Lunedì 18 giugno 2018
Molti missionari vanno in crisi quando, con la fine del Secondo conflitto mondiale e l’instaurarsi di nuovi equilibri geopolitici, l’evangelizzazione non coincide più con la civilizzazione coloniale occidentale. E quando la Chiesa, riconoscendo la soggettività delle singole culture, rivede le linee guida dell’agire missionario. [di Mauro Forno, Nigrizia].

E ALL’ORIZZONTE COMPAIONO GLI ALTRI

Tra i diversi effetti prodotti dalla Seconda guerra mondiale, uno si lega certamente all’inaugurarsi di una intensa fase di decolonizzazione, le cui prime avvisaglie si erano già manifestate durante i decenni precedenti. I bianchi, che si sono massacrati in un conflitto di violenza inaudita, hanno dato prova al mondo di non essere invincibili e anche di non poter vantare alcuna pretesa di superiorità – culturale o morale – di fronte a chi ha dovuto a lungo subire il loro dominio.

È un cambio di prospettiva piuttosto repentino, che finisce per mettere indirettamente in crisi anche i presupposti dell’evangelizzazione cristiana, sino ad allora non di rado confusa – a torto o a ragione – con la prassi della colonizzazione politica. In poco tempo la Chiesa si trova a doversi confrontare con

una sfida epocale, che viene immediatamente colta con consapevolezza dai vertici della Santa Sede, favorevoli ad assecondare una certa evoluzione nei rapporti tra paesi del Nord e paesi del Sud del mondo e, se possibile, a moderarne gli effetti. Altre rilevanti componenti della Chiesa, tuttavia, piombano in questa nuova realtà con un misto di stupore e di disagio. Ciò vale in particolare per gli ordini e le congregazioni missionarie, che dimostrano solo in parte – o per nulla – di essere pronte ad accettare una profonda trasformazione del loro modo di operare e di intendere la missione.

Molti missionari lavorano sul campo da decenni. Sono stanchi, anziani, gravati da carenze abbastanza profonde nell’aggiornamento teologico e pastorale, e fondamentalmente impreparati a confrontarsi con l’inedito rancore di chi, dopo il 1945, inizia a giudicarli come degli agenti stranieri al soldo dei vecchi governi colonizzatori, come degli uomini fuori dal tempo, incapaci di interrogarsi su quale senso possa ancora avere «andare a stravolgere la vita» di chi può forse trovare una dimensione di pace e di salvezza anche solo attraverso la propria fede.

Sono per questo decisamente esposti a quella particolare condizione mentale che Bert Hellinger ha definito “sindrome del benefattore”: quel delicato stato d’animo di chi, nella certezza di avere sempre dato tutto sé stesso per il prossimo, tende a interpretare una possibile trasformazione dei rapporti tra barbari e civilizzatori come una grave forma di “ingratitudine”.

Difficile autocritica

Eppure la strada sembra per loro ormai segnata. Essa deve passare per un doloroso quanto rapido cammino di distacco da certi consolidati orizzonti e da un’ampia revisione autocritica del proprio ruolo. Una strada, questa, idealmente suggellata dalla solenne assise del concilio Vaticano II (1962-1965) che – proponendosi di fornire una definizione dogmatica del concetto di missione – darà una sanzione definitiva a molte delle evoluzioni che, nel corso degli ultimi due decenni, avevano spinto soprattutto i vertici della Santa Sede a una profonda revisione della propria strategia.

Ma anche il cammino che il concilio suggellerà non sarà affatto facile o indolore per la Chiesa. Ciò che ci viene restituito dalla documentazione relativa agli anni 1945-65 è la certezza che, ancora all’inizio degli anni Sessanta, non solo i missionari, ma anche molti vescovi continuavano a muoversi lungo prospettive piuttosto tradizionali, fatte di appelli alla dottrina sociale cristiana e di scarsa attenzione per il rilievo del rapporto Chiesa-culture. Il maggiore interesse per quest’ultimo tema, non a caso, veniva generalmente espresso da vescovi considerati conservatori, animati non tanto dal desiderio di imprimere una svolta alla teologia e alla prassi cattoliche in ambito missionario, quanto piuttosto dall’angoscia per i problemi sollevati dal mondo moderno, che ai loro occhi sembravano gravissimi e che il concilio avrebbe dovuto tentare di risolvere, spazzando via incertezze e paure.

È noto che la costituzione pastorale Gaudium et spes, del dicembre 1965, offrirà una nuova definizione del concetto di cultura (che si sforzerà di recepire i principali risultati conseguiti nel settore dalla ricerca antropologica, facendo esplicito cenno alla “pluralità” delle culture); che il decreto Ad gentes sull’attività missionaria della Chiesa, del dicembre 1965, identificherà tutta la Chiesa – e non solo quella occidentale – come missionaria e come frutto ed espressione delle varie culture; che, da quel momento, saranno soprattutto i movimenti laici, nati dopo l’enciclica Populorum progessio del 1967 e sollecitati anche dalla contestazione del Sessantotto, a dimostrare un vivo spirito di rinnovamento, sforzandosi di sovrapporre a pure esigenze religiose anche delle innovative tendenze di carattere politico, umanitario, culturale, volte a superare i meccanismi di spoliazione ai danni dei paesi del Terzo mondo; che la stessa Santa Sede non resterà a guardare, visto che, accanto alla crescente internazionalizzazione della curia romana, con la Costituzione Regimini Ecclesiae Universae, del 15 agosto 1967, disporrà un’ampia riorganizzazione dei dicasteri secondo le direttive del concilio.

Verrà anche realizzata la trasformazione della congregazione di Propaganda Fide in congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, a cui verrà affidato sia il coordinamento dell’opera missionaria nel suo complesso sia la gestione della cooperazione e dell’aiuto attraverso l’«uso dei metodi scientifici» e di mezzi adeguati ai tempi (frutto delle nuove ricerche nel campo della teologia e della pastorale missionaria).

Il Vaticano II rilancia

Tuttavia, se si guarda alle discussioni sollevate a cavallo del concilio e dopo la sua conclusione, a emergere è ancora una volta il disorientamento di molti missionari. Una domanda, in particolare, sembra rimanere sullo sfondo, senza incontrare risposte pienamente soddisfacenti e rassicuranti. Nel momento in cui la Chiesa si sforza di “decolonizzare la missione” e sembra farsi strada il principio secondo cui a ogni popolo è dato di “salvarsi” attraverso la sua cultura e la sua religione, vengono di fatto create le condizioni per porre le missioni sull’orlo dell’abisso? Accettare «il pluralismo delle culture» – scrive alla vigilia del Concilio il direttore di Nigrizia, Enrico Bartolucci – significa «accettare un pluralismo religioso inteso nel senso di ritenere tutte ugualmente valide le religioni, e rinunciare quindi a propagandare la fede cristiana»?

Dal punto di vista teologico, il concilio risponderà efficacemente a molti rilevanti interrogativi. E lo farà con una formulazione apparentemente netta. Il decreto Ad gentes preciserà, ad esempio, che la Chiesa è missionaria per definizione, derivando la propria origine dalla missione del Figlio e dello Spirito Santo, realizzatasi per desiderio del Padre. Esso ribadirà cioè che quello missionario è un carattere iscritto nell’ontologia ecclesiale. La certezza che il Padre desideri salvare tutti gli uomini – e desideri farlo non individualmente, ma attraverso i popoli di cui sono parte – non solo continua a incoraggiare, ma anche a imporre alla Chiesa l’azione missionaria.

Dopo avere avviato un profondo ripensamento della cornice culturale attorno a cui la missione è stata sino ad allora proposta, il concilio delegherà inoltre alle nuove missioni il compito di edificare delle Chiese locali – intese come «mezzi ordinari di salvezza» – in ogni contesto territoriale e culturale.

A ben vedere, le nuove linee guida proposte dal concilio non sembrano tuttavia riuscire a fornire una risposta pienamente convincente a un dubbio di fondo: ma ha ancora un senso chiamare missioni queste nuove forme di evangelizzazione?

Mauro Forno
DOSSIER NIGRIZIA GIUGNO 2018

Mauro Forno è professore associato in Storia contemporanea Dipartimento di Studi Storici – Università di Torino. E’ autore del libro “La cultura degli altri. Il mondo delle missioni e la decolonizzazione”.

Nella foto: 1906, alcuni missionari appena sbarcati dal vascello Redemptor.
A prua, in alto, monsignor Franz Xavier Geyer (Archivio Nigrizia).

La rivoluzione copernicana della missione (2)
PRIGIONIERI DELLA “MISSIONE EROICA”
di Mauro Forno

Due encicliche di Pio XII sanciscono uno sguardo più attento alla cultura e alla fede dei popoli, e ridefiniscono il ruolo delle missioni e del clero locale. Ma molti missionari faticano a identificarsi con il nuovo corso: tirano dritto e difendono la loro visione del mondo e dell’evangelizzazione.

Negli anni successivi al 1945, con la presa d’atto dell’ormai prossima nascita di un nuovo ordine internazionale al quale sarebbe stato necessario adeguarsi, la Santa Sede decide di imprimere una decisa accelerazione alle trasformazioni che ha già iniziato a promuovere nei decenni precedenti. Una di queste si lega alla promozione del clero locale, necessaria per il passaggio dalle missioni – fino ad allora sottoposte alla Sacra congregazione di Propaganda fide – a una serie di nuove Chiese,direttamente dipendenti dalla Segreteria di stato.

La logica, politica e pastorale, è chiara: le Chiese locali, guidate da vescovi e sacerdoti indigeni, incontreranno meno problemi a rapportarsi con i nuovi governi postcoloniali, con i quali è necessario istaurare un dialogo. Ciò soprattutto se si vogliono conservare le tante strutture essenziali per garantire un futuro alla Chiesa, a partire da ospedali, scuole e centri di formazione, attraverso cui si potrà e dovrà formare la classe dirigente dei futuri stati indipendenti.

I passaggi decisivi per la trasformazione delle missioni in giovani Chiese vengono ufficialmente sanciti da papa Pio XII attraverso due fondamentali documenti: la lettera enciclica Evangelii praecones del 1951 e la lettera enciclica Fidei donum del 1957, entrambe tese ad affermare una nuova attenzione della Chiesa per le culture, le tradizioni, i costumi e la fede degli altri. La Fidei donum sancisce non a caso il principio secondo cui non solo l’episcopato occidentale, ma tutti i vescovi del pianeta, in forza della loro appartenenza al collegio episcopale, devono ritenersi pienamente corresponsabili dell’azione missionaria. Le missioni non dovranno più essere solo delle strutture incaricate di “offrire”, ma dovranno diventare anche dei soggetti disponibili a “ricevere” e a “imparare”. Lo scambio tra il centro e la periferia dovrà essere vissuto come un fenomeno “globale” e non come un compito da delegare a piccole minoranze di volonterosi, provenienti dal nord del pianeta. (…)

Nella foto: (1929), Il Cairo, Egitto.
Due missionari seguono una lezione di arabo (Archivio Nigrizia).

LA NUOVA AFRICA TROVA VOCE IN ITALIA
di Mauro Forno

Con l’editoriale del gennaio 1958 si chiude l’epoca della propaganda e il mensile comboniano prende con decisione la strada dell’informazione. Non senza tensioni all’interno della congregazione. Decisiva la direzione di Enrico Bartolucci che ha guidato la rivista dal 1952 al 1962.

La stampa missionaria rappresenta una cartina di tornasole davvero preziosa per comprendere la mentalità ancora ampiamente diffusa nel mondo missionario nel periodo considerato. A colpire è soprattutto la sua spiccata impostazione paternalistica, tesa a impressionare e coinvolgere i lettori, a commuoverli, a toccarli nel profondo.

I lettori europei non vogliono informarsi «ma divertirsi», scrivono nel 1956, nella loro riflessione sulla stampa missionaria Propagande et vérité pubblicata in Des prêtres noirs s’interrogent, due sacerdoti africani come Robert Dosseh (originario del Togo, futuro arcivescovo di Lomé) e Robert Sastre (originario del Benin, futuro vescovo di Lokossa).

Per loro, le riviste missionarie sono scritte essenzialmente per far vivere ai propri lettori occidentali i momenti salienti – veri o presunti – dell’esistenza pittoresca di una strana «fauna esotica», verso cui provano al tempo stesso ribrezzo e compassione. Esse fanno per questo molto male «a tutto un popolo e alla stessa opera missionaria», perché tendono a ridurre i problemi degli indigeni a dei problemi di bambini, a degli ineluttabili accidenti, che solo i «tutori» (i missionari) o la «commissione di tutela» (il mondo cristiano europeo) sono in grado di risolvere.

All’interno di questo orizzonte, Nigrizia è una delle poche riviste che, specie a partire dagli anni Cinquanta, dimostra la volontà di avviare una riflessione autocritica sul proprio passato, cercando anche di dare conto degli sviluppi dei movimenti di indipendenza in molte colonie e dei tentativi di adattamento del cristianesimo alle varie culture (dei cammini di inculturazione della fede, per fare riferimento al neologismo coniato nel 1956 dal missionologo Pierre Charles).

Già prima dell’inizio del pontificato giovanneo, in un editoriale pubblicato nel gennaio 1958, Nigrizia scrive: «A scanso d’equivoci diciamo subito: all’Africa nuova occorre una voce nuova. Siamo orgogliosi del nostro passato, ma appunto per questo vogliamo essere degni del nostro presente. Molte cose sono oggi cambiate per quella Nigrizia che la direzione della rivista nel suo articolo programmatico del gennaio 1883 definiva “la misera schiava dell’inferno e degli uomini”. È un linguaggio questo che oggi suona falso. E nonostante la venerazione che noi abbiamo per la nostra vecchia e gloriosa rivista, non vogliamo ostinarci in una anacronistica aderenza ad una formula superata. […] Siamo fermamente convinti che i neri senza i bianchi non potranno far molto, ma i bianchi senza i neri non potranno far niente per costruire l’Africa di domani. […] Noi vogliamo che in Africa sorga una civiltà cristiana, ma nera, non bianca».

Nel numero di maggio 1958, il mensile pubblicherà una interessantissima analisi – Abbiamo riso troppo degli stregoni – firmata dal futuro vescovo e vicario apostolico di Esmeraldas (Ecuador) Enrico Bartolucci, molto lucida nei contenuti e anche piuttosto stridente con i messaggi…

Nella foto: 1920, Arua, Uganda. Padre Antonio Vignato e padre Giuseppe Zambonardi
davanti alla sede della missione comboniana (Archivio Nigrizia).

LETTERA DEL COMBONIANO PIETRO TIBONI: 
«DOBBIAMO ESSERE UNA COMUNITÀ APERTA»
di Pietro Tiboni

Nato a Tiarno di Sopra (Trento) nel 1925 e morto a Lacor-Gulu (Uganda) nel 2017, padre Tiboni indirizza questa lettera probabilmente a Franco Pellegrini, che allora si preparava a diventare prete comboniano.

Kitgum, 30.1.71. Caro Franz,
[…] passo ora a descrivere alcune difficoltà in cui la nostra opera missionaria è presentemente involta. La prima è la distanza e direi l’abisso che esiste tra noi missionari e gli acholi. Tale separazione ha delle cause in noi e negli acholi (etnia ugandese, ndr) stessi. Tu sai che come preti noi siamo molto clericali, che come religiosi siamo comunità chiuse pronte a dire e fare molto bene per gli altri, ma incapaci di comunione fraterna con gli altri. A questo aggiungi che siamo stranieri di razza diversa e di cultura diversa con possibilità tecniche e finanziarie.

Assommando tutto ciò potrai capire come la Chiesa si presenta come qualcosa di verticale, capace di offrire molti servizi apprezzatissimi dagli acholi, rispettabile ed ammirabile. La missione nostra è una rocca da cui discende luce e servizio per i poveri, ma da cui non si può avere comunicazione di vita. […] Noi possiamo istruire, aiutare, guarire… ma abbiamo un’incapacità congenita di formare dei discepoli con cui condividere la vita come Cristo ha fatto con gli apostoli e gli apostoli con i loro discepoli, e anche i monaci missionari del Medioevo.

I tentativi sporadici fatti in tal senso vanno a cozzare contro difficoltà insormontabili. Esse derivano dalla nostra salute, non si resiste a una vita pari a quella della gente locale; dalla mentalità così profondamente diversa, da una struttura psicologica nostra e loro che dà origine spontaneamente a un processo di rigetto. Però mi pare chiaro che la deficienza non è solo da parte degli africani ma anche nostra, per cui anche riconoscendo l’impossibilità di realizzare le cose in modo soddisfacente non è né dovremmo dedurre un giudizio razzista, attribuendo tutta la deficienza agli altri; ma dovremmo riconoscere la nostra debolezza, fisica, morale e spirituale.

Evidentemente noi missionari reagiamo all’accusa di razzismo, neocolonialismo, clericalismo e simili nella maniera più emotiva possibile; come degli innocenti che si sentono colpiti a tradimento da quelli che hanno beneficiato (per esempio, il clero indigeno) o da altri estranei, che, venendo in Africa per poco tempo, pretendono di sputare giudizi e sentenze su uomini che hanno speso tutta la loro vita e i loro sacrifici per la missione.

Ed è certamente vero: i sacrifici dei missionari, i servizi da loro resi alla popolazione sono veramente eccezionali e superiori a qualsiasi elogio. Ma resta vero anche il resto: l’incapacità di fondare la Chiesa, la quale potrà sorgere solo con la nostra scomparsa o con un nostro molto doloroso mutamento.

Da parte degli acholi mi dà l’impressione che esiste un razzismo ancor più radicale. Essi sono pronti a ricevere e anche a…

Nella foto: 1958, Teregi, Uganda.
Padre Antonio Spugnardi incontra un allevatore (Archivio Nigrizia).

PIÙ GIOIOSA, DIALOGICA E COSMICA.
ECCO LA MISSIONE NUOVA
di Francesco Pierli, comboniano

Un testimone privilegiato dei mutamenti del modello missionario, in seguito al collasso del colonialismo, ci dice che Gesù è cosmico prima che storico e dommatico. E delinea i percorsi di diffusione del messaggio cristiano.

Ho accettato con gioia di scrivere queste righe nel contesto del dossier di Mauro Forno. I comboniani menzionati – Rizzi, Dal Maistro, Mason, Barbisotti, Bartolucci, Tiboni – sono confratelli con i quali ho interagito, collaborato, discusso e a volte anche… litigato sui lineamenti teologici e metodologici della nuova missione emergente dopo la fine del colonialismo e il concilio Vaticano II.

Profonde trasformazioni sono state imposte non da capricci teologici ma da una storia politica, sociale, culturale, economica e religiosa in totale evoluzione. Giovanni XXIII aveva salutato la fine del colonialismo come «un segno dei tempi» (Pacem in terris, 38). Evento positivo, pregnante di regno di Dio da accogliere con speranza, a cui adeguarsi liberandosi da tutto ciò che poteva essere considerato frutto e reliquie di un tempo irreversibilmente passato.

Tanti missionari, anche alcuni di quelli menzionati sopra, fecero una enorme fatica ad aprirsi alla visione di papa Roncalli. La paura che la missione fosse travolta dal collasso del colonialismo era molto più diffusa di quanto non si pensi.

La primavera del Vaticano II

Il concilio aveva aperto le finestre – secondo Giovanni XXIII – a una nuova primavera e a una ventata di aria fresca. Io sono figlio di tale ondata di novità! L’apertura al futuro fa parte della mia identità cristiana e missionaria oltre che essere costitutiva del documento carismatico di Daniele Comboni: il Piano per la rigenerazione dell’Africa. Qui a Nairobi, nel contesto universitario (Università cattolica) nel quale lavoro dal 1992, sto elaborando e accompagnando un programma di dottorato sulla trasformazione sociale. Programma che sta avendo un impatto sociale ed ecclesiale più profondo e duraturo di quanto ci saremmo augurati all’inizio di questo percorso.

La mia formazione teologica a Roma si svolse durante gli anni del concilio. Su di me ebbero più impatto le discussioni dei padri conciliari in San Pietro – seguite attraverso bollettini e giornali e le conferenze serali organizzate da Vagaggini, Rahner, Congar, Flick, Neunhueser, De Lubac, Cullmann – che i libri di testo e le classi a cui attendevo la mattina.

Ero accorso in piazza San Pietro quella mattina dell’11 ottobre 1962, ad ascoltare il discorso di apertura del concilio di Giovanni XXIII, traboccante di speranza: Gaudet Mater Ecclesia, che invitava a esultare e a gioire perché tempi nuovi albeggiavano all’orizzonte. Annunciò che non ci sarebbe stata nessuna scomunica (anathema sit), prassi di tutti i precedenti 20 concili ecumenici per chi dissentisse dagli insegnamenti conciliari, sia dottrinali che giuridici.

Il futuro della Chiesa sarebbe dipeso dalla bellezza e dal fascino del messaggio cristiano e non dalla paura di sanzioni canoniche. Giovanni XXIII si dichiarava chiaramente in disaccordo con i “profeti di sventura” che temevano una imminente fine del mondo. La parola gioia caratterizza sia il Vaticano II che la testimonianza di papa Francesco nei nostri tempi: due papi simbolo della missione nuova! Ambedue non si identificano con la Chiesa del presente come struttura dottrinale e canonica ingessata con una liturgia romana scritta in latino da pochi esperti e poi tradotta nelle molte lingue del mondo di oggi e con una teologia greco-latina come l’ultima e definitiva espressione della fede. Due papi veramente escatologici, aperti cioè al futuro di Dio che non è mai una ripetizione di ieri e sacralizzazione del passato.

Alla primavera ecclesiale e civile e alla novità missionaria contribuiscono anche le donne, la cui presenza sia nel mondo ministeriale, missionario, politico ed economico sta crescendo esponenzialmente. Anche tale nuovo fenomeno è salutato da Giovanni XXIII come “segno dei tempi”, quindi evento carico del futuro del regno di Dio.

La scienza e la missione

Un mondo che la scienza ci dice iniziato dal big-bang (l’esplosione primordiale che ha formato l’universo) è radicalmente diverso da quello a cui eravamo abituati, fondato cioè su una concezione statica della creazione, secondo cui Dio, fin dall’inizio, aveva creato tutto nei dettagli, dalla formica, per così dire, all’uomo, secondo la lettera dei primi 11 capitoli della Genesi. La scienza ci sta aiutando a scoprire un nuovo Dio! Per conoscerlo non basta la rivelazione di Gesù. È necessaria la rivelazione del..

Leggi articoli e l’intero dossier sulla rivista NIGRIZIA 
LA RIVOLUZIONE COPERNICANA DELLA MISSIONE
DOSSIER NIGRIZIA GIUGNO 2018