazione (Ef 1,22ss.; 4,8-16).
  • Il Cristo è il vero e unico Maestro, per un titolo originario, che nessun altro può rivendicare (Mt. 23,8).
  • Il Cristo è il vero e unico Buon Pastore, come ampiamente sottolineano gli scritti del Nuovo Testamento (Lc 15; Gv 10; 1Pt 2,25).

Note: La Parola di Dio specifica anche la finalità dell'autorità di Cristo e ne indica l'intima essenza.

  • La finalità. Spesso ricorrono le formule: "Per mezzo di Cristo Gesù, noi abbiamo la salvezza, la grazia, la libertà, il dono dello Spirito, la pace e la riconciliazione" (Rom 5,1-2; 2Cor 5, 18ss.).

L'attività del Cristo Gesù, come capo, Maestro e Pastore, è intesa e diretta (1Gv 1,1-3; Gv 10,11) a portare gli uomini e tutti gli uomini alla perfetta comunione di vita con il Padre e tra di loro.

  • L'intima e caratteristica natura. Questa autorità così finalizzata, non si esprime nel dominio o nel prestigio o nel privilegio, ma in generoso servizio al Padre e agli uomini: in un ministero, in una "diaconia", come bene rammenta anche la RdV, citando una solenne ammonizione di Gesù ai discepoli: "Voi sapete che i capi dei popoli comandano come duri padroni; le persone potenti fanno sentire con la forza il peso della loro autorità. Ma tra voi non deve essere cosi... Perché anche il Figlio dell'Uomo è venuto non per farsi servire, ma per servire e per dare la sua vita come riscatto per la liberazione degli uomini (Mt 20,25. 26.28; Mc 10,42-45; Lc 22,20: "Chi tra voi è il più importante diventi come il più piccolo; chi comanda diventi come quello che serve").

2) La partecipazione della Chiesa all'autorità di Cristo per mezzo dello Spirito

Ebbene, questa autorità, che nella sua pienezza e nella sua sorgente, risiede nel Cristo Gesù, e che è essenzialmente un servizio inteso a operare la salvezza globale della umanità, è in vario modo partecipata agli uomini e dagli uomini.

In realtà, nell'ambito della Bibbia, un'attività di questo tipo è insistentemente attribuita a determinati individui.

  • Ciò vale per l'attività pastorale, che viene attribuita a Pietro e ai presbiteri (Gv 21, 15ss.)
  • Ciò vale per l'attività magisteriale, in cui appaiono impegnati gli apostoli, che sono incaricati di farsi maestri di tutti gli uomini (Mt 28,11ss.)
  • Ciò vale per l'attività direzionale: sono in scena individui che hanno il compito di governare, di dirigere, di presiedere (lTess 5,12ss.; Eb 13,7).

 

Tutto ciò avviene grazie all'azione dello Spirito Santo, autore della varietà e della molteplicità dei carismi, che hanno rilievo di ministeri (lCor 12,4-11; Ef 4,8-16). Potremo parlare di un fondamento o aspetto pneumatologico dell'autorità.

E questa azione dello Spirito Santo, come distribuzione della varietà dei carismi, tra cui hanno speciale rilievo quelli ministeriali, si attua a vantaggio della Chiesa: questi carismi di ministero, vari e molteplici, sono realtà costitutive della comunità ecclesiale e ne esprimono la missione; insomma, tutto ciò avviene nell1ambito della Chiesa, come corpo e pienezza di Cristo, che, grazie allo Spirito Santo, diventa nel mondo il prolungamento visibile del Cristo risorto (Ef 1,22ss).

Nota Dovremo parlare anche di un fondamento o aspetto ecclesiologico dell'autorità. Conclusione: L'autorità nella Chiesa come sacramento dell'autorità di Cristo. L'autorità nella Chiesa appare segno e strumento dell'unica autorità di Cristo Gesù: ne è in certo modo il sacramento.

Ciò vale, ad un tempo, a nobilitarla e a relativizzarla. Essa ha valore e potere vincolante in quanto riflette e interpreta la volontà di Cristo, prima di tutto codificata nella Parola scritta di Dio (Cfr. sviluppi di Paolo in Rom 13,1-7 sull'origine della autorità; cfr. anche Scuola Cattolica 106, 1978, pp. 317-324).

II – Il carattere eminentemente pastorale del servizio dell'autorità

Abbiamo visto e acquisito, sulla base della Parola di Dio, che l'autorità è un servizio, che ha un aspetto cristologico, pneumatologico ed ecclesiologico; che, insomma, sussiste, come nella sua fonte, nel Cristo, e trapassa per lo Spirito, nella comunità ecclesiale, e prende massimamente forma e consistenza nella attività degli Apostoli e loro collaboratori e continuatori (cfr. l'appellativo di "compresbiteri" dato da Pietro ai responsabili della guida delle comunità cristiane: lPt 1,1; cfr. pure Ef 3,1-13).

Ebbene, sempre nella prospettiva biblica, l'autorità così configurata e strutturata, è sostanzialmente un servizio di tipo pastorale: un'attività che si esprime nell'aiuto e nel sostegno offerto a vario livello ai discepoli di Cristo, per realizzare la loro vocazione cristiana, come chiamata alla comunione di vita con Dio, tra loro e con tutti gli uomini.

1) Testimonianze

  • Secondo Giovanni, Pietro è abilitato e impegnato a pascere le pecorelle e gli agnelli (Gv 21,15-17).
  • Secondo Pietro, i capi della comunità cristiana che qualifica come compresbiteri, ossia come partecipi del suo ufficio apostolico, sono tenuti a pascere il gregge di Dio loro affidato (lPt 5,1-3; Atti 20,28).
  • Secondo Paolo, gli apostoli devono esplicare il ministero della riconciliazione, a nome del Cristo, per ristabilire tutti gli uomini nella comunione con Dio e con i fratelli (2Cor 5,18-20).

2) Il senso del carattere "pastorale" del servizio

Ma che cosa suggerisce la qualifica di "pastorale" data al servizio dell'autorità? Quali sono le attività costitutive di questo servizio come "pastorale"?

Luce è offerta dal valore scritturistico di "pascere" e "pastore", dall'insegnamento ecclesiale e dalla riflessione teologica.

Il significato di “pascere" e "pastore" nella Bibbia.

"Pascere, nel suo significato primitivo, è pascolare, custodire il gregge (lCor 9,7) e, per estensione, nutrire (Giuda 12); metaforicamente, governare i sudditi, provvedere al loro benessere: è l'accezione più usuale, non ignota ai classici, chiara nel nostro testo (Mt 2,6; Gv 21,16). Pastore e gregge hanno significati analoghi a quelli del verbo pascere: il primo designa colui che custodisce le pecore (Lc 2,8) e, figuratamente, il governatore, la guida, il maestro (lP 2,25; Gv l0,11s.); il secondo indica un gregge in senso proprio (Lc 2,8) o l'insieme di coloro che sono governati: i sudditi e i discepoli (Gv 10,16; Mt 26,31).

(cfr. AA.VV., Introduzione alla Bibbia, V, 2, Torino 1964, pago 333).

L'insegnamento ecclesiale.

Recentemente,. la funzione pastorale è stata egregiamente illustrata da Giovanni Paolo II, nella "Lettera ai Sacerdoti", specialmente ai nn. 5-6.

Il Papa qualifica il ministero pastorale come "particolare sollecitudine per la salvezza degli altri, per la verità, per l'amore e la santità di tutto il popolo di Dio, per l'unità spirituale della Chiesa, che si esplica in varie maniere; perché varia è la struttura della vita umana, dei processi sociali, delle tradizioni storiche e del patrimonio dèlle diverse culture e civiltà"; e, conclude che in ciò consiste quella "arte delle arti", che è la "guida delle anime" (cfr. n. 6 e S. Gregorio, P.L.,77,14).

La riflessione teologica.

Il ministero pastorale, secondo il benedettino P. M. Magrassi, implica in ordine ai diversi ministeri e carismi ecclesiali un triplice compito:

  1. di stimolo: non si tratta di farli nascere, perche i carismi vengono solo da Dio, ma di farli emergere nella luce della coscienza, di "rivelarli". È, in fondo, questo l'obbiettivo primario della pastorale vocazionale;
  2. di discernimento (la “diakrisis" degli orientali): è un giudizio che distingue l'autentico dall'inautentico, i carismi dai "pallini", i doni veri da quelli presunti. Non è in grado di farlo se non è un uomo che sa ascoltare con molta pazienza e ascolto affettuoso dei fratelli, per leggere nel loro cuore e nella loro storia personale, e ascolto della Parola per "sentire ciò che lo Spirito dice alle Chiese" (Apoc 2,17) e mettersi in sintonia con il suo progetto. Questo non si fa se non in un clima di preghiera;
  3.  di armonizzazione: deve cioè procurare che l'apporto originale di ciascuno converga verso l'obbiettivo unico: costruire il Corpo di Cristo. Perché non capiti come a quelle due formiche che intorno a un granello tirano una da una parte e una dall'altra, con tutto l’impegno, ma intanto il granello rimane lì.

Il "pastore" è l’uomo della sintesi e il ministro della convergenza. E si guarderà bene dal far convergere le cose a sé anziché a Dio, o di sovrapporre i suoi progetti a quelli del Signore. La sintesi si fa nello Spirito Santo.

(Cfr. M. Magrassi, Una identità da riscoprire e da vivere, in AA. VV., I ministeri nella vita della Chiesa, ed. Ecumenica, Bari, 1977, pago 139).

Conclusione: Il ministero pastorale dell'autorità in una comunità tutta ministeriale.

In definitiva, con felice formula già corrente, noi dobbiamo parlare del servizio pastorale non come della sintesi dei carismi e dei ministeri, come di una attività e responsabilità o competenza onnicomprensiva, tutto assorbente e monopolizzante, ma come del carisma o ministero della sintesi, dell'insieme: della animazione e della stimolazione, della unificazione e coordinazione o armonizzazione, del discernimento e della verifica, esplicato a: vantaggio di una comunità che è tutta "ministeriale e che è tutta "carismatica", massimamente per effetto dell’esperienza sacramentale, in cui agisce in via ordinaria lo Spirito Santo; a vantaggio di una Chiesa che è tutta "comunionale, in quanto consiste di varietà di comunità, in ciascuna delle quali si realizza la comunione ecclesiale come segno visibile della comunione invisibile di tutti e di ciascuno con Dio e della comune salvezza (Cfr. Magrassi, o. c., pag. 130-135; 1Cor 12; Rom 12; Documento "Evangelizzazione e ministeri").

III Le espressioni del servizio pastorale dell'autorità

Possiamo ora chiederci quali forme, quali modalità, quali espressioni assuma e quali attività debba esplicare, per raggiungere i suoi obiettivi e le sue finalità, questo servizio pastorale, in cui - secondo la Bibbia - si risolve il ministero dell'autorità.

Questo ministero pastorale, che è servizio di animazione, di discernimento e di armonizzazione si svolge:

  • attraverso un impegno di insegnamento o servizio della Parola (At 2,42; Rom 15,16ss.; 2Tim 4, 1-8)
  • attraverso un impegno di santificazione o servizio della liturgia e della preghiera (At 6,4; 20,7-12)
  • attraverso un impegno di testimonianza di vita, che si concretizza in un servizio della carità, inteso e atto a mostrare la validità e solidità dell'attività profetica e cultuale.

Per ampio sviluppo su questi temi, vedi ad esempio: "Il ruolo del missionario nell'ascolto e nell'annuncio della Parola di Dio", in Bollettino della Congregazione, n. 104, 1974, pago 32-47, in particolare pagg. 34-37.

Ecco una rapida documentazione circa le modalità del servizio pastorale:

  • secondo At 2,42 gli apostoli sono impegnati in un insegnamento che è oggetto di intensa e assidua attenzione da parte dei fedeli;
  • sempre nell'ambito degli Atti, si documenta che gli apostoli hanno un compito specifico: il ministero della Parola e l'attività cultuale e di preghiera, di cui fa parte la celebrazione liturgico-sacramentale. alla quale partecipano con compito di presidenza (Cfr. At 6,4; 8,15-17; 19,1-6; 20,7-12; Gc 5,14ss.);
  • ancora, in base ai ragguagli degli Atti, sono gli apostoli che in un primo momento dirigono il servizio di assistenza alla comunità: ad essi, infatti, i fedeli trasmettono i loro beni, perché sia provveduto alle necessità di tutti e non ci sia nella comunità nessun indigente (At 4,34ss.; cfr. anche Deut 15,4).

È servizio della carità, di cui diventeranno poi partecipi sia i diaconi (Atti 6), sia i presbiteri o anziani (Atti 11), ma che comunque resterà sempre parte integrante del ministero pastorale degli apostoli, che lo eserciteranno in forma ordinaria e per tutti esemplare, organizzando – per esempio come Paolo – “collette per i cristiani bisognosi di aiuto (Gal 2,10; 2Cor 8,9); o, in forma straordinaria, mediante l'attività taumaturgica (Atti 5,12-16).

Conclusione: In sostanza, per usare una terminologia di oggi, si tratta di un impegno pastorale da esplicare con un impegno di evangelizzazione c di umana promozione, in vista di una salvezza globale.

Su questo tema, vedi "Comunità e missione, ed. EMI, Bologna, 1978, pag. 52-73.

IV – Le ragioni di essere del servizio pastorale dell'autorità

Ma quali sono le ragioni di essere, le motivazioni e giustificazioni di fondo di questo servizio pastorale nella comunità ecclesiale? Quale rapporto dice al Cristo Gesù e al popolo di Dio questo ministero di pastore?

Abbiamo sopra rimarcato che tutta la comunità ecclesiale ha carattere ministeriale; abbiamo ribadito che c'è un unico vero capo, un unico vero maestro, un unico vero pastore. Sappiamo d'altronde che tutti i credenti partecipano al sacerdozio di Cristo e alla sua attività profetica, sacerdotale e regale.

In un contesto come questo, in un contesto così singolare, ha veramente un senso il ministero dell’autorità come ministero pastorale?

È problema di grande interesse; è problema che, se non è risolto, può generare un'infinità di tensioni e di crisi e asprezza di contestazione.

Tutto sommato, pare di poter dire - condensando ed evidenziando la globalità dei dati biblici - che questo ministero non si sostituisce al Cristo, ma è necessario proprio come servizio al Cristo, sommo e unico sacerdote, e al popolo di Dio, tutto sacerdotale.

È richiesto dalla condizione attuale del Cristo e dalla condizione attuale del cristiano.

Nota: Vedi in proposito, Bollettino della Congregazione, n. 105, pago 37; B. R., Sacerdozio, in Schede Bibliche Pastorali, EDB, n. 308, pag. 8-14.

  1. Il servizio pastorale richiesto dalla condizione attuale del Cristo, che incessantemente, ma invisibilmente svolge la sua attività pastorale (1Pt 2,2s; 5,4; Ef 4,8-16)

Una ragione d'essere del ministero pastorale è la condizione attuale del Cristo Gesù, unico ed eterno Pastore, ora glorificato presso il Padre: il ministero pastorale nella comunità ecclesiale è segno e a servizio della incessante, ma invisibile azione pastorale del Signore risorto, che, in una economia tutta sacramentale, esige di essere sensibilmente significata e resa manifesta.

Così, Gesù conferisce a Pietro l'incarico di pascere le sue pecorelle e i suoi agnelli, dopo la Risurrezione (Gv 21,15-17); e i presbiteri della Chiesa, secondo Pietro - che li qualifica “compresbiteri a significare che partecipano dell'ufficio apostolico e delle sue responsabilità - devono svolgere la loro attività pastorale nel tempo che precede la comparsa e la venuta gloriosa del Supremo Pastore (lPt 5,1-4).

  1. Il servizio pastorale richiesto dalla condizione attuale del cristiano realmente, ma velatamente e incompiutamente salvato

 

"La presenza nella comunità di individui incaricati di un ministero di governo, ha una sua spiegazione nell'attuale situazione del cristiano che è stato salvato (Tt 3,5ss), ma è ancora in attesa di salvezza totale e definitiva (Rm 8,24ss.); che possiede lo Spirito" ma solo come primizia e caparra (Rm 8,23; Ef 1,14); e non è ancora compiutamente liberato dalla carne, contro cui deve combattere (Gal 5,16ss.); e può fare della libertà che ha nel Cristo (Gal 2,4; 5,l) pretesto per la licenza (Gal 5,13; 1Pt.2,16); e corre il rischio di scambiare lo spirito di errore con lo spirito di verità(lGv 4,1-6). Vedi in questo senso i rilievi di Benoit, in "Revue Biblique ", 60, 1962, 444. Cfr. anche Sacerdozio, in Scheda Biblica Pastorale, 308, cit., pag.10, nota 4 bis.

Il ministero pastorale è segno e a servizio di una salvezza reale, ma velata e incompiuta: attraverso l’attività sopra delineata (servizio della parola, servizio della liturgia e delle preghiere, servizio della carità) deve rendere l'uomo consapevole di una salvezza che realmente, ma nascostamente è in lui presente; e deve aiutarlo a sviluppare e dilatare una salvezza, che veramente, ma solo inizialmente possiede.

Siamo in presenza di un ministero dell'autorità di tipo pastorale, che si esplica in due direzioni e si esprime in un duplice Servizio:

  • servizio nei confronti di Gesù, unico Pastore;
  • servizio nei confronti del popolo di Dio, riunito e nutrito da Gesù, supremo Pastore.

VLe caratteristiche del servizio pastorale dell'autorità e il rapporto tra pastori e Popolo di Dio

1) Le caratteristiche che deve assumere il ministero pastorale sono nettamente definite nel discorse di Mileto (Atti 20, 18-35), esaltato come il “testamento pastorale di Paolo". L’apostolo rammenta il suo zelo per tutti edificare, tutti esortare e tutti consolare (lCor 14,3); la sua disposizione a dare la vita per essere compiutamente fedele alla sua missione sottolinea la necessità - per i pastori - di una costante tensione spirituale, come condizione di efficace evangelizzazione; ricorda l'esigenza di associare alla predicazione la testimonianza di vita, espressa in un premuroso servizio fraterno (lTess 2).

2) I rapporti tra pastori e popolo di Dio sono validamente delineati da Pietro nella esortazione che conclude la sua prima lettera (lPt 5,1-5):

  • volonterosa, disinteressata e rispettosa sollecitudine dei pastori per il popolo di Dio (lPt 5,1-3);
  • gioiosa docilità del popolo di Dio verso i pastori (lPt 5,5; Eb 13,17) nel comune impegno di un esercizio dell'umiltà che attira la grazia di Dio.

SECONDA PARTE

IL SERVIZIO DELL'AUTORITÀ NELL'ISTITUTO COMBONIANO
NELLA LUCE DELLA “REGOLA DI VITA”
E NEL CONTESTO DELLA PAROLA DI DIO E DELLA CHIESA

Abbiamo tentato di cogliere i tratti caratteristici del servizio dell'autorità nella Chiesa nella luce della Bibbia: sullo sfondo e nel contesto del ministero dell'autorità come si realizza nel Cristo e nella Chiesa, che è il suo corpo, appare ora possibile valorizzando i dati della RdV realizzare una visione sufficientemente valida del ministero dell'autorità nella Congregazione.

Io - La partecipazione all'autorità di Cristo a livello di Congregazione religiosa e missionaria attraverso la mediazione della Chiesa e dello Spirito Santo

La RdV dopo la solenne dichiarazione iniziale, aggiunge - quasi tirando le conseguenze che "nell’Istituto l'autorità è un servizio che partecipa di quella di Cristo" (n. 102) È conclusione pienamente valida che possiamo evidenziare precisando che si tratta di partecipazione legata alla mediazione della Chiesa e dello Spirito.

1) La mediazione della Chiesa

Partendo dalla RdV abbiamo rammentato che la Chiesa come popolo di Dio riconosce una sola autorità, CRISTO; e abbiamo precisato e documentato che questa autorità, che si esprime in un servizio al Padre e agli uomini, è partecipata alla e dalla Chiesa, come corpo di Cristo, grazie all'azione dello Spirito Santo, distributore della totalità dei carismi e dei servizi.

Ebbene, come si annota nel Preambolo, l’Istituto Missionario “è una espressione specifica della missionarietà della Chiesa (p. 3); è dunque pienamente fondato affermare, come si fa nella RdV, che una partecipazione all'autorità di Cristo si verifica anche a livelle della nostra Congregazione religiosa-missionaria; appare pienamente giustificata e documentata la dichiarazione che nella Congregazione l'autorità è un servizio che partecipa di quello di Cristo (n. 102).

Questo legame dell'autorità con la Chiesa, questo carattere ecclesiale del servizio dell’autorità nella Congregazione è rimarcato con decisione quando si annota che “il ministero dell'autorità unisce la vita e l'attività dell'Istituto alla Chiesa, nella quale il Cristo è il vero capo, il maestro, il Buon Pastore (n. 102.1; 133.1).

2) La mediazione dello Spirito

Ma questo legame non è puramente giuridico, è di tipo carismatico, come è tutta la realtà ecclesiale.

Con felice intuizione e penetrazione della Parola di Dio e attenzione al senso ecclesiale si rimarca al n. 35.1 che “il ministero dell'autorità è dato dall'unico e medesimo Spirito per il bene di tutti, e accettato con obbedienza attiva come mezzo di fedeltà al fine dell'Istituto e alla sua ispirazione originaria.

Ho avuto la soddisfazione di ritrovare queste annotazioni - quasi alla lettera - nel documento “Mutuae Relationes, che avremo modo di citare più avanti.

“I superiori svolgono il loro compito di servizio e di guida all'interno dell'istituto religioso in conformità dell'indole propria di esso. La loro autorità procede dallo Spirito del Signore in connessione con la sacra gerarchia, che ha canonicamente eretto l'istituto ed autenticamente approvato la sua specifica missione (Cfr. MR, n. 13).

Note: Ecco alcune annotazioni che vogliono esplicitare e meglio evidenziare le implicazioni dei testi richiamati.

a)- I superiori come strumenti umani della manifestazione della volontà di Dio

Nella luce di questi dati sul ministero dell'autorità, come partecipazione al ministero di Cristo tramite lo Spirito Santo e la Chiesa, si coglie anche il senso della precisazione della RdV al n. 35.2, dove si rivela che “i Superiori sono strumenti umani di cui Dio si serve per indicare la sua volontà, che naturalmente - essendo sommamente libero e Signore supremo - fa conoscere anche per altre vie (cfr. nn. 33,4; 35.1; 16), sempre però bisognose di verifica e di discernimento (cfr. 33.3)

Siamo di fronte ad un servizio a un duplice livello:

  • a un servizio che dice riferimento al Cristo Gesù, della cui azione salutare son chiamati ad essere segno e veicolo;
  • a un servizio che dice riferimento ai fratelli, che devono essere aiutati a cogliere la volontà di Dio a loro riguardo.

b)- La necessità del servizio dell'autorità

È logico e utile aggiungere che questo servizio è necessario e che le ragioni di essere del ministero dell'autorità nell'ambito dell'Istituto, sono - in certo mode e fatte le debite proporzioni - quelle già segnalate per spiegare la presenza del ministero dell'autorità pastorale nella comunità ecclesiali.

Là abbiamo fatto parola di un servizio pastorale richiesto dalla condizione attuale del Cristo e del cristiano; qui, in relazione al nostro argomento, possiamo esplicitare dette ragioni nei termini seguenti:

  • il Cristo Gesù, che è il vero e unico Maestro, e che svolge incessantemente, ma invisibilmente la sua attività di guida, ha bisogno di segni e strumenti della sua attività salutare, come per il realizzarsi e maturarsi della specifica vocazione religiosa e missionaria;
  • il carisma della vocazione è realtà spirituale, che si può perdere di vista nella sua ricchezza e nelle sue implicazioni in ordine all'agire; di qui la necessità di un servizio inteso a tener viva la consapevolezza del dono ricevuto e degli impegni che ne derivano.

c)- Dignità e limiti del servizio dell'autorità

Questo legame che unisce il servizio dell'autorità con il Cristo, lo Spirito e la Chiesa, mentre ne assicura la dignità, ne definisce anche i limiti.

È solo la sintonia con la superiore autorità che gli conferisce validità. In ordine a questa valutazione, un punto di riferimento e un criterio di discernimento sono le Regole approvate dalla Chiesa, a cui l’autorità nell'Istituto è sottomessa, e di cui deve sempre farsi fedele interprete, come si dirà per il Magistero ecclesiale in relazione alla Parola scritta di Dio (Dei Verbum, n. 10).

Il0- Il servizio dell'autorità e la sua analogia con il servizio pastorale del Cristo e della Chiesa

Tirando le conclusioni dalla Parola di Dio già esaminata, e rivolgendo l'attenzione alla Parola della Chiesa, che di quella si fa eco, è agevole cogliere il risvolto pastorale del ministero dell'autorità nella Congregazione.

1)- Il carattere pastorale del servizio dell'autorità come conseguenza della sua dipendenza dal e del suo legame con il ministero di Cristo e della Chiesa

Dopo aver documentato che il servizio dell'autorità nella Congregazione è una partecipazione - grazie alla mediazione dello Spirito Santo e della Chiesa - al servizio dell'autorità, che in forma originaria e piena è presente nel Cristo Gesù, è facile intuire che siamo di fronte - nel caso di un Istituto, come il nostro - a un ministero dell'autorità di tipo pastorale.

Ciò che è derivato, partecipa alle caratteristiche di ciò che ne determina l'essere e l'operare.

2)- Le esplicite dichiarazioni magisteriali circa la analogia tra il "servizio dell'autorità" nelle Congregazioni riconosciute dalla Chiesa e il "ministero pastorale"

Ora è interessante constatare che un recente documento magisteriale colloca il ministero nelle diverse Congregazioni proprio in questa prospettiva e linea.

Il Documento "Mutuae Relationes (= Criteri direttivi sui rapporti tra vescovi e religiosi nella Chiesa, Roma, 1978) in un passo tra i più significativi e qualificanti, offre queste preziose indicazioni:

il testo e il senso della dichiarazione magisteriale (n. 13).

a) Il testo

“Considerato il fatto che la condizione profetica, sacerdotale e regale è comune a tutto il popolo di Dio (LG, 9; 10; 34; 35; 36), pare utile delineare la competenza della autorità religiosa, accostandola, per analogia, alla triplice funzione del ministero pastorale, cioè d'insegnare, santificare e governare, senza per altro confondere o equiparare l'una e l'altra autorità.

  • Quanto all’ufficio di insegnare, i superiori religiosi hanno la competenza e l'autorità di maestri di spirito in relazione al progetto evangelico del proprio istituto. In tale ambito, quindi, devono esplicare una vera direzione spirituale dell’intera congregazione e delle singole comunità della medesima, e l'attueranno in sincera concordia con l'autentico magistero della Chiesa, sapendo di dover eseguire un mandate di grave responsabilità nell'area del piano evangelico, voluto dal fondatore.
  • Quanto all'ufficio di santificare, è pure spettanza dei superiori una speciale competenza e responsabilità di perfezionare, sia pure con differenziati compiti, in ciò che riguarda l'incremento della vita di carità secondo il progetto dell'istituto, sia circa la formazione, tanto iniziale che continua, dei confratelli, sia circa la fedeltà comunitaria e personale nella pratica dei consigli evangelici secondo la regola. Tale compito, se rettamente adempiuto, verrà considerato dal romano pontefice e dai vescovi qual prezioso sussidio nell'espletamento del loro fondamentale ministero di santificazione.
  • Quanto all'ufficio di governare, i superiori devono compiere il servizio di ordinare la vita propria della comunità, di organizzare i membri dell'istituto, di curare e sviluppare la peculiare sua missione e provvedere che venga efficientemente inserita nell’attività ecclesiale sotto la guida dei vescovi.

Esiste dunque un ordine interno degli istituti (cfr. CD, 35,3), che ha un suo proprio campo di competenza, a cui spetta una genuina autonomia, anche se questa non può mai nella Chiesa, ridursi ad indipendenza (cfr. CD, 35,3 e 4). Il giusto grado di tale autonomia e la sua concreta determinazione di competenza sono contenuti nel diritto comune e nelle regole, o costituzioni, di ogni istituto" (MR  n. 13).

b). Il significato del testo

Confermando e comprovando quanto già si poteva dedurre dal legame dell'autorità nella Congregazione con l'autorità che vige nella Chiesa, si rileva che si può “delineare la competenza dell'autorità religiosa, accostandola, per analogia, alla triplice funzione del ministero pastorale, cioè di insegnare, santificare e governare, senza peraltro confondere o equiparare l'una e l'altra autorità.

L'annotazione di fondo è che l'autorità nei diversi Istituti ha un'analogia con il ministero pastorale; si vuol dire che possiede - sia pure in grado incompiuto e imperfetto - le caratteristiche del servizio pastorale, legato al carisma sacerdotale. Ha, cito, qualità e competenze, se non identiche, somiglianti a quelle del servizio pastorale, che è proprio dei vescovi e dei presbiteri, per ragione del sacramento della ordinazione.

Ebbene, mantenendo come punto di riferimento i dati biblici sopra illustrati sul servizio dell'autorità nel Cristo e nella Chiesa, valorizzando le indicazioni del citato documento magisteriale e altre fonti, e assumendo e inserendo in questo contesto le indicazioni della RdV, possiamo delineare con sufficiente chiarezza i tratti distintivi della figura del Superiore nell'Istituto Comboniano, sia nei suoi punti di contatto come ogni superiore religioso, sia nei punti qualificanti come superiore di un Istituto essenzialmente missionario.

IlI0 Il servizio dell'autorità nell'Istituto Comboniano nel suo aspetto pastorale secondo la Regola di Vita

Possiamo a questo punto chiedere se e in che modo questi ricchi e stimolanti orientamenti che, circa il servizio dell’autorità, ci sono offerti dalla Parola di Dio e dalla Parola de la Chiesa, siano recepiti e accolti nella nostra RdV; se e in che modo il servizio della autorità nell’Istituto si presenti in linea con il ministero pastorale e ne verifichi gli aspetti e le esigenze.

Si constata che viene nettamente rimarcato il rilievo pastorale del servizio dell'autorità nell’Istituto che - come è bene sottolineare - ha un fondamento anche nella natura specifica della nostra Congregazione, a differenza di altre, essenzialmente missionaria ed evangelizzatrice.

Qua e là sono accennati, senza che sia fatto un discorso organico, le forme in cui detto ministero si esplica nella linea della pastoralità.

Due sviluppi: il rilievo pastorale del servizio dell'autorità nell'Istituto e le forme e modalità che assume.

1) Il rilievo pastorale del servizio dell'autorità nell'Istituto

Questo carattere è suggerito dalla natura dell'Istituto ed è esplicato dalla RdV.

a)- La natura dell’Istituto

È conveniente e utile premettere che l'analogia tra il servizio dell'autorità e il ministero pastorale, se è valida per l'autorità esercitata in qualunque Istituto di vita consacrata, a maggior ragione si verifica nell'ambito di una Congregazione essenzialmente ed esclusivamente consacrata all'evangelizzazione.

In questo caso il servizio dell'autorità comporta un servizio di animazione, di unificazione e di discernimento essenzialmente rapportato all'attività evangelizzatrice; e perciò è attività che non solo ha analogia, ma tende a coincidere con quella che è propria dei Pastori della Chiesa di Dio.

Vedi anche "Le Regole del Comboni del 1871", in Bollettino della Congregazione, n.79, pago 298ss.; RdV, n. 10; 10.1; 10.2; 11;11.1-2.

b)- Le indicazioni della Regola di Vita

Il carattere pastorale del servizio dell'autorità, già insinuato dall'indole dell'1sttuto, viene - pur nel sobrio impiego del termine specifico - a più riprese e con formule abbastanza incisive, messo in evidenza dalla RdV.

Richiamiamo qualche testimonianza più generica e segnaliamo poi alcune indicazioni più precise.

"Questo servizio è reso alla comunità e a ciascun membro per aiutarlo a vivere secondo la sua consacrazione e a sviluppare i suoi doni personali e carismi nel servizio missionario” (n. 102).

Questo "aiuto" che il servizio dell'autorità, deve, per essere pastorale, offrire a tutti nell'attuazione dello specifico carisma comboniano, si precisa e acquista contorni ben definiti in alcune formule assai incisive.

“L'autorità è un servizio di guida nella comunità: è servizio di ispirazione, che coadiuva tutti i membri della comunità nel vivere la loro vocazione; di discernimento, che aiuta ciascuno a fare le scelte giuste nel raggiungimento del regno di Dio; di unità e di coordinamento; d'incoraggiamento e di correzione fraterna come sostegno per superare i momenti di debolezza, stanchezza e scoraggiamento, attraverso una guida amichevole" (n. 102.2).

Compiti complessi e molteplici, che in prima linea, definiscono e qualificano la funzione del Superiore Generale.

"Il Superiore Generale esercita il suo ministero come il legame visibile di unione, sia all’interno dell'Istituto che con la Chiesa. Come primo in una comunità di fratelli, egli dà un servizio di guida e di ispirazione, perché l'Istituto rimanga fedele ai suoi fini missionari e alle esigenze della vita consacrata, confermandolo al servizio della evangelizzazione secondo i segni dei tempi" (n. 133.1).

Siamo dunque in presenza di un triplice fondamentale servizio:

- Servizio di animazione

"Il Superiore anima la comunità e i singoli membri alla ricerca della volontà di Dio, alla realizzazione della loro consacrazione missionaria e alla crescita della carità" (n. 107; cfr. anche n. 102; 102.2; 133.1)

- Servizio dell'unità

"Il Superiore presta il suo servizio nell'armonizzare i vari aspetti della vita comunitaria e nel prendersi cura del singolo missionario" (n. 107)

"Con impegno, tatto, sensibilità e iniziativa, il superiore si preoccupa di essere vincolo di unità nell’aiutare ciascun missionario a superare le sue tendenze individualistiche e la mancanza d'interesse per gli altri, e nell'incoraggiare ciascuno a considerare i propri talenti come un bene a servizio degli altri. Egli rispetta la competenza di coloro ai quali è stato affidato un compito specifico" (n. 107.1; cfr. anche n. 133.1)

- Servizio del discernimento

È questo l'aspetto del servizio pastorale dell'autorità che viene con più insistenza ribadito: Cfr. Indice Analitico: Discernimento.

Il servizio dell’autorità, perché la comunità possa compiere validamente il discernimento, che consiste nel ricercare insieme la volontà di Dio, in ordine a ciò il Superiore deve - tra l’altro - assicurare le. condizioni che consentono di scoprire la volontà divina: in un clima di preghiera, in un confronto di vita con la Parola di Dio, in un sincero ascolto di tutti i membri della comunità, in una ricerca di informazione e di scambio di idee (n. 33.4; cfr. anche n. 23.2; 35.5).

Questo discernimento comunitario, oltre che per le scelte relative alla vita comune, dovrà realizzarsi anche in ordine all'opportunità di prendere parte alle iniziative di interesse pubblico o di pubblica testimonianza (n. 45.2).

Conclusione: Ministero dell’autorità e ministeri della comunità

Nella luce di questi dati della RdV colti sullo sfondo dei ragguagli biblici sul servizio pastorale, il servizio o ministero dell'autorità nell'Istituto, va sentito e realizzato non come la sintesi o l'insieme dei servizi o ministeri, ma come il ministero o caris dell'insieme e della sintesi, nell'ambito di una comunità che - per la sua stessa natura di Istituto di vita consacrata, comunitaria e missionaria - è arricchito dallo Spirito Santo di varietà di doni, di carismi e di ministeri.

Come avviene nell’ambito della più grande comunità ecclesiale, i Superiori hanno il compito di scoprire, di incoraggiare e di dilatare, affinché la Congregazione risulti una vera immagine della Chiesa, corpo di Cristo, per la salvezza degli uomini.

È un argomento del più alto interesse, che pone l'accento su una delle responsabilità fondamentali di chi svolge il servizio dell'autorità.

Qui, per esempio, potrebbe essere inserito il discorso sulle specializzazioni a vario livello, come pure sulla necessità di prendere in seria considerazione le doti e le qualità di cui Dio ha gratificato ciascun'missionario.

Ma credo che convenga sottolineare che questo compito principalmente richiede una speciale attenzione alla molteplicità dei servizi e ministeri specifici, che sono chiamati a svolgere i nostri FRATELLI, secondo le preziose indicazioni della RdV, in forza della vocazione cristiana, potenziata e radicalizzata dalla vocazione alla vita consacrata e missionaria (n. 11; 11.2; 58.4; 61; 61.4).

Vedi a proposito; Fr. Massignani, "Il Fratello Comboniano nella RdV", in "Fogli informativi, per i coordinatori della formazione permanente", Roma , 20/2/80, pagg. 14-19, ripreso per la Provincia Italiana in "Riflessioni sulla RdV”, Bologna, 25/2/80, pagg. 14-19. Vedi pure: Giovanni Paolo II: "Discorso ai Fratelli religiosi degli Istituti clericali e laicali di Roma", in "Osservatore Romano", 13/1/80, pagg. 1-2.

2) Le forme del servizio pastorale dell'autorità nell'Istituto

Attraverso questa ricchezza di indicazioni e di rilevazioni appaiono già abbozzate le forme, le modalità, le espressioni che deve assumere il servizio dell'autorità nell'Istituto, in quanto impegnato a modellarsi sul ministero pastorale.

Già si intravvedono le esigenze fondamentali di quel compito di governare, di insegnare e di santificare che fa parte, secondo il documento MR, del ministero dell'autorità in quanto è di tipo pastorale.

Tenteremo ora di precisare - sempre con riferimento alla nostra RdV - le implicazioni di tale complesso compito. Giova, però, fare una premessa.

Un orientamento circa le modalità specifiche che deve assumere il servizio pastorale nel nostro Istituto, pare essere offerto dalla chiara consapevolezza della connessione e della conseguente interazione tra vita consacrata e vita missionaria; tra impegno di consacrazione e impegno di evangelizzazione.

Credo che questo fatto ben compreso e nettamente avvertito, possa consentire e suggerire valide scelte per il vantaggio dell'Istituto e dei singoli individui.

Nota: Connessione e interazione tra vita consacrata evita missionaria o apostolica

  1. Connessione: Un motivo che ritorna con speciale insistenza è che la nostra consacrazione è - per ragione dello specifico carisma comboniano - rapportata, orientata, finalizzata al servizio missionario.

" Il comboniano segue Gesù Cristo vivendo la propria consacrazione attraverso i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza da osservarsi con voto pubblico, secondo le esigenze del servizio missionario dell’Istituto nella Chiesa” " (n. 22; cfr. anche n. 1; 1. 3).

Tutta la vita del Comboniano, compresa la vita di consacrazione, prende dalla finalità apostolica la sua intonazione, il suo stile, i suoi orientamenti (n. 2.1).

Sul rilievo missionario della vita consacrata, vedi ad esempio: Comunità e missione, op. cit., pagg. 110-116.

  1. Interazione: Questo legame si specifica e si approfondisce nella sottolineatura del reciproco influsso tra vita di consacrazione e vita apostolica, e più genericamente e comprensivamente tra vita spirituale e teologale e vita apostolica.

Vedi sul tema: Bernard C., "Experience spirituelle et vie apostolique en Saint Paul", in “Gregorianum", 49, 1968, pagg. 38-57; “Bollettino della Congregazione”, 105, p.49-50.

- Influsso della vita consacrata sulla vita missionaria

Si annota al n. 1.3 che "la comunione col Signore e tra di loro, la dedizione al la­voro di evangelizzazione vengono approfondite e arricchite dalla pratica individuale e comunitaria dei consigli evangelici.

Si rileva pure che il vivere la vita cristiana in modo radicale rende il missionario testimone efficace del Vangelo (n. 20.1) e che la vita comunitaria, validamente attuata, è atta ad offrire la testimonianza della nuova comunità nello Spirito da proclamare e realizzare tra i popoli (n. 10.3; 36).

Si avverte inoltre che il rivivere il mistero della morte di Gesù attraverso l'assunzione delle esigenze radicali del Vangelo come norma di vita, consente al missionario di diventare partecipe e testimone della presenza e della potenza del Cristo risorto (n. 21.2).

Si rammenta infine che “l’incontro personale con Cristo è il momento decisivo della vocazione del missionario" (n. 21.1).

In realtà, nella prospettiva evangelica (Mc 3,13ss.), ripresa e riecheggiata dalla RdV (n. 21 e 21.1), è proprio lo stare e il rimanere con il Cristo Gesù, la intensa e crescente comunione di vita con Lui, che è l'inviato per eccellenza, che conferisce al missionario l'attitudine ad essere a sua volta inviato agli uomini ..

- Influsso della vita missionaria sulla vita consacrata e spirituale

L'impegno missionario rappresenta una forte e costante sollecitazione e un valido aiuto a crescere in santità e carità, tra l'altro perché la prima essenziale forma di proclamazione del messaggio evangelico è rappresentata dalla testimonianza personale e comunitaria dei consigli evangelici e dalla pratica della carità secondo lo spirito delle Beatitudini (cfr. n. 58 e tutti i paragrafi del Direttorio).

Questa consapevolezza tende a fare dell'impegno missionario un solido stimolo all'impegno spirituale (cfr. Evangelìi Nuntiandi, n. 41 e n. 62),

Si ammonisce che l'esperienza missionaria determina e implica un contatto con l'esperienza degli altri popoli, che arricchisce la sua riflessione teologica, la sua stessa vita consacrata e lo rende capace di essere strumento di dialogo (n. 57.2).

NB. È illuminante la vicenda dell’Apostolo Paolo: man mano che dilata la sua azione apostolica, si dilata anche attraverso l’incontro con i diversi movimenti religiosi, la sua vitale comprensione del mistero cristiano (cfr. Ef. 3).

Giustamente è stato rilevato che l'attività apostolica è atta a dilatare le dimensioni della fede, sollecitata ad approfondirsi,

della speranza, sospinta ad universalizzarsi

e dell’amore, obbligato in continuità ad esercitarsi.

Conclusione: Concludendo, possiamo anticipare che il compito pastorale dell'autorità nel nostro Istituto, comporta come esigenza specifica, quella di far cogliere questa connessione e interazione tra vita consacrata e vita missionaria; in modo che quella unità che è sottolineata a livello di Costituzioni, diventi unità a livello di esistenza; in modo che veramente - come si avverte al n. 2.1 - quel servizio missionario a cui - secondo la testimonianza di vita del Fondatore - l'Istituto si dedica totalmente, abbia veramente a determinare "le sue attività, il suo stile di vita, la sua organizzazione, come pure la preparazione dei suoi candidati e il rinnovamento dei suoi membri".

TRIPLICE COMPITO

Mettendo insieme i suggerimenti e i dati offerti dalla Parola di Dio e dalla parola dello Chiesa, dobbiamo affermare che il compito pastorale che abbiamo sopra definito, si configura e si definisce e si specifica in un triplice compito o in una triplice funzione:

  • il compito di governare
  • il compito di insegnare
  • il compito di santificare

1) Il compito di governare

Il documento MR, al n. 13c, si esprime così: "Quanto all'ufficio di governare, i superiori devono compiere il servizio di ordinare la vita propria della comunità, di organizzare i membri dell'Istituto, di curare e sviluppare la peculiare sua missione e provvedere che venga efficientemente inserito nell'attività ecclesiale sotto la guida dei Vescovi".

Nell’Istituto, l'attività di animazione, di unificazione e di discernimento, si configura nettamente come attività di governo; e specialmente nelle sezioni più marcatamente giuridiche (cfr. settori del governo, dell'economia, della separazione dall'Istituto), si definiscono impegni di carattere disciplinare e amministrativo che la funzione di governo comporta.

"Il Superiore esercita un ruolo di guida per il bene della comunità attraverso direttive che sono di sua competenza, in consultazione con le persone che sono interessate e, per quanto è possibile, comunica le ragioni delle sue decisioni" (n. 107.2).

Ma la finalità di un Istituto di vita consacrata e apostolica è di tipo marcatamente spirituale e carismatico ed esige di essere perseguita e raggiunta principalmente con iniziative scelte di carattere spirituale e carismatico.

In questa situazione, il servizio dell’autorità come stimolo, coordinamento e discernimento, è in funzione non solo né soprattutto di un regolare funzionamento giuridico della Congregazione, ma di una crescita nello Spirito dell’intera comunità; ha lo scopo di provveder al dilatarsi della vita spirituale dei singoli membri dell'Istituto, in vista di una efficace azione di evangelizzazione.

Governare è guidare, quasi pilotare in ordine al raggiungimento da parte di tutti dell’ideale vocazionale. Ne segue che il compito di governare deve configurarsi massimamente come compito di insegnare e di santificare e, biblicamente, come servizio della Parola e servizio della liturgia e, più comprensivamente, della preghiera.

Nota: Il binomio: dono – impegno

In ordine a una più chiara percezione di queste funzioni, giova notare che, come ogni esperienza di salvezza, come la vocazione cristiana, così la vocazione religiosa e missionaria esprime se stessa in un binomio: nel binomio evento-impegno, cioè in un evento di salvezza che fonda un particolare impegno in ordine alla salvezza, o anche in un DONO che è IMPEGNO.

Per questo, il servizio dell'autorità come servizio di tipo pastorale, sarà compito di insegnare, che consenta di prendere sempre più viva coscienza del dono di salvezza, connesso con la vocazione religiosa e missionaria; e compito di santificare, come aiuto ad attuare sempre più fedelmente l'impegno, ossia la capacità e l'esigenza di azione, nell'ordine della salvezza, che hanno il loro fondamento nel dono.

Sono dati che assumono contorni assai definiti nel citato documento MR.

Ne prendiamo atto e visione e tentiamo di ricavarne indicazioni per coloro che nell'ambito dell'Istituto, svolgono il servizio dell'autorità, sulla base degli orientamenti offerti dalla RdV.

2) Il compito di insegnare

Il documento suona così: “Quanto all'ufficio di insegnare, i superiori hanno la competenza e l'autorità di maestri di spirito in relazione al progetto evangelico del proprio istituto; in tale ambito, quindi, devono esplicare una vera direzione spirituale dell'intera congregazione e delle singole comunità della medesima, e l'attueranno in sincera concordia con l'autentico magistero della gerarchia, sapendo di dover eseguire un mandato di grave responsabilità nell'area del piano evangelico, voluto dal fondatore" (n. 13a).

I Superiori sono per ufficio, ossia in forza del servizio pastorale dell'autorità che devono svolgere, " maestri di spirito”, in relazione al progetto evangelico del proprio Istituto.

Come si vede, è in primo piano, il compito di aiutare i confratelli a prendere sempre più adeguata consapevolezza dell'evento di salvezza, di cui hanno beneficiato attraverso la chiamata ad una totale consacrazione a Dio e al servizio degli uomini con l'annuncio del Vangelo; chiamata che si innesta su quella battesimale e la radicalizza e ne esprime al massimo grado le potenzialità (n. 20.1); in secondo piano, è il compito di aiutare i fratelli a realizzare una visione sempre più profonda del dono di cui sono stati gratificati con la vocazione a vivere una vita di consacrazione nel contesto della vita comunitaria in funzione della vita missionaria, e a coglierne le implicazioni e le esigenze sul piano dell'azione (n. 23).

Compito, questo da assolvere valorizzando, come suggerisce il citato documento, la luce che viene dalla Scrittura, dalla dottrina ecclesiale e, più immediatamente, operando con soavità e costanza, perché tutti possano assimilare quella traduzione, attualizzazione e rilettura della Parola di Dio e della Chiesa, che per noi tenta di offrire la RdV, in ordine al compiersi del progetto evangelico del nostro Istituto.

Rilievi:

  • Punto di riferimento per questo lavoro sono principalmente gli sviluppi costituzionali nell'ambito delle sezioni dedicate al carisma del Fondatore e all'Istituto comboniano, alla vita di consacrazione, alla vita comunitaria e al servizio missionario.
  • Compito di largo respiro, che mai è esaurito; compito di grande rilievo, che mai va sottovalutato; in realtà, generalmente, è proprio la insufficiente coscienza del dono di Dio che porta con sé la tentazione di rifiutarlo o il rischio di perderlo.

3) Il compito di santificare

Questa funzione viene descritta nei seguenti termini: “Quanto all'ufficio di santificare, è pure spettanza dei superiori una speciale competenza e responsabilità di perfezionare, sia pure con differenti compiti, in ciò che riguarda l'incremento della vita di comunità secondo il progetto dell'Istituto, sia circa la formazione, tanto iniziale che continua, dei confratelli, sia circa la fedeltà comunitaria e personale nella pratica dei consigli evangelici secondo la regola. Tale compito, se rettamente adempiuto, verrà considerato dal romano pontefice e dai vescovi qual prezioso sussidio nell'espletamento del loro fondamentale ministero di santificazione " (MR, n. 13b).

Il dono di Dio, oltre che adeguatamente conosciuto, ha bisogno di essere consolidato e intensamente vissuto. Il servizio dell'autorità, come servizio di tipo pastorale, ha come sua specifica funzione quella di aiutare i fratelli ad attuare il molteplice impegno che il dono di Dio porta con sé.

In concreto, si tratta di offrire aiuto e sostegno per vivere e attuare varietà di impegni, di cui diamo un rapido elenco;

  • Anzitutto aiuto e sostegno per attuare il fondamentale impegno di:
  • crescere e progredire nella vita spirituale, fino a raggiungere la perfezione della carità (n. 10.2; 22.2);
  • realizzare al più alto grado la comunione di vita con il Signore Gesù e con i fratelli (1.3) approfondire e sviluppare una intensa amicizia con il Signore Gesù, che si traduca in una sincera amicizia con coloro che sono partecipi della medesima vocazione (n. 26; 26.3) seguire più da vicino il Cristo (n. 22; 22.2);
  • stare e rimanere con il Signore Gesù, l'inviato e l'apostolo per eccellenza, per avere e consolidare l'attitudine ad essere inviati come Lui (n. 21);
  • condividere più strettamente il destino di Cristo, cioè vivere più intensamente il mistero pasquale: il mistero della morte e della risurrezione di Gesù, attraverso la fedele attuazione dei Consigli Evangelici (n. 21.2; 22; 35,3; 27.l);
  • Aiuto e sostegno, poi, per attuare il caratterizzante impegno di praticare le Beatitudini evangeliche, nel contesto di una vita comunitaria, di cui è espressione saliente la preghiera (nn. 20-55).
  • Aiuto e sostegno, inoltre, per attuare lo specifico impegno di vivere la vita consacrata in modo da assicurare l’efficacia della vita missionaria, e la vita missionaria in modo da dilatare la vita spirituale (nn. 56-71).
  • Aiuto e sostegno, infine, per attuare l'impegno sempre urgente di operare quella continua e quotidiana conversione, che a tutti è richiesta dalla consapevolezza e dall’esperienza della sempre inadeguata realizzazione dell'ideale (cfr. Preambolo).

Rilievi complementari

1) Punto di riferimento

Punto di riferimento e di orientamento per questo grave compito sarà la Parola di Dio e della Chiesa, nel suo aspetto morale, insieme con la nostra RdV, come traduzione per noi di quella, con speciale attenzione alle sezioni parenetiche, generalmente coincidenti con gli sviluppi di tipo direttoriale, che si rapportano all’ “Istituto, come comunione di fratelli, consacrati al servizio missionario" (nn. 20-55)

2) Centri principali di interesse

In vista di questo obbiettivo della santificazione, il servizio dell'autorità comporta massimamente la sollecitudine di promuovere queste cose:

  1. a livello generale:

la sollecitudine di promuovere e assicurare una efficiente e valida formazione di base e di portare avanti la formazione permanente come costante rinnovamento teologico, pastorale e culturale (cfr. gli sviluppi dei nn. 80-98); formazione che "si propone di aiutare il missionario nel suo cammino verso una tale esperienza di Dio che gli permetta di testimoniarlo con la vita e lo renda capace di conoscere gli uomini del suo tempo, per comunicare loro la Buona Novella con il loro stesso linguaggio" (n 81; 85).

b) a livello di quotidiana esperienza:

  • la sollecitudine di promuovere la vita comunitaria come scelta specifica dell'Istituto Comboniano in ordine a vivere più validamente la vita consacrata e la vita missionaria (nn. 36-45). VITA COMUNITARIA da curare, custodire e incrementare, perché "non si riduca a un vivere insieme puramente esteriore, ma si esprima in una vera comunione di persone" (n. 36.3); e perché, ancora, prenda consistenza "in una regolare convivenza, nel ricercare insieme la volontà di Dio e nel condividere la preghiera, i beni, la pianificazione, il lavoro e i momenti di sollievo (n. 39).
  • la sollecitudine, inoltre, di promuovere la VITA DI PREGHIERA, come espressione ed esigenza dell' impegno di consacrazione e dell' impegno di evangelizzazione (n. 3. 2-3.; 21.1; 46; 48; 58.2).

Il significato della preghiera per noi:

  • esigenza ed espressione dell'impegno di consacrazione, che come dice Paolo (lCor 7,32-35) richiede l'ansia di piacere al Signore con cuore indiviso: un’ansia di stare col Signore Gesù, di contemplare Lui e di compiacere Lui, pari e superiore a quella di due persone che sinceramente si amano;
  • esigenza dell1impegno di evangelizzazione, cioè dell'apostolato che - secondo Mc 3,13ss. - ha come componente essenziale lo stare con il Signore Gesù, apostolo per eccellenza (Eb 3,1), per ricevere e dilatare l'attitudine ad andare a predicare il Vangelo a nome suo (cfr. RdV n. 21).

Motivazioni della preghiera per noi:

  • Vita di preghiera da promuovere e coltivare, perché ogni missionario focalizzi "la sua intera esistenza nell'incontro con Dio e formi con i fratelli una comunità orante" (n. 50; 46)
  • " Vita di preghiera da promuovere e coltivare, nella molteplicità dei suoi aspetti, bene illustrati nella RdV, come ascolto della Parola, come preghiera missionaria, personale, comunitaria, con speciale attenzione alla celebrazione eucaristica e al sacramento della riconciliazione, e - infine - come contemplazione assidua del Cuore trafitto di Cristo, per trarne come il Comboni, ispirazione, stimolo e sostegno in ordine alla vita consacrata, comunitaria e missionaria (n. 3; 3.2-3; 46.2).
  • Vita di preghiera da promuovere e coltivare anche nella consapevolezza della interdipendenza tra azione e contemplazione (n. 46.1.2); e, più immediatamente, nella persuasione che la preghiera liturgica è fonte di ispirazione per l'attività missionaria, e che la comunione eucaristica è esercizio e alimento della comunione fraterna (n. 51; vedi Atti 2,42; Eb 13,10; 15ss.); a tutto ciò va associata la convinzione che il quotidiano impegno di comprensione e di collaborazione fraterna dispone la comunità a un valido e autentico incontro nella preghiera (n. 50.6).

Comunità comboniana e comunità primitiva

Attraverso questa attività di insegnamento e di santificazione, destinata a promuovere una intensa comunione fraterna, come espressione della comunione di vita col Cristo Gesù, le nostre comunità comboniane si incammineranno a riprodurre lo stile di vita della primitiva comunità cristiana, che ebbe un potere mirabile di espansione e di trasformazione nel mondo giudaico e nel mondo greco-romano, perché fu comunità di fede, comunità di carità, comunità eucaristica e comunità di preghiera (Atti 2,42).

Le nostre comunità porteranno avanti la missione nella misura in cui porteranno avanti la comunione.

Conclusione: Compito di insegnamento e di santificazione e testimonianza di vita

È necessario aggiungere che all’attività di insegnamento e di santificazione dovrà associarsi la testimonianza di vita, soprattutto come servizio della Carità, che sola può dare a quella validità, solidità e credibilità.

E tutto ciò nella linea degli Apostoli, tra i quali Paolo sollecitava i discepoli ad accogliere quello che predicava e a fare quello che lui praticava (2Tess 2,15; lCor 4,16); e si preoccupava di precedere tutti e di dare esempio a tutti in ordine alla donazione al Cristo e alla donazione ai fratelli (Atti 20,18-35).

Il messaggio di salvezza trasmesso a noi con detti e fatti (i detti e i fatti del Signore Iddio, i detti e i fatti del Signore Gesù (Atti 1,1), i fatti e i detti degli apostoli (Rom 15,18) non potrà essere trasmesso da noi che con detti accompagnati da fatti; solo se, oltre che profeti, saremo testimoni.

Mi colpì quello che - in una conferenza introduttiva al Capitolo - diceva Fr. Rueda:

"Nelle solenni assisi dei superiori delle varie congregazioni ecclesiali, spesso si sente il gustoso SAPORE della sapienza e della scienza, si avverte il vivace COLORE dell'esperienza; ma poco si percepisce il soave ODORE, della santità; e questo - aggiungeva - rappresenta una grande CALAMITÀ”.

Il Cristianesimo è via che si insegna indicandola e additandola, ma massimamente e principalmente percorrendola.

È utile e necessaria annotazione che apre la via a una ulteriore considerazione.

IV0- Requisiti e caratteristiche del servizio pastorale dell'autorità nella luce della Bibbia, dei Documenti Magisteriali e della Regola di Vita

Queste direttive si rapportano alla vita a livello personale e alla vita a livello relazionale. 

1) Vita a livello personale

Nelle regole di una volta, l'invito a una costante tensione spirituale, come esigenza del servizio pastorale, era espresso con l'ammonimento rivolto a Timoteo (1Tim 4,16), che è applicabile alla nostra situazione: “Vigila su te stesso e sul tuo insegnamento e sii perseverante; così facendo salverai te stesso e coloro che ti ascoltano".

Parole che sono un'eco dell'ammonimento di Paolo nel suo testamento pastorale ai pastori della Chiesa d'Asia: "Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge ...” (Atti 20,28).

In questi detti c'è una pressante esortazione per i superiori a un vegliare su se stessi, che sia impegno costante e intenso di essere in prima linea, di essere i primi nell'attuare le svariate esigenze del carisma che sta alla base della vita dell'Istituto; di essere, insomma, i modelli dei confratelli a tutti i livelli: a livello di vita consacrata, di vita comunitaria, di vita missionaria e più distintamente, a livello di vita di preghiera, come esigenza di fondo ed espressione qualificata dell'impegno di consacrazione, di vita comune e di evangelizzazione; e più comprensivamente, a livello di formazione permanente in ogni sua componente.

Impegno, dunque, di farsi modello in tutto questo, in modo da poter ripetere con fondamento e con verità alcuni significativi detti di Paolo:

“Fratelli, fatevi miei imitatori e guardate a quelli che seguono il nostro esempio” (Fil 3,17), e ancora: “In conclusione, fratelli, prendete in considerazione tutto ciò che è vero, ciò che è buono, giusto, puro, degno di essere amato e onorato: ciò che viene dalla virtù ed è degno di lode. Mettete in pratica quello che avete imparato, ricevuto, udito e visto in me” (Fil 4,8ss); infine, l'incisivo e programmatico detto: "Siate miei imitatori, come anch' io lo sono di Cristo" (lCor 11,1).

2) Vita a livello di relazione

L’apostolo Paolo rivolgendosi da Atene ai suoi amici di Tessalonica, li invita a riflettere che, durante la sua permanenza in quella città, aveva dato verso tutti prova di amore materno e paterno.

È invitato ad associare costantemente sollecitudine di padre e di madre, fortezza e soavità, per muoversi nella linea di Dio, che - come ricordava Giovanni Paolo I, riecheggiando Isaia è ad un tempo il più premuroso dei padri e la più amorosa tra le madri (Is 49,15).

Credo che indirizzi in questa direzione Giovanni Paolo II, che, con impressionante forza e tenacia sottolinea che caratteristica fondamentale del cristianesimo e del cristiano è e deve essere l’attenzione all’uomo; che fa costante appello all'uomo, suscitando adesione a tutti i livelli della società; che, insomma, dichiara apertamente e risolutamente che l'UOMO è la sola VIA della CHIESA, proprio perché la sua sola via è CRISTO (cfr. RH 14); che il camminare e l'agire della Chiesa deve essere costante attenzione alle attese e alle necessità, alla globale liberazione dell'uomo, appunto perché tutto il camminare e tutto l’agire di Cristo fu una costante sollecitudine per la integrale salvezza dell'uomo.

E la nostra Regola di Vita esplicita a più riprese le concrete implicazioni di questo atteggiamento di apertura,. di donazione e di servizio verso tutti i confratelli, esigito dal servizio dell'autorità, e precisa che deve esprimersi principalmente nella disposizione al, o meglio, nella prassi del dialogo e nel rispetto di ogni missionario.

a) La prassi del dialogo

Il dialogo, che secondo la RdV deve essere assunto come norma dell'attività evangelizzatrice, ossia dei rapporti con gli esterni all'Istituto (n. 57), opportunamente viene adottato come regola della vita comunitaria, ossia dei rapporti e delle relazioni all'interno della Congregazione.

* Le direttive

Si annota che è compito di coloro che esercitano l'autorità animare i confratelli nella ricerca della volontà di Dio e dialogare con la comunità e le singole persone, prima di impartire ordini e direttive (n. 35.5).

Dialogo inteso a favorire il discernimento quanto alla vocazione dei singoli membri dell'Istituto e ai doni personali, perché tutti siano convenientemente preparati ad affrontare i compiti ai quali sono assegnati (n. 56.4).

Dialogo che assume particolare urgenza nel caso di confratelli che si trovano in particolari difficoltà per la loro vocazione (n. 42.4).

Dialogo, le cui caratteristiche suggerite dal dialogo di Dio con l'umanità, nel corso dei secoli, sono con mirabili e commoventi accenni cantate e illustrate da Paolo VI nella "Ecclesiam Suam”, che unifica la vicenda della Chiesa, riassumendola in un dialogo, carico di amore all'interno della comunità ecclesiale, con i fratelli separati e con i fratelli che ancora non hanno scopertamente incontrato Cristo (39-44).

* Le ragioni

Dialogo che non è arbitraria imposizione conciliare e capitolare, ma che, oltre ad essere richiesto dalla prassi di Dio, Nostro Signore, e dalla Chiesa, nostra maestra, è ampiamente motivato.

In realtà, il dialogo è il modo ordinario per l'uomo di raggiungere la sua perfezione e crescere in tutte le sue doti di natura e di grazia (n. 36.1).

Dialogo, inoltre, che è esigenza del comune impegno del Superiore e del confratello di non imporre la propria volontà, ma di ricercare e trovare la volontà di Dio.

Noi siamo servi solo di Dio e del Signore Gesù, e solo eseguendo la volontà di Dio e del Cristo Gesù, sfuggiamo alla condizione di schiavi: di qui l'esigenza - per i superiori - che sono chiamati ad essere solo i segni e i veicoli della volontà dello unico Signore, di avere la preoccupazione, per non schiavizzare i fratelli, non solo di agire sempre in sintonia con la RdV, ma anche sulla base del dialogo con la comunità e i singoli, dato che questa volontà può emergere anche attraverso le persone, dei confratelli nei quali pure è presente lo Spirito Santo (n. 35.1; 35.5; 41.2).

b) Rispetto per ogni missionario

Accanto alla prassi del dialogo, il rispetto non freddo, ma permeato di affetto verso ogni singolo confratello.

Si annota (n. 42) che una legge fondamentale della vita comunitaria, di cui il Superiore dovrà curare l'attuazione per sé e per gli altri, è il rispetto per ogni missionario che esige che si riconoscano "1a dignità, i diritti ed il valore di ciascuno missionario" e che si cerchi di "dare a ciascuno la possibilità e i mezzi per lo sviluppo dei talenti che ha ricevuto da Dio, e per la realizzazione della sua vocazione secondo i fini dell' Istituto!' (n. 42).

Degna di rilievo questa esortazione all'attenzione a tutta la comunità e al "singolo missionario" (n. 107).

È invito per ogni responsabile del servizio dell'autorità ad essere per tutti in genere e per ognuno in particolare come un padre e una madre, la cui caratteristica è avere il pensiero rivolto alla totalità dei figli e a ognuno dei figli.

Ogni confratello dovrebbe avere nei confronti del Superiore l'impressione e la sensazione che Paolo aveva nei confronti del Signore Gesù: egli ha voluto bene a me e si è donato per me (Gal 2,20).

Benevolenza e donazione che siano costante preoccupazione del bene spirituale e temporale di ogni missionario.

Conclusione:

1) Servizio pastorale e consenso

Questo atteggiamento di apertura a vario livello è esigenza di efficienza e di successo a livello del servizio dell'autorità: in realtà, come visto, compito prevalente è quello di essere maestri di spirito e strumenti di spirituale progresso per i confratelli.

Ebbene, l'attuazione di questo compito fondamentale esige o preesige una consonanza di sentimenti, un sostanziale consenso dei confratelli nei confronti del Superiore : senza questo consenso, le iniziative cadono nel vuoto. Ma questo interiore consenso, decisivo agli effetti della formazione, non si impone; si conquista; e si conquista con un atteggiamento di apertura, di donazione e di servizio, che si esprima nella disposizione al dialogo e in un rispetto per tutti permeato di affetto.

2) Formazione dei formatori

Sono compiti molteplici e complessi, quelli connessi con il ministero della autorità: compiti che comportano un costante impegno di approfondimento, di aggiornamento, di coordinamento e di discernimento, personale e comunitario.

Certo, corsi di rinnovamento sono urgenti, e sono da incoraggiare in relazione a tutti i confratelli, in rapporto agli impegni connessi con la vita consacrata, vita comunitaria e vita missionaria; ma con evidenza questa esigenza porta con sé il gravoso impegno pastorale connesso con il servizio dell'autorità.

Non mi ha sorpreso, perciò, che recentemente la Congregazione per l'educazione cattolica abbia pubblicato un numero di "Seminarium", tutto dedicato alla formazione degli educatori, tra i quali vanno annoverati i superiori, chiamati a svolgere l'ufficio di insegnare e di santificare (cfr. "Seminarium'", n. 2, Anno 31, 1979).

NOTA: Il servizio dell'autorità e la comunione ecclesiale

Abbiamo fatto parola dei requisiti del servizio pastorale dell'autorità a livello di relazione, con riferimento ai membri dell'Istituto; a questa riflessione, con naturalezza si riallaccia il discorso sulle relazioni con l'intera comunità ecclesiale.

Un'idea guida è questa: il servizio dell'autorità che ha la sua sorgente nella comunione ecclesiale deve essere finalizzato alla comunione ecclesiale a vario livello, ossia deve promuovere e assicurare e dilatare la comunione dell'Istituto con tutta la comunità ecclesiale, nelle sue varie espressioni.

La Regola di Vita, enuncia alcuni principi, cui agevolmente si riallacciano una serie di direttive e di indicazioni pratiche, che bene sintetizzano e applicano alla nostra particolare situazione gli orientamenti ecclesiali recentemente espressi nel documento "Mutuae Relationes", ossia "Criteri direttivi sui rapporti tra Vescovi e religiosi nella Chiesa" (Roma, 1978).

1) Principi

Qua e là si colgono indicazioni circa il legame tra la Congregazione come impegnata a vivere una vita di consacrazione e a svolgere un'attività di evangelizzazione e la Chiesa universale e locale.

  1.  L'Istituto missionario Comboniano è un'espressione specifica della Chiesa e della sua missione. I suoi membri partecipano attivamente alla missione della Chiesa al mondo attraverso il servizio all'uomo e la testimonianza della vita comunitaria consacrata (cfr. Preambolo).
  2. Servizio interecclesiale

"Il mistero della Chiesa è vissuto nel pluralismo e nella comunione delle Chiese locali. Ognuna di esse ha la responsabilità del servizio missionario. L'Istituto è segno della fraterna solidarietà delle chiese nella comune responsabilità missionaria. I suoi membri sono espressione missionaria della loro chiesa d'origine e membri attivi della Chiesa che li invita. Questo servizio interecclesiale è fonte di reciproco arricchimento" (17).

"L'Istituto invia i suoi membri anche come espressione di vitalità missionaria delle loro chiese d'origine: a queste rimane unito e collabora con esse in quei campi che sono nell'ambito delle sue finalità missionarie.

Da parte sua il missionario stabilisce e mantiene contatti regolari con la sua comunità diocesana e parrocchiale" (n. 17.1).

1) Applicazione

Questo molteplice legame della Congregazione con la Chiesa a vario livello ha vaste implicazioni sul piano dell'azione, di cui i superiori dovranno farsi interpreti presso i membri dell'Istituto.

  • Una direttiva di fondo: A questo riguardo c'è una precisa direttiva nell'ambito della sezione sul servizio dell'autorità: "Il Superiore ha il compito di favorire un clima di fraternità e di collaborazione con la chiesa locale" (n. 107.4) .
  • Le conseguenze: Questa sottolineatura del risvolto ecclesiale del servizio di tipo pastorale, che deve svolgere il superiore, implica l'esigenza di offrire ai confratelli luce, guida, stimolo e sostegno, perché adempiano la varietà dei doveri che secondo la RdV hanno nei confronti della Chiesa nelle sue varie espressioni. I superiori dovranno, insomma, preoccuparsi di un valido "comportamento ecclesiale dei confratelli".

In concreto:

  1. Il Superiore solleciterà i confratelli ad un atteggiamento di docilità e di sincera comunione per rapporto ai Pastori della Chiesa che il Cristo Gesù ha posto a reggere la sua Chiesa (n. 66); e, in prima linea, nei confronti del Papa (n. 9.1).

Tutto ciò è esigenza di fedeltà al carisma del Comboni, che si distinse per l'attaccamento e la fedeltà alla Chiesa (n. 9).

Ciò va fatto anche nella persuasione che Dio manifesta la sua volontà anche attraverso la vita della Chiesa, le sue necessità e la sua autorità (n. 33·3).

Questo impegno di comunione prende forma a livello di Chiesa locale anche nella collaborazione alle iniziative che mirano a migliorare le condizioni di vita della gente e più ancora (nn. 45.1; 61.3.7; 73.2) alle scelte relative alla formazione permanente di tipo teologico, pastorale e culturale (n. 101.2).

  1. Il servizio da rendere dalle comunità comboniane alle comunità ecclesiali esige anche che i confratelli siano animati e incoraggiati a farsi "animatori missionari della Chiesa"; a non risparmiare sforzi per far crescere in esse la necessità della coscienza e dell'impegno missionario, soprattutto a livello di Pastori (n. 9).

Quest'opera di animazione richiede tra l'altro che venga in tutti i modi inculcata l’idea e la persuasione che la scelta della vocazione missionaria nell'ambito delle varie organizzazioni missionarie, in prima linea degli Istituti Missionari, è valida e qualificata espressione della missionarietà della Chiesa locale (n. 72.2); come pure la persuasione e la convinzione che un serio e intenso impegno missionario è per la comunità locale incessante fonte di spirituale arricchimento: è comunicazione delle proprie ricchezze, ma anche acquisizione delle ricchezze delle altre chiese e degli altri popoli (nn. 17; 72.3; 75).

  1.  Con riferimento alle giovani Chiese, i responsabili dell'Istituto sono chiamati a prendere l'iniziativa di una fraterna collaborazione, attraverso la sollecitudine dei missionari di mettersi a loro servizio nelle attività di evangelizzazione (n. 65).
  2. Un aspetto dell'apertura "ecclesiale" che chi è incaricato del servizio dell'autorità è chiamato a favorire, è la collaborazione con le altre forze impegnate nel servizio ecclesiale e missionario, nell’opera di evangelizzazione e di promozione umana.

In concreto:

  • la collaborazione con i diversi agenti e organismi dell'evangelizzazione (nn. 19; 8.1; 73.3ss.);
  • la collaborazione più direttamente e intensamente con gli altri Istituti missionari, in ordine tra l'altro ad una efficace animazione della Chiesa locale e anche ad una formazione sul piano della spiritualità e della teologia, che dia il debito rilievo alla dimensione missionaria (n. 90.6);
  • collaborazione più immediatamente con le altre famiglie religiose che si ispirano al carisma del Comboni, come le Suore Missionarie Comboniane e le Missionarie Secolari Comboniane (n. 19.1).

In questo contesto merita un richiamo l'esigenza di una speciale attenzione ai parenti dei confratelli (n. 44), i primi e più grandi collaboratori dell'evangelizzazione.

E, finalmente, questo atteggiamento di apertura dovrà estendersi a tutta "1a società, dovrà esprimersi nella sensibilità verso tutti i problemi che agitano la società, in vista tra l'altro di cogliere quei "segni dei tempi", sui quali dovrà sintonizzarsi il nostro servizio alla Chiesa e al mondo (n. 45).

VO - Doveri verso chi è chiamato a presiedere la comunità apostolica

Questo già ampio, troppo ampio discorso sulla figura del Superiore, può parere. concluso e chiuso a questo momento; ma credo che abbia bisogno di un codicillo e di un rapido complemento; credo che sia utile e necessario un accenno ai doveri dei confratelli verso chi esplica il servizio dell'autorità.

Richiamo alcuni detti della Regola di Vita, includendoli e racchiudendoli in 2 detti della Bibbia:

  1.  "Ubbidite a quelli che dirigono la comunità e siate sottomessi. Perché essi vegliano su di voi, come persone che dovranno rendere conto a Dio. Fate in modo che compiano il loro dovere con gioia, altrimenti lo faranno malvolentieri e non sarebbe un vantaggio neppure per voi" (Eb 13,17).
  2.  Si annota che il comboniano vive la sua appartenenza all'Istituto, tra l'altro accettando i Superiori che reggono l'Istituto, insieme a tutte le persone che lo compongono (n. 13.2).
  3.  Si specifica che l'obbedienza attiva verso i Superiori nella linea delle Costituzioni è per il comboniano modo di identificarsi con il fine dell'Istituto (n. 35).
  4.  Si suggerisce che deve essere sostenuta dalla convinzione che il ministero dell'autorità è dato dall'unico Spirito per il bene di tutti, cosicché la comune docilità allo Spirito dovrebbe portare a poco a poco a un comune modo di sentire e di pensare e di volere; e ancora dilata nella persuasione che il travaglio che della sottomissione comporta la comunione a quel mistero di morte del Cristo, da cui nasce la vita (n. 35.3).
  5. Si ammonisce che la consapevolezza della responsabilità che porta con sé il servizio dell'autorità, deve determinare un atteggiamento di "lealtà e di rispetto, che si manifesta nella comprensione, nella cooperazione, nell'astensione da erronee interpretazioni e da una critica puramente negativa" (n. 35.2).

Conclusione

Mi pare che tutto sia stato egregiamente, meglio splendidamente, meglio ancora insuperabilmente rimarcato da Paolo, rivolto ai fedeli di Tessalonica: "Fratelli, vi prego di rispettare quelle persone, che per incarico del Signore, lavorano in mezzo a voi, sono responsabili della comunità e vi ammoniscono. Trattatele con molto rispetto e con amore, a causa della attività che devono svolgere. Vivete in pace tra voi!” (lTess 5,12ss.).

Dunque un rispetto permeato di affetto, o un affetto permeato di rispetto.

VIOEPILOGO

Concludendo e riassumendo: nella luce della Parola di Dio, della parola della Chiesa e della Regola di Vita, possiamo parlare di servizio dell'autorità, come servizio ecclesiale, pastorale, fraterno; o, ancora, specificandone le espressioni concrete: di un servizio dell'autorità esplicato attraverso il servizio della Parola, della liturgia, della preghiera e della carità; o anche attraverso il servizio dell'insegnamento, della santificazione e della testimonianza di vita. Ognuno di questi elementi appare essenziale.

L'auspicio è che la Regola di Vita contribuisca a far prendere coscienza – in questi tempi di crisi – dell'importanza che ancora riveste e della complessità che tuttora presenta il ministero dell'autorità, in modo che possa essere esplicato validamente e gioiosamente e possa offrire un solido aiuto ai confratelli per capire e vivere sempre più validamente e gioiosamente il carisma di cui sono stati gratificati per un gesto di predilezione del Cuore di Cristo.