La Regola di Vita, la Vergine Maria e la professione dei consigli evangelici

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Lunedì 30 luglio 2018
La Regola di Vita ci propone la Vergine Maria come Colei che incarna l’ideale di vita vissuta mediante la professione dei consigli evangelici. Fissando lo sguardo sulla Vergine Maria verifichiamo che la sua vita è come lo specchio della vita di Gesù. Ella abbracciò la vita che suo Figlio scelse per sé: vita in verginità, in povertà, in obbedienza. Nella speranza che possano essere utili a qualcuno nel cammino di rivisitazione della Regola di Vita, P. Carmelo Casile ci propone alcune riflessioni sul tema “La Vergine Maria, modello della nostra risposta personale a Dio mediante la professione dei consigli evangelici”. [Vedi testo in allegato]

LA VERGINE MARIA
MODELLO DELLA NOSTRA RISPOSTA PERSONALE A DIO
MEDIANTE LA PROFESSIONE DEI CONSIGLI EVANGELICI

RdV 24: Esempio di Maria
“Nel vivere la consacrazione il comboniano riconosce Maria come modello e si affida con fiducia a lei che, altamente favorita dal Signore, è il tipo della Chiesa nel suo cammino verso la perfezione del Regno. È lei l’ancella del Signore che nella fede ripete incessantemente la propria disponibilità; è la vergine che porta Cristo al mondo; “primeggia tra gli umili e i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da Lui la salvezza”. (RdV, 24)

La Regola di Vita ci propone la Vergine Maria come Colei che incarna l’ideale di vita vissuta mediante la professione di Consigli Evangeli. È lo stesso Concilio Vat. II che lo afferma, quando ci dice: « I consigli evangelici (…)  sono capaci di assicurare al cristiano una conformità più grande col genere di vita verginale e povera che Cristo Signore si scelse per sé e che la vergine Madre sua abbracciò» (LG 46b).

Fissando lo sguardo sulla Vergine Maria verifichiamo che la sua vita è come lo specchio della vita di Gesù. Ella abbracciò la vita che suo Figlio scelse per sé: vita in verginità, in povertà, in obbedienza.

Per questo la Regola di Vita propone ai Missionari Comboniani di vivere la loro consacrazione prendendo come modello Maria e confidando in Lei.

I
LA VERGINITÀ DI MARIA DI NAZARET

Maria di Nazareth, nel film-tv di Raiuno.

1.1 Verginità o povertà feconda

La verginità di Maria è un dato della fede storica della comunità cristiana, contenuto nel Credo, dove professiamo l’azione creatrice dello Spirito Santo all’inizio del mondo (cfr. Gn 1-2). La verginità diviene in Maria il sigillo che ratifica la sua appartenenza alla nuova creazione, alla Nuova Genesi (cfr. Mt 1,1-18), nella quale le relazioni interpersonali e le situazioni degli uomini saranno rivoluzionarie, messe a soqquadro, giacché lì: «L'arco dei forti s'è spezzato, ma i deboli si sono rivestiti di vigore. I sazi si sono venduti per un pane, hanno smesso di farlo gli affamati. La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita» (1Sam 2,4-5).

Maria veniva così inclusa, in modo preminente, tra coloro a cui si riferisce Gesù, quando afferma: «… ci sono altri ancora che si sono resi eunuchi per il regno dei cieli» (Mt 19, 12).

La Chiesa, accettando la concezione verginale di Cristo come un fatto storico, non fa altro che accogliere la testimonianza evangelica, credere nella Parola di Dio, inserita in una tradizione di fede ininterrotta lungo i secoli, che manifesta la volontà di Dio, che volle Maria vergine.

Alla luce del Vangelo e della Tradizione vediamo in Maria la Vergine e la Madre. La vergine che si consegna totalmente a Dio e per questo il Signore realizza in lei “grandi cose”.

La verginità di Maria significa che Dio sceglie i mezzi poveri per salvare gli uomini. La verginità di Maria deve situarsi nell’ orizzonte della povertà evangelica: Gesù rinuncia al potere, al denaro, al matrimonio, alla sua stessa vita!

Dio salva non utilizzando ciò che è robusto, forte, intelligente, glorioso in questo mondo, ma servendosi di ciò che è sterilità e debolezza, ignoranza e follia agli occhi di questo mondo (cfr. 1Cor 1,17-25).

La verginità di Maria, dice Max Thurian, è un triplice segno:

  • Segno di consacrazione al servizio esclusivo di Dio;
  • segno di povertà che esige la pienezza di Dio;
  • segno della novità del Regno che viene a trasformare la legge della Creazione.

Joseph Aubry, uno dei teologi più competenti della Teologia postconciliare della Vita Religiosa, vede nella verginità di Maria un itinerario pieno di significato, un itinerario tipico, che illumina una volta per tutte il significato e le dimensioni della verginità cristiana:

  • Nasce dal movimento stesso della fede, nella povertà della carne e nell’umiltà del cuore, come espressione dell’assoluto abbandono in Dio e di sottomissione alla sua Parola.
  • Si sviluppa per mezzo della carità: sotto l’azione dello Spirito Santo incontra Gesù e si polarizza totalmente su di Lui.
  • Una volta in Gesù Salvatore, si apre a tutti i fratelli e si mette a servizio della loro rigenerazione.
  • Tende al suo fine per mezzo della speranza: vigila nell’attesa della venuta di Gesù risorto per partecipare della sua gloria e vivere con Lui in pienezza.

Si scoprono qui le quattro dimensioni maggiori della verginità: carismatica, cristica, apostolica ed escatologica.

La Scrittura e la Tradizione vede questo mistero mariano applicato e partecipato in primo luogo dalla Chiesa: come Maria la Chiesa è Vergine, Vergine Madre, Vergine Madre Sposa feconda, Vergine Madre Sposa che tende verso la gloria (cfr LG 63-64; 68).

I chiamati a vivere la verginità cristiana si riferiscono, dunque, a Maria attraverso la stessa esperienza della Chiesa della quale sono membri.

1.2 La nostra risposta personale a Dio mediante il voto di castità

Maria non fu vergine per rimanere sola, come una eccellenza che tutti debbano ammirare. Fu vergine per inserirsi più profondamente tra i poveri del Regno. La sua verginità è solidarietà, amore, dono di sé, ricerca dell’altro, non per l’istinto dell’eros, ma per la abnegata disponibilità dell’ ”agape”.

La verginità ci decentra per centraci in Dio. Maria fa della sua verginità un’intercessione incessante in favore degli uomini; allo stesso tempo è compassionevole, solidale, e soffre tutto con gli uomini.

“L’esempio di questa verginità ci fissa lì dove si libra il combattimento escatologico per il mondo nuovo: una spada trapassa la sua anima (Lc 2,35), perché sente in se stessa la lacerazione del suo  popolo, la divisione della comunità umana, il disamore che disgrega le famiglie, i popoli. Essere vergine è lottare permanentemente perché venga la grazia sulle opere dell’autosufficienza”.

L’esempio di Maria ci stimola a vivere la castità oltre che nella sua dimensione di segno di amore a Dio, come impegno per la giustizia, l’amore fraterno e la pace.

1.2.1 Il voto di castità richiede carità e umiltà

È nella carità che si realizza la verginità. L’umiltà di chi si abbandona totalmente a Dio non può esistere senza una esplosione di carità attiva.

Quando siamo sinceramente umili, siamo sempre pronti ad amare, ad abbandonarci interamente alla volontà di Dio. È ciò che fece Maria nella Visitazione, “andò in fretta” (Lc 1,39) all’incontro di Elisabetta, che aveva bisogno del suo aiuto, ma anche per farsi aiutare dopo che l’Angelo “si allontanò da lei “(Lc 1,38).

La nostra risposta personale a Dio, oggi, deve essere come quella di Maria: di consacrazione al servizio di Dio e degli uomini per amore del Regno di Dio.

Deve essere vita di povertà che non è negazione dei beni di questo mondo, ma opzione per i poveri e gli umili; amore e dedizione per gli abbandonati e disprezzati; liberazione dalle ricchezze e dalle oppressioni.

Maria nel suo amore, nella sua carità, ci ha dato Gesù, nostro Salvatore, e continua a darlo agli uomini attraverso la nostra donazione all’amore, a Dio.

Gli effetti della Grazia del Signore nel Cuore della Vergine Maria sono un ardente amore di Dio e del prossimo e una profonda umiltà. Tali effetti devono esistere anche nel cuore di tutti coloro che si donano a Dio con il voto di castità.

Dio resiste agli orgogliosi e dà la sua grazia agli umili. L’umiltà sta nel fondamento di ogni vita spirituale. Senza umiltà e carità vere è impossibile che esista un’autentica verginità.

1.2.2 La nostra risposta a Dio, oggi, richiede disponibilità e rinuncia

L’umiltà sta all’origine delle grandi imprese; è la condizione dell’audacia, che la fiducia in Dio dà agli uomini. Un cuore umile è un cuore libero e perché libero è disponibile per servire il Signore ovunque egli voglia.

Come tutte le virtù, la disponibilità esige vita interiore, semplicità, coraggio, verità e fede. Non è per niente facile essere disponibile, mettersi a disposizione dei superiori o della comunità. Un cuore attaccato a qualsiasi cosa, non può essere disponibile, non è facile toccarlo.

Una vita di autentica verginità ci porta a una grande disponibilità. E possiamo dire che la disponibilità richiede una grande capacità di rinuncia.

«La verginità religiosa, come quella di Maria, è povertà, carità, rinuncia volontaria; partecipa della suprema povertà che è la Croce. È sequela di Gesù crocifisso. In quanto tale, è trasparente all’attuazione gratuita e misteriosa di Dio, perché “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”(1Cor 1,25)».

È rinuncia e croce, ma anche gioia e pace. Possiamo essere disprezzati e diffamati, incompresi e rifiutati, ma il Signore è con noi, Egli è la nostra forza e la ragion d’essere della nostra vita di persone caste.

Gesù ci dice; «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24). “La verginità partecipa al mistero della croce (Lc 14,26); è una delle forme di abnegazione più crocifiggenti, uno dei modi più decisivi di assumere la morte di Cristo. È rinuncia ad ogni genere di gratificazione o sostegno, al desiderio di discendenza, di vedere come il proprio destino si prolunghi, o si ringiovanisce nei figli”.

Questa rinuncia che ci chiede Gesù e che si realizza in modo radicale nella castità, non è mutilazione della nostra personalità sessuata, ma liberazione ed espansione della nostra capacità di amare; è purificazione, è dono di sé, è un’opzione totale per il Signore Gesù e il suo Regno.

La rinuncia deve esistere a fianco della preghiera; sarà difficile la nostra testimonianza di vita in castità se prima e contemporaneamente non diamo la testimonianza della preghiera. La nostra risposta personale a Dio dobbiamo darla sostenuti da una solida vita di preghiera.

1.2.3 Pienezza e fecondità

La verginità consacrata è anche pienezza e fecondità, giacché Dio consacra e colma il nostro vuoto.

L’uomo non si stabilisce in questa situazione di verginità per sua autonoma decisione. È Gesù il suo autore e perfezionatore (Eb 12,2); essa infatti è un aspetto della nostra risposta di fede. Dio consacra e colma il nostro vuoto con una presenza feconda, che lo trasforma in dono, in carisma. 

Quando la fecondità umana ha raggiunto in noi la totale rinuncia, lo Spirito crea in noi un nuovo ordine di fecondità, che supera le aspirazioni, i successi e le limitazioni della natura umana. In noi la fecondità umana riconosce il suo limite e si ritira; occupa il suo posto la fecondità dello Spirito.

L’azione consacrante di Dio ci segna per sempre e ci fa appartenere al disprezzato gruppo degli eunuchi e sterili “per il Regno di Dio”, cioè, perché Dio sia, di modo tangibile e storicamente efficace, l’Emmanuele, il Dio-con-noi, e perché ci siamo sentiti “infiammati” dalla sua presenza.

Suscita così in noi atteggiamenti verginali di rifiuto dell’autoerotismo narcisista, di disponibilità evangelizzatrice, di sensibilità per captare le carenze e necessità degli altri.

Staccati da una famiglia, la nostra rinuncia è una possibilità di amore e di donazione totale di sé e per sempre a Dio e agli uomini. È un vuoto dove il Regno di Dio può dilatarsi senza impedimenti, giacché la verginità ci apre un vasto campo di amore fraterno.

La verginità così intesa non è concessa automaticamente con la Professione religiosa e l’emissione del voto. In questo momento è ecclesialmente significata, sacramentalizzata.

La verginità, infatti, è un progetto per tutta la vita, che specifica e determinata il nostro vissuto storico, evolutivo e imperfetto della fede. È progetto ed è processo di verginizzazione. Non è meta raggiunta, ma passione per raggiungerla. La verginità consacrata non si identifica con la nostra verginità al momento di professarla; la autentica verginità, infatti, non è in pienezza al principio, ma alla fine. È vocazione che si consuma nella morte e risurrezione.

Questa verginità è minacciata di profanazione, soprattutto quando chi la professa abbassa la tensione della sua fede, quando non è lo Spirito di Dio il suo ispiratore e sostegno; quando è divenuta secca, sterile, abitudinaria (formale); quando il cuore si allontana da Dio: quando ci attacchiamo a ciò che rinunciamo col nostro voto.

Lungo questo processo di verginizzazione, il religioso trova ispirazione e incoraggiamento, fissandosi nella figura di Maria, Vergine, che è anche Madre.

La verginità di Maria, infatti, fece brillare una nuova forma di essere persona umana, creò una nuova possibilità di amore, iniziò il modo di riproduzione di una nuova Umanità, di un nuovo Popolo di Dio, generato “non da sangue né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio” (Gv 1,13).

Colui che vive la verginità consacrata “ si renderà conto che l’opzione dello stato verginale da parte di Maria, che il disegno di Dio la disponeva al mistero dell’Incarnazione, non fu un atto di chiudersi al alcuni valori dello stato matrimoniale, ma fu una opzione coraggiosa, portata a termine per consacrarla totalmente all’amore di Dio; verificherà con gioiosa sorpresa che Maria di Nazaret, pur essendosi abbandonata alla volontà del Signore, fu qualcosa di diverso di una donna passivamente arrendevole o di una religiosità alienante, anzi fu una donna che non dubitò di proclamare che Dio è vindice degli umili e degli oppressi e rovescia dai loro troni i potenti del mondo (cfr. Lc 1, 51-53); riconoscerà in Maria che eccelle tra gli umili e i poveri del Signore (LG 55), una donna forte che conobbe la povertà e la sofferenza, la fuga e l’esilio (cfr. Mt 2,13-23); situazione tutte queste che non possono scappare all’attenzione di chi vuole assecondare con spirito evangelico le energie liberatrici dell’uomo e della società e non gli si presenterà Maria come una madre gelosamente ripiegata sul Figlio divino, ma come donna che con la sua azione favorì la fede in Cristo della comunità apostolica (cfr. Gv 2, 1-12; At 1,12-14).

Sappiamo che la verginità senza Dio, senza un Dio vivo e vero, è un assurdo umano. Solo Dio è capace di suscitare armonie immortali nel cuore solitario e silenzioso di una persona vergine. Un cuore consacrato a Dio nella verginità è un cuore libero: Dio è libertà.

Dio è il Mistero, la spiegazione della verginità: quanto più verginità più pienezza di Dio, più capacità di amare.

Maria, Vergine e ispiratrice della verginità, è fonte di amore, di fraternità, di innocenza, di disponibilità, in quelle donne e in quegli uomini che più si identificano con Lei.

II
LA POVERTÀ DI MARIA: AMORE DI IDENTITÀ CON I POVERI

Come Maria siamo chiamati ad una povertà che Dio rende consacrata. Tenendo presente ciò che la nostra Regola di Vita ci propone circa il voto di povertà (cfr. nn. 27-32; 60.1; 61.2; 162; 164.2) nella dimensione personale, alziamo lo sguardo verso la Vergine Maria e, alla luce del Vangelo e della fede, scopriremo e mediteremo sugli atteggiamenti interiori ed esteriori della povertà.

2.1 Maria, donna povera

Maria ci si presenta anzitutto come una donna povera. Il personaggio storico di Maria che intravediamo attraverso le narrazioni evangeliche, non appartiene a nessun gruppo privilegiato del suo tempo.

La filiazione davidica compete a Gesù per via di Giuseppe, come dimostrano Matteo e Luca, e non per la linea familiare di Maria; è probabile che Maria non apparteneva alla tribù della promessa davidica, la tribù di Giuda. Come le quattro donne – Tamar, Racab, Rut e Betsabea – Maria entra nella linea davidica per pura grazia di Dio.

D’altra parte Maria è nata nella povera, disprezzata e semipagana Galilea, da dove non può sorgere un profeta (Gv 7,52), e visse nell’insignificante villaggio di Nazaret, del quale si dice: “Da Nazaret può venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46).

Maria è donna del popolo, senza cultura speciale, senza occupazioni importanti, senza vanità, senza pretese ambiziose, che eccedano la sua condizione di donna.

Ella soltanto progettò, o forse meglio i suoi genitori, progettarono per lei, quando appena aveva tredici anni, il matrimonio con Giuseppe. E in più questo matrimonio non arrivò a compimento, così come era stato progettato.

Quando Maria dà alla luce il suo Figlio deve “avvolgerlo in fasce e porlo in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2,7); la mangiatoia, in contrapposizione con l’alloggio, si converte nel segno offerto ai pastori per riconoscere il Messia (Lc 2,12-16). Senza dubbio è una situazione di povertà, che rivela la condizione popolare dei genitori di Gesù.

Maria ha perso poco a poco ciò che aveva e più apprezzava. Il suo sposo Giuseppe morì probabilmente prima della vita pubblica di Gesù.

Madre di figlio unico, di colui che era tutta la sua vita e suo unico tesoro, Gesù, se lo vede strappare dalla ignominiosa morte di croce. Offrì quello che più amava e che dava significato alla sua vita.

La condizione di povertà di Maria si manifesta, inoltre, nella sua semplice condizione di “donna”. La donna, dice G. Flavio, “è, in tutti gli aspetti, di meno valore dell’uomo”.

La famiglia ebraica, infatti, era retta mediante il sistema patriarcale; il padre aveva sui figli che vivevano con lui, includendo anche gli sposati e le loro mogli, un’autorità assoluta, che all’inizio comprendeva la potestà di vita o di morte.

La famiglia comprendeva tutti gli uniti da vincoli di sangue, ma anche gli appartenenti alla comunità e i residenti nell’abitazione, ed in essa esisteva la figura del “Go’el”, che era il difensore e protettore del clan famigliare.

Al tempo di Gesù era in vigore la famiglia monogamica, nella quale eccezionalmente si permetteva la poligamia, che era, nel contempo, segno di ricchezza. Tuttavia era molto esteso il ripudio stabilito da Mosè.

Per comprendere la situazione sociale della donna al tempo di Gesù, bisogna distinguere la situazione della donna nella zona urbana e delle donne rurali e contadine.

Nella zona urbana: la donna non partecipava nella vita pubblica. La donna non sposata, specialmente quella giovane, rimaneva ordinariamente in casa. “Mercato, assemblee, tribunali, vita pubblica con le sue istituzioni e affari, tanto in pace come in guerra, sono fatti solo per uomini. Alle donne conviene stare in casa e ben ritirate. Le giovani devono permanere in camera molto appartata, mettendosi come limite le camere degli uomini. E le donne sposate, la porta dell’atrio come limite” (Filone). 

La preparazione delle ragazze si limitava all’apprendimento dei lavori domestici: tessere, cucire, fare il pane, preparare la cucina e accudire i fratelli piccoli. Ordinariamente non si insegnava loro né a leggere né a scrivere. Riguardo ai genitori, avevano gli stessi doveri dei figli maschi, cioè, alimentarli, dargli da bere, lavargli la faccia, le mani e i piedi e aiutarli nella loro anzianità.

La donna portava la faccia coperta, in modo che non si potevano conoscere i tratti del suo volto. La donna che usciva con la faccia scoperta, offendeva in tal modo i buoni costumi, che suo marito aveva il diritto di mandarla via, senza essere obbligato a pagarle la somma stipulata in caso di divorzio. Solo nel giorno del matrimonio, se la sposa era vergine e non vedova, appariva nel corteo con il volto scoperto.

Una volta che si sposava, il marito era per lei il padrone. Se questa donna usciva sulla strada non doveva parlare con nessuno, neppure con il proprio marito. Salutare in pubblico una donna o parlare in strada con lei, era un disonore per l’alunno di uno scriba. Anche se si trattava di sposati, le donne non sedevano a mensa assieme agli uomini, ma erano servite in piedi in silenzio.

Si deve aggiungere che la testimonianza della donna non aveva valore nel giudizio e che ordinariamente non giurava né a suo padre né a suo marito.

Per tutto questo un rabbino diceva: “Un uomo deve ringraziare Dio ogni giorno per non averlo fatto dona”.

Nell’ambiente rurale e contadino, le cose erano un poco diverse.  Le donne erano ammesse ad una maggiore convivenza con gli uomini. Il fatto di condividere il lavoro nel campo o di agire come venditrici dei prodotti fabbricati dagli uomini, permetteva loro di godere di una maggiore accettazione e partecipazione nella vita sociale e popolare (cfr. José Antonio de Sobrino, Así foi Jesús, pp. 421-423).

Nell’aspetto religioso, la donna non aveva accesso al Tempio e doveva rimanere nel cortile delle donne. Era equiparata allo schiavo nei suoi doveri religiosi e non era obbligata recitare al mattino e alla sera lo Shemà.

Maria fu donna di quel tempo, e perciò va collocata tra gli emarginati, tra i poveri reali ed effettivi.

2.2 Maria, povera di Jahavé

Nell’A.T. la povertà è considerata inizialmente in una prospettiva economica. È un male le cui cause sono la propria colpa (Pr 6,11; 24,30-34), i colpi della fortuna (1Re 17,1-16), e soprattutto la violenza dei ricchi e dei potenti. I profeti si distinguono nel denunciare questo tipo di povertà (Is 5,8; Ger 5,27; Am 5,11; Mi 2,11; 6,10ss.). Nei Salmi Jahavé è proclamato come difensore dei poveri: Sl 10,14; 17; 14,6; 68,6.

Dopo l’esilio, senza perdere la sua dimensione sociale, diviene un concetto religioso: viene  a significare qualcosa come umiltà, pietà. Nascono i “poveri di Jahavé”, che non avevano spirito di autosufficienza né erano opportunisti; per questo motivo erano disprezzati frequentemente dai potenti, dai ricchi e in particolare dalle autorità religiose. I “poveri di Jahavé” sono quelle persone che trasformarono la loro condizione di povertà effettiva in esperienza religiosa: in fiducia, in speranza, in preghiera, in abbandono in Dio. Il “povero di Jahavé” designa l’uomo dell’A.T. che, libero di tutti i beni terreni, si affida a Dio solo; designa l’uomo che assume l’atteggiamento di umile sottomissione, di fiducia, di abbandono e di ricerca di Dio in mezzo alle prove dell’oppressione, con la convinzione che Dio prende a suo carico la difesa del povero e di tutti gli oppressi.

Sappiamo, in effetti, che il popolo di Israele dell’epoca di Maria era un popolo oppresso, senza libertà, un popolo di poveri che sperava ansiosamente un Liberatore, la venuta di un Restauratore del Regno.

La figura evangelica di Maria si inquadra perfettamente in questo insieme: povertà-oppressione-ingiustizie e nello stesso tempo desiderio-speranza-fiducia nella venuta del Messia.

Ella, povera reale, si sente visitata da Dio; da questo momento la sua povertà reale diviene consacrata e trasformata in povertà evangelica ed evangelizzatrice.

Maria è annuncio della gioiosa notizia della venuta del Regno del Figlio di Dio nel mondo dei poveri, diviene simbolo della gratuità del dono e dell’amore di Dio agli uomini.

Il Magnificat è la prova di tutto questo. Luca ce lo presenta come la personificazione del resto di Israele, come il simbolo del popolo dei poveri. Maria rappresenta l’Israele povero, sottomesso, umile, che tutto spera dal potente intervento di Jahavé. Maria sa e confessa che ha Dio dalla sua parte. Non confida nelle sue forze né nel potere rivoluzionario o violento degli uomini; unicamente confida nel “braccio di Dio che interviene con forza”.

«Il Magnificat è lo specchio dell’anima di Maria. In questo poema raggiunge il suo punto culminante la spiritualità dei poveri di Jahavé. È il cantico che annuncia il nuovo Vangelo di Cristo, è il preludio del Discorso della Montagna. Maria ci si manifesta qui vuota di sé, ponendo tutta la sua fiducia nella misericordia del Padre. Nel Magnificat si manifesta come modello “per coloro che non accettano le avverse circostanze della vita personale sociale, né sono vittime della “alienazione”, come si dice oggi, ma proclamano con lei che Dio è “vendicatore degli umili” e, se ne è il caso,  “rovescia i potenti dal trono” » (Juan Pablo II, Homilía Zapopan, 4; Puebla 297).

E il Concilio Vat. II l’ha detto chiaramente: «Essa primeggia tra quegli umili e quei poveri del Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza» (LG 55).

2.3 Maria, solidale con i poveri

Maria fu solidale con i poveri. Ella, infatti, è nata povera, e la sua povertà fu consacrata dalla presenza di Dio, che la elesse come ella era; consacrazione che lei accettò con tutta la libertà del suo cuore. 

Maria fu solidale con i poveri passivamente, cioè per quello che patì. Maria patì con le donne della sua epoca, con gli abitanti della disprezzata Galilea, con gli Israeliti schiavi e colonizzati dai Romani. Maria fu solidale con tutte quelle donne che per motivi biologici o psicologici portavano su di sé l’umiliazione della loro sterilità e infecondità o della loro disprezzata verginità. Appartenne al gruppo sfruttato delle vedove di Israele.

Maria patì come tanti uomini e donne del nostro tempo; soffrì il dolore e l’umiliazione, l’oppressione e tutte le conseguenze della emigrazione; dovette sottomettersi al disaggio e all’insicurezza della vita dei poveri.

Fu in fine solidale con coloro che non comprendono l’agire di Dio e, tuttavia, sperano con fiducia (cfr. Lc 2,50; 2,19).

Maria fu anche attivamente solidale con i poveri.

Così ce la presenta il quarto Vangelo, Nell’episodio delle Nozze di Cana (Gv 2,1-11), nella frase “non hanno vino” è possibile captare la vicinanza di Maria alle necessità più gravi degli uomini. Nella scena si caratterizza l’agire di Maria davanti a Gesù in favore di tutti coloro che anelano un Salvatore e che si trovano in situazioni limite, di disperazione. Per mezzo della sua “presenza” presso la Croce di Gesù (Gv 19, 25), Maria si solidarizza attivamente con il Crocifisso e con i crocifissi, senza vergognarsi né impaurirsi.

Luca ci presenta Maria simpatizzando con i poveri e marginati pastori. Di essi si diffidava, perché a volte si dedicavano a rubare; neanche potevano essere testimoni in tribunale, come neppure i pubblicani. Ai pastori mancava ogni formazione religiosa che era l’unica che esisteva in Palestina; erano persone incolte, retrograde, poco pietose; entravano nella categoria dei “semplici” o “piccoli” (cfr. Mt 11,25). Questi arrivavano ad essere giudicati come “maledetti da Dio”: «Questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta da Dio» (Gv 7,49). ( cfr. J. Schmid, El Evangelio según Lucas).

Maria non si sente estranea ad essi, ma anzi scopre attraverso di essi il messaggio di Dio e “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19; cfr. Lc 2,8-20).

Maria mai è inserita in gruppi privilegiati, né con i Sacerdoti del Tempio, né con i principi, né con la gente potente. Le scene evangeliche la collocano tra il popolo semplice, tra i pastori, con i Maggi pagani, in mezzo a coloro che crocifiggono suo Figlio, nella comunità cristiana racchiusa nel cenacolo.

Questa solidarietà con i poveri non permette di considerare Maria come una donna rivoluzionaria nel senso corrente del termine. Certamente ella sperimentava una grande impazienza interiore, che la faceva reclamare la liberazione dei poveri ma, come donna credente, metteva tutta la sua fiducia in Dio e non confidava nell’uomo incapace di operare una liberazione totale (Ger 17,5-7.8). Non sarà l’uomo, ma sarà solo Dio che scompiglierà i piani degli arroganti, rovescia dal trono i potenti, esalta gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi. Maria non confida in un messianismo a misura d’uomo, né nella forza della rivoluzione, nella quale “il braccio potente di Dio non interviene”. Maria mostra una fiducia illimitata in ogni intervento di Dio, del Dio che in mezzo a noi, con noi instaura il suo Regno. Questo significa individuare, senza rimandare a un “più in là” tutte le aspettative, dove si trova “qui e ora” l’autentico potenziale rivoluzionario: i poveri in spirito, gli umiliati e gli impoveriti, che confidano ciecamente in Jahavé, l’esercito dei non-violenti, la comunità delle Beatitudini.

Il Magnificat di Maria ci premette un rilettura della storia non dal protagonismo dei potenti, ma dalla forza dei deboli, di coloro che sacramentalizzano il Regno di Dio.

2.4 La nostra risposta personale a Dio mediante il voto di povertà

La povertà di Maria deve essere esempio stimolante per la povertà che noi professiamo come missionari consacrati da e a Dio per la missione mediante la professione dei consigli evangelici.

2.4.1 La «scelta preferenziale per i poveri»

«Sono molti i poveri, Signore; sono legioni. / Il loro clamore è sordo, / crescente, impetuoso, / all'occasione minaccioso, / come una tempesta che si avvicina». (Ignacio Larrañaga).

Nel mondo in cui viviamo due terzi degli abitanti del pianeta vivono appena oltre le soglie della sopravvivenza materiale e spesso, drammaticamente, precipitano al di sotto di essa. Sono problemi ormai ben noti e sui quali da decenni si affannano economisti e sociologi, spesso tuttavia dimentichi delle fondamentali e ancora oggi valide indicazioni contenute nella Populorum progressio di Paolo VI (1967), soprattutto di due: che il problema del sottosviluppo è prima di tutto un problema di persone e non di beni; e che esiste un preciso dovere di coscienza dei popoli ricchi — quasi tutti di matrice cristiana — nei confronti dei popoli in via di sviluppo (indipendentemente dalla complessa questione se il sottosviluppo sia figlio del colonialismo e del neocolonialismo, e comunque dell’Occidente, o sia dovuto a cause endemiche).

Ma la « povertà-miseria » che degrada l'uomo, oggi si presenta in forme diverse e senza frontiere: povertà vecchie - « materiali » - e nuove - « immateriali » - dei Paesi ricchi e povertà endemiche dei Paesi poveri. Le strategie di intervento devono essere animate da una cultura della solidarietà e della condivisione. La comunità cristiana, per fedeltà alle linee recenti elaborate dalla Chiesa universale, - « scelta preferenziale per i poveri » e affermazione dell'intimo nesso tra «evangelizzazione» e «promozione umana» -, deve porsi al concreto servizio dell'uomo per la sua «liberazione integrale», assolvendo al duplice indissociabile compito di annuncio della fede e di liberazione dalla povertà (cfr. La povertà nel mondo di oggi, Aggiornamenti sociali, 4/1994).

Di fronte a questa situazione, la «scelta preferenziale per i poveri» affermata dal Concilio, dalla enciclica Sollicitudo rei socialis (n. 42), dalla Istruzione su libertà cristiana e liberazione (n. 68), e continuamente riaffermata da Papa Francesco, non può limitarsi a una semplice enunciazione verbale, è sollecitata a tradursi in concrete scelte di vita.

Il Concilio Vat. II, parlando della povertà consacrata nel numero 13 del Perfectae Ceritatis, subito all’inizio osserva che “la povertà volontariamente abbracciata per mettersi alla sequela di Cristo, è oggi è un segno molto apprezzato” (13a). E paolo VI nella Evangelica Testificatio riprende il pensiero del Concilio, affermando: «Su questo punto (la povertà), i nostri contemporanei vi interrogano con particolare insistenza» (17).

In continuità con questo magistero, Giovanni Paolo II, nella “Lettera ai Religiosi e Religiose dell’America Latina”[1], vede necessario sottolineare che «l’opzione preferenziale, non esclusiva né escludente, in favore dei poveri, è un’opzione particolarmente connaturale a tutti coloro che vivono il consiglio della povertà e che sono chiamati ad amare, accogliere e servire i poveri “con le viscere di Gesù Cristo”» (19).

Papa Francesco ci ricorda, in fine, che la professione di povertà delle persone consacrate è autentica, quando è “accompagnata da una eloquente e gioiosa testimonianza di vita semplice accanto ai poveri e da una missione che privilegi le periferie esistenziali[2]

Per tanto, in un mondo diviso e in continua tensione tra ricchi e poveri, tra “vecchie” e “nuove” povertà, tutti i battezzati e in particole coloro che professano il consiglio evangelico della povertà sono chiamati ad essere e ad esprimere il vero volto della Chiesa, che è consacrata prima di tutto al servizio dei poveri, i quali in genere sono anche non-evangelizzati o scarsamente evangelizzati, perciò “hanno bisogno della luce dell’Evangelo (cfr. EG 20; 14); sono chiamati a intraprendere, sotto l’impulso dello Spirito Santo, questo «esodo» spirituale, socioculturale e geografico dal centro alle “periferie” geografiche ed esistenziali.

A questo punto una cosa è chiara: nessuno può applicarsi con leggerezza il titolo di povero! I religiosi non possiamo ridurre la povertà ad una semplice attitudine di povertà personale e collettiva, come se fosse un valore in se stesso il passare a ingrossare il numero di coloro che formano questa umanità impoverita e sfruttata.

Il religioso di oggi, come Maria, non può contenere l’inquietudine, il malessere,  e perfino l’indignazione che un tale stato umano gli suscita a ”causa del Regno di Dio”. Il religioso non può disinteressarsi di queste problematiche, per cercare unicamente la propria liberazione interiore e dimostrare la sua capacità di vivere con l’indispensabile, per meritare poi più Paradiso. La povertà che lacera coloro che mancano di qualcosa che altri hanno accaparrato, è ingiustizia, effetto del peccato che è mancanza di amore, profanazione dei diritti sacrosanti dell’uomo, figlio di Dio. È un male che bisogna combattere, non una situazione che dobbiamo assimilare o imitare. La povertà professata dal religioso deve essere vissuta in funzione di questo combattimento.

La povertà evangelica nella situazione attuale del mondo è opzione per i poveri e non opzione per la povertà in astratto. Con ciò si vuol dire che la forma di vivere la povertà evangelica non è altra se non quella di optare per i poveri, fare di essi la nostra preoccupazione preferenziale, entrare nel loro mondo, condividere il loro obbrobrio per stabilire lì, con mezzi evangelici, il Regno di Dio. Questo è il luogo sociale che ci appartiene.

La nostra povertà effettiva e reale, secondo il carisma del nostro Istituto, deve esprimersi con il “far causa comune” con i poveri, in questa appartenenza al mondo dei poveri reali, dove non c’è potere violento, orgoglio dominatore, denaro oppressore; dove sì c’è dolore, pianto, grida laceranti, che reclamano una vita degna; dove forse c’è rabbia contenuta e disperazione di fronte all’impossibilità del cambiamento.

La Vergine Maria non andò a cercare artificiosamente la povertà, la sua situazione di donna povera fu una realtà nella quale si trovò senza averla cercata. Tuttavia, questa situazione fu “consacrata” da Dio, cioè fu scelta da Lui come strumento della sua presenza liberatrice da ogni tipo di povertà umana, soprattutto da quella povertà che produce gli “impoveriti”, quelli ai quali hanno strappato via qualcosa che è anche loro, perché la Provvidenza di Dio non funziona attraverso uomini e gruppi umani accaparratori ed egoisti; nello stesso tempo questa situazione di povertà fu assunta liberamente da Maria nella fede, perché si compisse in ella la volontà di Dio (cfr. Lc 1,38), perché “l’onnipotente facesse cose grandi per loro” (Cfr. Lc 1,49). In Maria la sua povertà reale si converte in povertà religiosa, in povertà per causa del Regno.

Analogamente la povertà del religioso deve essere quella situazione di povertà reale ed effettiva, che nasce dal suo incontro con il mondo dei poveri, che lo rende inquieto e ribelle di fronte alla loro povertà e che gli risveglia il desiderio di stabilire con questo mondo di “impoveriti” legami di comunione e condivisione. A questa povertà effettiva, solidale con i poveri, il religioso non arriva mediante calcoli umani, ma nasce in lui dal nucleo stesso della sua fede. Prendiamo coscienza che Dio rende “sacra” la nostra povertà, come quella di Maria, cioè, la assume come strumento della sua presenza liberatrice verso i suoi figli più indifesi e oppressi a causa dell’egoismo di coloro che si arricchiscono dimenticandosi dei loro fratelli.

Guardando l’umanità divisa da disuguaglianze ingiuste tra situazioni di povertà disumanizzante e di ricchezza alienante, il religioso prende coscienza che non si può seguire Gesù Cristo senza amare i poveri e dare i beni e la vita per loro (cfr. Mt 19,21). Quando tutta una vita si finalizza sui poveri riconosciuti come figli di Dio in Cristo e fratelli nostri, la vita si trasforma in amore, che identifica il discepolo di Gesù con i poveri e diviene impegno in favore della loro liberazione.

2.4.2 La povertà è un atteggiamento spirituale personale e comunitario di assoluto abbandono in Dio

La povertà di Maria è anche, e soprattutto, un atteggiamento di assoluto abbandono in Dio, in risposta alla chiamata di Dio, che si fissa nella condizione umile della sua schiava e che fa meraviglie in suo favore.

Così la nostra povertà religiosa è anche risposta al Dio che ci consacra e fa della nostra povertà strumento della sua presenza liberatrice.

La nostra povertà non si definisce unicamente dalla nostra solidarietà con il mondo dei poveri, ma da qualcosa di più decisivo: da un atteggiamento spirituale di povertà a livello personale e comunitario.

Entrare in questa dimensione della povertà evangelica significa vivere vuoti di noi stessi, distaccati dai beni materiali, non alienati né compromessi con i ricchi e potenti, e fiduciosi nell’azione potente, giusta e arricchente di Dio.

Questa dimensione della povertà è dono gratuito di Dio: è sentire Dio presente in se stesso. L’esperienza di questa presenza fa risaltare la nostra piccolezza, l’insignificanza di ogni essere umano; Dio diviene così l’unica e vera ricchezza da condividere con gli altri, l’unico necessario (Lc 10,42).

Così la povertà spirituale del religioso relativizza qualunque tipo di messianismo umano e si converte in critica di ogni forma di idolatria, sia rivoluzionaria, culturale o politica; la sua unica speranza è Dio, per questo mai teme la disfatta.

Tale esperienza di povertà prende vita in un clima di fede, in concomitanza con  una forte esperienza di Dio in Cristo, che non può essere artificialmente provocata, ma umilmente anelata, implorata e corrisposta.

2.4.3 La povertà è rinuncia alle ingiustizie e alle oppressioni

L’abbandono assoluto in Dio crea uno spazio spirituale di vuoto che è povertà radicale e che fa di noi, come avvenne in Maria, servi disponibili al servizio del Regno.

Una povertà così vissuta, è anche denuncia della mancanza di amore, di giustizia e libertà; dell’arroganza, della violazione dei diritti umani; dello sfruttamento e dell’arricchimento abusivo.

Il “Dio che rovescia i potenti dai troni ed esalta gli umili”, vuole continuare a parlare attraverso la nostra parola e la nostra vita personale e comunitaria.

La povertà che attanaglia milioni di essere umani, è un male che nasce da situazioni di peccato, del peccato dei potenti e di coloro che si arricchiscono a spese degli altri, degli individui e dei gruppi di egoisti e prepotenti che calpestano la dignità e i diritti umani. Il religioso, come Maria, non può contenere l’inquietudine, il disaggio e l’indignazione che tale stato disumano gli suscita, giacché è un attentato contro Dio, contro il suo Regno, contro la “carne di Cristo”, perché “se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri” (cfr. Messaggio per la Giornata Mondiale dei Poveri, 19 /11/2017).

La fedeltà al Dio dei poveri rende i religiosi personalmente e comunitariamente strumenti di Dio, per vanificare i piani dei superbi (cfr. Lc 1,51).

2.4.4 La povertà è segno, annuncio di gioia e di speranza

La nostra povertà ci porta ad essere, soprattutto, messaggeri della gioia e della speranza. Penetrati dallo Spirito di Gesù, obbediente e povero, a esempio dell’Apostolo che si fa tutti a tutti secondo il bisogno di ciascuno, siamo chiamati ad essere profeti del Nuovo Testamento, cioè delle Beatitudini; evangelizzatori del Regno di Giustizia, Pace e Amore. Con la nostra povertà e tra i poveri siamo chiamati a creare comunità nelle quali Dio regni; nelle quali esista un amore aperto e sincero; nelle quali il grido dei poveri sia ascoltato e non trascurato; nelle quali si dia testimonianza con chiarezza che la nostra ricchezza di religiosi è ciò che siamo (figli del Padre e fratelli di tutti) e non ciò che abbiamo. Comunità nelle quali, anche se non è possibile evitare il dolore, la sofferenza e la limitatezza, non manca la ricchezza di un cuore aperto a tutte le forme di miseria, a tutte le necessità, a tutte le mani vuote non solo di pane, ma anche di speranza e di coraggio.

L’esempio della povertà della Vergine Maria ci aiuta a vivere la nostra povertà “come opzione per gli oppressi; maniera di esprimere il valore sociale dei beni, protesta contro l’ingiustizia” (CLAR, Signos proféticos, 38[3]).

III
L’OBBEDIENZA DI MARIA,
CAMMINO DI LIBERTÀ E DISPONIBILITÀ

Papa Francesco a Fatima (Portogallo) il 12 maggio 2017.

3.1. L’obbedienza di Maria alla luce del Vangelo e del Concilio Vat. II

3.1.1 Alla luce del Vangelo

L’Annunciazione ci rivela uno dei momenti più forti, il momento fondante, del cammino di obbedienza di Maria.

A Dio che le parla mediante il suo messaggero, Maria risponde in un atteggiamento di fede e umiltà: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,28).

Questo “Sì” di Maria contiene tre aspetti della sua donazione a Dio, che esprimono la totalità della vita: verginità, povertà e obbedienza.

Sollecitata da Dio, Maria pronuncia liberamente la più completa formula di consacrazione: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (Lc 1,38).

Così la vita di Maria diviene un camminare segnato dall’obbedienza alla volontà di Dio. Dichiarandosi la serva del Signore, professa il suo totale abbandono alla volontà di Dio: “«Avvenga di me quello che hai detto»”. In questa espressione c'è una piena consonanza con le parole del Figlio, che secondo la Lettera agli Ebrei, entrando nel mondo, dice al Padre: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Ecco, io vengo... per fare, o Dio, la tua volontà: Eb 10,5-7» (cfr. Redemptoris Mater => RM 13). L’Ecce ancilla di Maria si incrocia così con l’Ecce venio del Verbo e la unisce a Lui indissolubilmente fino ai piedi della Croce, facendo di Lei la sua prima discepola.

Maria, la Vergine fedele, la troviamo, infatti, lì, ritta, fissa, ai piedi della Croce con una misura enorme di dolore, totalmente avvolta nel manto del suo silenzio, immersa nel Mistero che si sta compiendo in quel suo Figlio crocifisso, saldamente radicata nel suo “Sì”, quello che ha pronunciato nel momento dell’annuncio dell’Angelo a Nazaret e che ora si unisce all’ “È compiuto” del Figlio Gesù.

Maria ai piedi della Croce è fissa nella fede nella Parola di cui è divenuta discepola, di cui ha cercato di compiere la volontà. L'apparente sconfitta dell'opera del Figlio, l'apparente prova che quanto egli aveva proposto non porta alla vita ma alla morte, l'apparente evidenza che le sue parole erano solo illusione, non fa indietreggiare la Madre.

Resta fedele alla parola data, resta nel suo «Sì», e permette che in lei si compia la Sua parola (cfr. Lc 1,38). Resta Serva del progetto di Dio.

La Madre di Gesù, infatti, non indietreggia nel dolore e nel disonore. Resta salda e fiduciosa. La Madre del Signore è presente e tiene viva la fede anche nel giorno del silenzio della tomba chiusa. Custodisce nel cuore la parola del Verbo della vita. Attende il vero compimento.

Ciò significa che Maria, in quel primo “Sì” dell’annunciazione, tutto ciò che potesse accadere, lo accettava anticipatamente, mettendosi nelle mani di Colui dal quale tutto spera e al quale tutto affida.

Maria obbedì alla Parola di Dio perfettamente e sempre. Il “fiat” dell’Annunciazione, la porterà al Calvario passando per l’esilio in Egitto. Ciò implica il più assoluto dono di se stessa per causa di Gesù e del suo Regno. Maria accetta amorosamente la volontà di Dio che percepisce nell’intimo del suo cuore, negli avvenimenti di ogni giorno, e nella volontà degli uomini.

Meditando nel suo cuore le parole di Gesù per assimilarle e metterle in pratica, Maria meritò di partecipare nella vera felicità della Beatitudine proclamata da Gesù: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano» (Lc 11,28).

3.1.2 Alla luce del Concilio Vat. II

Nella Costituzione sulla Chiesa, al Capitolo VIII, dedicato alla Vergine Maria, nei numeri 56 e 61 sono sottolineate le ricchezze profonde della obbedienza di Maria:

  • Con la sua obbedienza, Maria è diventata la nuova Eva, la serva indefettibile dell’opera della redenzione, la causa della salvezza per se stessa e per l’intero genere umano.
  • Fu con l’obbedienza che Maria entrò nel mistero di Cristo e della sua Chiesa. Con la sua obbedienza Maria permise, in primo luogo, l’entrata del Salvatore nel mondo. Con la sua fede e obbedienza generò nella terra il Figlio di Dio Padre.
  • Con la sua obbedienza e secondo il disegno di Dio, Ella cooperò nella salvezza degli uomini. Con l’obbedienza, Maria, dichiarandosi serva del Signore, consacrò tutta la sua persona e la sua vita al mistero della redenzione.
  • Con la sua obbedienza, Maria contribuì per restituire all’Umanità il dono del quale la prima Eva, con la disubbidienza, l’aveva privata.

3.2 La nostra risposta personale a Dio mediante il voto di obbedienza

Così consacrata a Dio e totalmente donata alla sua volontà e al suo servizio, Maria è per ogni persona consacrata a Dio mediante la professione del voto di obbedienza, non solo un modello, ma anche una forza e un appoggio.

La nostra obbedienza oggi ha bisogno dell’esempio di Maria. Viviamo, infatti, in un mondo in cui l’obbedienza, invece di essere virtù, è considerata debolezza, sottomissione, diminuzione della libertà umana. Questa mentalità si riflette anche nelle comunità religiose, fino al punto che gli stessi religiosi fanno fatica a comprendere qual è la forza evangelica dell’obbedienza. I Superiori hanno cura di dare ordini il meno possibile e, in qualche caso, si vedono nella necessità di portare all’estremo il dialogo, specialmente con le persone più conflittuali. Ci sono persone che accettano di obbedire solo dentro di una certa logica che corrisponde al loro modo di vedere e valutare le situazioni. Tuttavia, se vogliamo essere fedeli al voto che liberamente abbiamo emesso, la nostra obbedienza deve essere reale, effettiva, dentro la comunità alla quale apparteniamo.

L’obbedienza evangelica è un camminare nella fede, cioè, un « “abbandonarsi” alla verità stessa della parola del Dio vivo» (RM 14).

Entrare in questo cammino dal punto di vista umano, è una situazione di vuoto e di rinuncia per niente desiderabile; ma dalla logica del Vangelo, secondo la quale la vita nasce dalla morte, cioè dalla logica del Mistero Pasquale, l’obbedienza è il cammino che porta alla pienezza dell’essere umano mediante il compimento della volontà di Dio, «sapendo e riconoscendo umilmente “quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie” (Rm 11,33)» (RM 14).

In questo cammino di obbedienza evangelica, la Vergine Maria ci si presenta come colei che «si è abbandonata a Dio completamente, manifestando “l'obbedienza della fede” a colui che le parlava mediante il suo messaggero e prestando “il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà”. Ha risposto, dunque, con tutto il suo “io” umano, femminile, ed in tale risposta di fede erano contenute una perfetta cooperazione con “la grazia di Dio che previene e soccorre” ed una perfetta disponibilità all'azione dello Spirito Santo, il quale “perfeziona continuamente la fede mediante i suoi doni” » (RM 13).

Maria, davanti ad un mistero così grande, si impegna ad assumere tutte le conseguenze della divina maternità, senza lasciare di essere se stessa, senza perdere la sua serenità, in un esercizio profondo della sua libertà. Maria arrivò alla pienezza del suo essere umano per aver compiuto la volontà di Dio e per essere divenuta la grande serva del Signore.

3.2.1 La nostra risposta a Dio, a esempio di Maria, ci richiede la fede

L’obbedienza di Maria è un atto di fede, il più perfetto degli atti di fede. Ella è la «Beata che ha creduto» (RM 12-19).

La volontà di Dio le fu accessibile non attraverso straordinarie e privilegiate rivelazioni (il Vangelo ci narra solo una: l’Annunciazione), ma per mezzo della visione e dell’ascolto attento degli avvenimenti ordinari della vita, “meditandoli nel suo cuore”, cercando in essi il Mistero di Dio, la trasparenza divina, e per mezzo dell’ascolto della Parola che suo Figlio rivolgeva a tutto Israele, per indicargli profeticamente il cammino di Dio.

Maria accettò la mediazione dell’Angelo, di Giuseppe, di Elisabetta, dei pastori, dei Maggi, di Simeone ed Anna, del piccolo Gesù di 12 anni, del Gesù del periodo della vita occulta, del Gesù della vita pubblica, del Gesù appeso dalla Croce, del discepoli amato, della comunità dei cedenti.

Maria scopre la volontà di Dio anche attraverso l’ordine dell’Imperatore di Roma, che la trasferisce da Nazaret a Betlemme; nella terribile sentenza di Erode che la obbliga a fuggire dal suo paese e fa di lei una rifugiata con tutte le relative conseguenze.

Maria “conservava tutto nel suo cuore” e lo meditava attentamente, per rispondere sempre “Sì” a Dio. E questo “Sì” a Dio comportò la sua sottomissione a tanti messaggeri che non sempre hanno fatto trasparire la presenza di Dio.

Anche noi acquistiamo la nostra libertà in pienezza, compiendo la volontà di Dio, che ci viene rivelata, cercando la presenza del Signore nella nostra propria storia, ascoltando la Parola di Dio, meditandola nel nostro cuore e compiendola nella nostra vita; inserendoci in un insieme di mediazioni, che sono sacramenti della imperscrutabile volontà di Dio e che in nessun modo ci sminuisce nella nostra identità.

Un’obbedienza senza mediazioni, senza messaggeri, è un privilegio che contraddice il Vangelo, perché rifiuta l’incarnazione e, per tanto, tutto ciò che è cristiano.

È vero che alle volte queste mediazioni sono molto difficili nel rivelarci Dio. Maria ci insegna a non fermarci davanti agli ostacoli, ma a superarli, mediante l’esercizio della fede, che trasporta le montagne. Nelle circostanze in cui l’obbedienza diviene difficile, se guardiamo alla Vergine Maria, Ella ci aiuta a pronunciare lentamente, più con il cuore che con le labbra, la sua formula di abbandono incondizionato a Dio: «Ecco la serva del Signore… Si faccia in me secondo la tua volontà», che Ella pronuncia lungo l’intero arco della sua vita in perfetta sintonia con l’”Ecce venio…” (Eb 10,7) e l’ “È compiuto” (Gv 19,30) del suo Figlio Gesù.

3.2.2 La nostra risposta a Dio esige umiltà, abbandono in Dio e gratuità

Maria è la serva umile e attenta alla Volontà di Dio. Fu per essersi fatta umile e fedele serva del Signore che il Verbo si fece Carne nel suo ventre.

L’umiltà è la presa di coscienza della propria nullità; è la percezione delle più essenziali linee architettoniche del proprio essere che in Dio vive, si muove ed esiste (cfr. At 17,28); è il riconoscimento e l’accettazione della verità essenziale di ogni creatura, cioè del proprio nulla, del proprio essere terra; reso così trasparente al divino, l’uomo si apre alla pienezza della vita, facendo di Dio il proprio Tutto: “Gratia plena”.

È questo il nulla – pienezza di Maria, l’umiltà di Maria; ella, vivendo la propria situazione di creatura, fa di Dio il suo Tutto e viene trasformata in “Gratia plena”: tutte le generazioni gioiranno con lei della gioia di Dio, perché in lei l’abisso di tutta l’umanità è stato colmato di luce e si è rivelato come capacità di concepire Dio, il dono dei doni. La Vergine Maria nel Magnificat canta questo vuoto, che in lei si trasforma in pienezza per la realizzazione del piano di amore di Dio sull’umanità bisognosa di redenzione.

«È solo quando comprendiamo la nostra nullità, il nostro vuoto, che Dio può colmarci di Sé. Quando diventiamo pieni di Dio, allora possiamo dare Dio agli altri, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Madre Teresa, Sii la mia luce, p. 279)

Tutti gli uomini devono passare per la via del vuoto e attraverso l’esperienza del nulla e della morte. Il percorso della vita umana porta continuamente verso il vuoto. Ogni scelta, infatti, implica una rinuncia. Per ricevere bisogna svuotarsi. Chi vuole tutto, scoppia!

Nell’uomo, questo vuoto è provocato da Dio stesso, che rovescia i potenti dai troni e rimanda a mani vuote i ricchi. Si tratta di una rivoluzione realizzata da Dio, che costituisce un intervento grandioso della sua misericordia: quando il potente cade nella polvere e il sazio prova l’indigenza, essi sono posti nella condizione di essere alzati e saziati da Dio. Nell’esperienza del vuoto e nel crollo degli idoli, l’uomo si trova nella condizione migliore per cercare Dio.

Ma bisogna lasciarsi svuotare liberamente: «Neanche Dio può far niente per qualcuno che sia già pieno. Bisogna svuotarsi di tutto per lasciarlo entrare, per fare ciò che Egli vuole. Questa è la cosa più bella di Dio […] Essere onnipotente, eppure non fare costrizione verso nessuno» (Madre Teresa, Sii la mia luce, p. 265).

Le Beatitudini sono un invito a questo svuotamento totale. Gesù si svuotò liberamente. Maria si svuotò liberamente. Svuotarci, per ascoltare l’Atro e gli altri.

Questo processo è particolarmente doloroso: «L’amore di Dio è un fuoco bruciante. Prima di trasformare l’anima, distrugge, brucia, consuma. Tutto quello che gli è contrario deve sparire. Questo periodo della vita interiore è particolarmente doloroso, ma si distrugge bene soltanto ciò che si sostituisce. Spogliata di tutto quello che faceva la sua ricchezza apparente, l’anima interiore ha cominciato a rivestirsi della bellezza di Dio» (Robert de Langeac)[4].

L’unica causa che può giustificare questa distruzione volontaria e colmare il vuoto da essa prodotto, è la presa di coscienza e l’accoglienza dell’amore che Dio ha per noi e sotto l’azione dello Spirito Santo ci va conformando a Cristo nella totalità della nostra persona (spirito, anima e corpo, cfr. 1Tes 5,23). Nasce così l’identità del cristiano.

«Dio ha mostrato la Sua grandezza servendosi del niente, quindi rimaniamo sempre nel nostro niente per lasciare a Dio mano libera nel servirsi di noi senza consultarci. Accettiamo qualunque cosa Egli ci dia e diamo qualunque cosa Egli prenda con un gran sorriso» (Madre Teresa, Sii la mia luce, 317s).

Per tanto, l’umiltà è la radice dell’obbedienza. L’umiltà ci porta a sottometterci all’obbedienza. Senza l’umiltà interiore che ci fa riconoscere il nostro nulla, la nostra piccolezza davanti al “tutto Assoluto di Dio”, l’obbedienza è insopportabile.

Maria è umile e obbediente, perché dipende unicamente da un unico Signore, Dio. Maria è umile perché perde se stessa in Dio e per Dio e si svuota di tutto quello che le impedirebbe di essere integralmente “la graziata”, la piena della gratuità di Dio. L’umiltà di Maria è oggetto dello sguardo compiacente di Dio: «Dio ha guardato l’umiltà della sua serva”, e questa umiltà permette a Dio di fare in Lei grandi cose (cfr. Lc 1,48-49).

L’umiltà, dunque, ci porta a metterci nelle uniche mani buone che sono quelle di Dio, ad abbandonarci in Dio e a confidare in Lui, l’Onnipotente, e da questa fiducia nasce la generosità nell’adesione totale e responsabile alla sua volontà. L’umiltà è la strada che ci porta ad essere servitori di Dio gioiosi e generosi. Con l’umiltà affronteremo tutto per il servizio del Regno.

Questa è la grande lezione della Vergine Maria. È appunto l’abbandono in Dio che ci porta a compiere cose grandi come Maria.

Abbandonarsi in Dio, infatti, significa prendere le distanze dal proprio Io e dal suo mondo, per abbandonarsi alla volontà divina. L’abbandono in Dio è un processo spirituale che ci restaura, cioè ci riconduce all’origine, alla fonte della nostra vita e delle nostre energie, e ci porta a fare cose grandi: siamo in restauro, sempre, lanciati verso mete sempre più alte. Da questo restauro nascono le cose grandi. La più grande di tutte è dare Dio al mondo.

L’abbandono in Dio ci porta poi alla gratuità: abbandonarsi in Dio significa impegnarsi, ma senza dipendere dal successo.

San Daniele Comboni ci propone la gratuità, invitandoci ad assumere la logica o la psicologia della “pietra nascosta sotterra, che forse non verrà mai alla luce, e che entra a far parte del fondamento di un nuovo e colossale edificio, che solo i posteri vedranno… » (S 2701), alla maniera di Maria che “tutte le generazioni chiameranno beata” perché Dio “ha guardato umiltà della sua serva” (cf Lc 1,48).

Pittura di San Daniele Comboni con la Madonna di Guadalupe.

Il contrario della gratuità è il protagonismo e la ricerca della carriera.

Il protagonismo si avverte di più nel Mondo Occidentale. Infatti, se l'ambiente di provenienza è di una certa agiatezza come nel mondo occidentale, l'inizio del cammino formativo può cominciare e poi continuare sotto l'influsso di un forte entusiasmo per la missione intesa come “protagonismo in nome di Dio”, espresso e vissuto nella realizzazione di grande opere, nell’impegno appassionato per le grandi cause in favore del bene dell’umanità, nell’opzione per i poveri, ecc. Un protagonismo che può essere accompagnato da un certo senso di superiorità, da spirito paternalista, ed anche da un certo senso di colpa.

Questo slancio spinge ad impegnarsi nei dibattiti e nella ricerca di soluzione per i problemi della società mondiale, e a voler coinvolgersi in attività di solidarietà coi bisognosi con un’intensità tale, da far dimenticare che è altrettanto necessario occuparsi della rigenerazione del proprio cuore. San Pietro vede nel cuore il profondo dell’essere, la sede dell’uomo non ancora neppure a lui rivelato. Si tratta dell’“uomo nascosto in fondo al cuore” (1Pt 3,4). È quell’uomo interiore, che può essere intercettato nel quotidiano della vita, quando la persona s’impegna in un itinerario d’interiorizzazione. Quest’itinerario porta a mettere in sintonia il proprio mondo interiore con il mondo di Dio, in modo da assimilare quelle motivazioni dell’impegno missionario che danno consistenza alla propria scelta. Quando si evade o si prende alla leggera questo cammino, il rischio di evadere e alienarsi nel protagonismo individualista o nel successo della carriera è molto alto e il prezzo da pagare può essere molto caro per se stessi e per gli altri all’interno della comunità e al di fuori di essa, svilendo a volte la stessa opzione per i poveri tanto conclamata.

La ricerca della carriera sembra essere presente con più frequenza nella scelta della vocazione in alcuni Paesi dell’Est europeo, del Medio Oriente e nel Sud del Mondo a causa della presenza di situazioni socio-economiche disagiate.

Comunque sia, la ricerca del protagonismo e della carriera nel cammino vocazionale sono due situazioni esistenziali che, senza bisogno di chiamare in causa situazioni esistenziali e/o geografiche particolari, possono emergere e coesistere nelle persone di tutti i tempi e di tutte le latitudini, basta pensare al cammino vocazionale degli stessi Apostoli (cfr. Mt 18, 1-4; Mc 9, 33-37.42-43.47; Lc 9, 46-48).

Quando si verificano tali situazioni di ambiguità, si ferisce la gratuità e la gratitudine della risposta vocazionale (cfr. RV 20b) e quindi la qualità di vita del discepolo di Gesù.

Papa Francesco ci ricorda che “per essere grandi bisogna prima di tutto saper essere piccoli. L’umiltà è la base di ogni grandezza”.

3.2.3 La nostra risposta a Dio implica libertà

Essere liberi è la nostra vocazione più profonda: “Cristo ci ha liberati per la libertà!” (Gal 5,1).

Ma la libertà non si definisce dal fare quello che voglio, ma piuttosto dal volere o scegliere quello che faccio. La libertà è il potere che Dio dà alla creatura umana di realizzare se stessa, inserendosi per decisione personale nel progetto creatore e salvifico di Dio stesso. Dio, infatti, rende l’uomo totalmente partecipe della creazione e della grazia; Dio crea l’uomo con-creatore e donatore, cioè lo responsabilizza della creazione e gli affida la missione liberatrice di Cristo Gesù, per responsabilizzarlo ancora di più.

Posso anche volere il contrario, cioè, non inserirmi in questo progetto e perseguire un altro: quello dell’autonomia e dell’indipendenza, quello di essere come Dio (cfr. Gn 3,5). Ma la creatura umana non può essere Dio: un tal progetto risulterebbe distruttore della propria libertà.

Ad ogni modo, essere libero è condurre la propria vita verso dove intendo che essa deve essere condotta, senza lasciarmi condurre da essa. Volere o scegliere ciò che faccio è la formulazione dove la libertà ha la precedenza sui dati immediati della vita quotidiana e per questo può essere signora di essi.

Il cammino verso la libertà che ci aprì Gesù, continua ad essere il cammino doloroso e difficile del Mistero Pasquale, che è obbedienza al piano di amore del Padre sull’umanità, che passa attraverso la sofferenza fino alla morte, e che si converte in resurrezione e in fonte di resurrezione (cfr. Fil 2,5-9).

Maria, proclamandosi “serva del Signore”, pronunciando il suo “Si faccia”, manifesta la più profonda attuazione della sua libertà, perché fa suoi gli insondabili disegni che Dio le presenta e si abbandona a Lui senza riserve, «prestando il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà» a colui, le cui «vie sono inaccessibili» (Rm 11,33; cfr. RM 18).

Maria è donna libera perché si fa schiava del Signore, cioè, aderisce a Dio come al suo unico Signore e si dona incondizionatamente alla realizzazione dei suoi piani.

Orbene, anch’io con la mia obbedienza sono proteso a raggiungere la pienezza della mia libertà, perché accetto e voglio essere coinvolto nel progetto creatore e salvifico di Dio, vivendo in me la stessa obbedienza di Cristo e di Maria al Padre; perché voglio vivere la missione di Cristo affidata alla Chiesa come corpo; perché voglio identificarmi con il carisma del mio Istituto, corpo coordinato in funzione della missione specifica che la Chiesa gli affida; perché voglio assumere le funzioni che sono del Regno e pertanto della Chiesa, e pertanto di Gesù Cristo e pertanto del Padre.

Perché voglio essere fedele al piano che Dio ha su di me, rinuncio ad essere autonomo e indipendente, a divenire idolo di me stesso, e a proclamarmi anch’io il servo del Signore.

3.2.4 La nostra obbedienza è, come quella di Maria, sottomissione reale ed effettiva

Maria, che si abbandonò a Dio senza riserve, e si donò totalmente come schiava del Signore alla persona e all’opera del suo Figlio, era una donna sottomessa ed espropriata dei suoi diritti fondamentali e come tale si donò al Signore.

Maria, infatti, apparteneva ad un popolo colonizzato e sottomesso all’Impero Romano, ad una classe sociale dipendente dai ricchi e potenti di Israele, ad un sesso schiavizzato dal machismo dell’epoca. Per questo, Maria non fu la donna autonoma, capace di disporre in ogni momento di se stessa e di progettare liberamente la sua vita e il suo futuro. Come ogni donna ebrea dipendeva dai suoi genitori o da suo marito e da tutte le autorità religiose, politiche, economiche.

Dio che ama i deboli, ha fissato lo sguardo su questa donna sottomessa e obbediente agli uomini e consacrò la sua condicione di schiava, cioè, la assunse nel suo piano di amore verso gli uomini, e le diede un senso nuovo. Maria fattasi schiava del Signore viene segnata con un progetto di vita che si finalizza solo in rapporto con la causa di Dio. Da allora la sottomissione e l’obbedienza di Maria agli uomini è l’accettazione della condizione umana, il modo di solidarizzarsi per amore con gli uomini schiavi. È così segno di un atteggiamento di dipendenza assoluta da Dio; ciò che appare sottomissione agli uomini è sacramento della sottomissione alla volontà di Dio, per essere trasmittente della sua stessa forza liberatrice.

Maria proclama nel Magnificat la gioia del suo spirito per la grande rivoluzione liberatrice che si sta realizzando nella storia a partire da quel momento in cui Dio ha guardato l’umiliazione della sua schiava. Sotto questo sguardo misericordioso e creatore, Maria rimarrà povera con i poveri, sterile con le sterili, discriminata con i discriminati, per essere strumento della potente azione di Dio, che rovescia dai troni i potenti ed innalza gli umili (Cfr. Lc 1,52).

Questa azione poderosa e redentrice di Dio, arriva al culmine con l’invio nel mondo del suo unico Figlio, che prese la nostra condizione umana nel grembo di Maria, si consegnò alla morte e risuscitando distrusse la morte e ci diede nuova vita. Maria visse unita a questo Figlio, “serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, dove soffrì profondamente col suo Unigenito e si associò con animo materno al suo sacrifico, amorosamente consenziente all'immolazione della vittima da lei generata” (cfr. LG 58). È l'unione mediante la fede, la stessa fede con la quale Maria aveva accolto la rivelazione dell'Angelo al momento dell'annunciazione. Allora si era anche sentita dire: «Sarà grande..., il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre..., regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32-33; cfr. RM 18).

Ai piedi della croce, Maria vive il massimo della sua solidarietà con i sottomessi, gli schiavizzati e condannati a morte di questo mondo; lì la sua schiavitù e la sua umiliazione sono estreme; ma più che mai in questo momento Ella è la sua “schiava”, schiava di Dio, perché è perfettamente unita a Cristo nel mistero della sua spogliazione redentrice (cfr. RM 18) e grida agli uomini che l’unico che libera è l’amore, l’amore del Crocifisso, del quale Ella è Madre e per il quale Dio “rovescia dai troni i potenti e innalza gli umili”.

Così il messaggio di liberazione di questa “schiava del Signore” rivoluziona il cuore di ogni uomo e il cuore dell’umanità. È lì dove il processo della liberazione integrale dell’umanità ha preso il via in tutta la sua serietà, non con la ribellione del momento che passa: una liberazione già presente nell’amore riversato dal Cuore Trafitto di Cristo, che ci fa figli dello stesso Padre e fratelli tra di noi e anche di dimensioni future e definitive, che si realizzeranno quando Dio, rovesciando ogni potere umano, sarà tutto in tutti. “Totalmente dipendente da Dio e tutta orientata verso di lui per lo slancio della sua fede, Maria, accanto a suo Figlio, è l'icona più perfetta della libertà e della liberazione dell'umanità e del cosmo. È a lei che la Chiesa, di cui ella è madre e modello, deve guardare per comprendere il senso della propria missione nella sua pienezza” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Libertà cristiana e liberazione, 22 /3 /1986, n. 97).

Anche nella nostra obbedienza di religiosi, la nostra sottomissione e la nostra dipendenza devono essere reali, effettive, come lo furono in Maria.

Di fatto, noi religiosi con la nostra professione abbiamo scelto nell’obbedienza della fede di sottometterci a una Regola di Vita, al nostro Istituto e ad una comunità locale, con il suo peculiare sistema di mediazioni, che ci mettono in una situazione di dipendenza. I nostri destini, funzioni, economie, il nostro tempo, i nostri progetti, dipendono dai superiori e dalla comunità.

Per non svalutare la nostra obbedienza di “schiavi del Signore”, come nell’obbedienza di Maria, dobbiamo condividere le sue situazioni di sottomissione e dipendenza reali per amore e identificazione con gli schiavizzati di questo mondo, per i quali l’obbedienza non è una virtù, ma segno di pura sottomissione, di minorità e di umiliazione. Come in Maria la nostra obbedienza deve spingerci a solidarizzarci con i sottomessi, a assumere le schiavitù politiche, economiche, sociali, religiose, stando incondizionatamente dalla parte di coloro che gridano per conseguire la loro liberazione.

Questa è quell’obbedienza degli “schiavi del Signore”, che dà senso politico alla nostra professione pubblica di obbedienza, cioè, che si converte in mani di Dio, in strumento di elevazione degli umili (Cfr. Lc 1,52).

Questa missione dell’obbedienza, cioè, perdere se stesso nel Signore perché gli altri ritrovino se stessi nella libertà dei figli di Dio, deve ripercuotersi nella vita interna delle nostre comunità e conformare la nostra obbedienza comunitaria. Abituati ad una obbedienza reale ed effettiva, solidali con i sottomessi a schiavitù esistenziali sommamente gravi, la nostra disponibilità a sottometterci nelle comunità a tutto quello che può servire a creare nuovi spazi di libertà evangelica, è segno ed espressione che la libertà non consiste nella conquista, nel dominio, ma nella luminosità comunitaria dell’amore senza intralci; non nella difesa dei nostri diritti, ma nell’oblio di noi stessi e cercando i diritti degli altri.

Il superiore nella comunità non è colui che sta al di sopra degli altri, ma colui che serve in ordine alla crescita di ciascuno, al superamento degli egoismi, alla esperienza comunitaria della libertà. Chi nella comunità si sottomette per facilitare la libertà degli altri, crea nel mondo una condizione di possibilità di nuove conquiste di liberazione per gli altri.

Allora l’obbedienza religiosa assume una dimensione di “testimonianza di denuncia di un esercizio totalitario dell’autorità e di una concezione individualista della libertà” (CLAR, Signos Proféticos del Reino).

3.2.5 Maria è la serva disponibile e fede

La nostra solidarietà con i sottomessi non autentifica la nostra obbedienza come evangelica. È necessario che Dio consacri questa situazione e che noi ci consacriamo e ci doniamo liberamente e totalmente a Lui e alla causa del suo Regno.

In quanto religiosi dobbiamo entrare nella linea dei grandi servitori del Regno; il nostro progetto di vita implica una lucida disponibilità per qualunque azione in suo favore. Questa disponibilità ci fa dipendere unicamente da Dio, donare radicalmente e senza calcoli la nostra esistenza a Dio Padre fino alla morte personale o comunitaria. Questa donazione nasce dalla nostra fede.

La libertà cristiana, infatti, non si pone in alternativa con l’obbedienza. Al contrario, l’obbedienza conduce alla libertà vera, cioè, quella che ci fa capaci di amare e servire. La nostra vita, attraverso l’obbedienza, sta nelle mani di Dio, sta “nascosta con Cristo in Dio” (col 3,3), per mezzo della fede, come la vita di Maria (cfr. RM 17), per amare e servire coloro nei quali egli si manifesta: bambini, malati, affamati di pane di amore, di libertà, di pace, di giustizia… È questa vita “nascosta con Cristo in Dio”, che ad ogni chiamata del Signore ci fa rispondere, come Maria, Eccomi… Si faccia…”.

3.2.6 La nostra obbedienza è un dono

La nostra obbedienza di religiosi nasce in noi dalla nostra unione con Dio, dalla vicinanza seduttrice di Dio, dalla nostra vita “nascosta con Cristo in Dio”, che ci porta alla vera libertà e a essere promotori di libertà, seguendo il Signore Gesù, che chiese ai suoi discepoli che fossero disposti a lascia tutto (Lc 5,10-11), a dimenticarsi di se stessi (Mc 8,34), a non preoccuparsi per il cibo, per il vestito, per il domani (Mt 6, 25-34), ad essere eunuchi per il Regno (Mt 19,11-12), a perdere la vita per il Vangelo (Mt 16, 25-26).

Maria ci precede in questo cammino di obbedienza delle fede e si presenta a noi come donna libera, che arrivò alla pienezza del suo essere umano, per aver compiuto la volontà di Dio e per essere divenuta la grande serva del Regno.

Come Maria, i religiosi abbiamo ricevuto da Dio l’obbedienza carismatica, che comporta l’abnegazione di se stessi per dare la vita liberamente (Gv 10,1-8), mettendosi a servizio del progetto salvifico universale di Dio assieme agli altri fratelli.

La nostra obbedienza è al servizio di un progetto comunitario e ogni carisma  comunitario è una forza liberatrice che lo Spirito Santo conferisce alla sua Chiesa, e per mezzo di essa al mondo.

La fecondità dell’obbedienza comunitaria nasce dal fatto che è attraversata di amore, di speranza, di pazienza, di presenza liberatrice di Dio. L’obbedienza lasciando da parte l’uso del potere, dispone la persona e la comunità perché Dio agisca in essa. Sopprime l’orgoglio, l’ansia di protagonismo, e permette che il protagonista, l’autentico Re Signore, sia Dio stesso. La consacrazione della nostra volontà, del nostro tempo, di tutta la nostra vita a Dio per gli uomini a causa del Regno è una forma di lottare per la libertà e manifestare al mondo degli oppressori e degli oppressi che la vera libertà sta più in là degli organi del potere, dei partiti politici o dei movimenti rivoluzionari, del potere economico. C’è, infatti, un servizio alla liberazione che è meno apparente e meno immediato in quanto all’efficacia concreta, ma non meno necessario; è necessario accentuare il futuro e la speranza di una libertà totale, promessa e voluta da Dio; una libertà che raggiunga il cuore di ogni persona, nel quale c’è, allo stesso tempo, un oppressore e un prepotente, perché il peccato è oppressione personale e comunitaria.

Come Maria i religiosi, mediante la nostra obbedienza, ci convertiamo in liberatori a partire dalla povertà e dall’impotenza. E l’uomo dello Spirito, l’uomo di buona volontà, comprende che la povertà, l’impotenza, la sottomissione per amore del Regno, scuotono e turbano tutte le dittature. Maria così lo annunciò profeticamente nel Magnificat. Non c’è oppressione che possa durare per sempre, perché gli strumenti di morte sono destinati a morire anch’essi. Tuttavia, l’amore liberatore rimane per sempre, soprattutto l’amore che nasce da Dio e che ci costituisce suoi figli (cfr. Rom 8,15); e perché siamo figli di Dio siamo connessi con la fonte della libertà, anche se ancora non si manifesti in pienezza (cfr. Rom 8,19-21).

Conclusione

Papa Francesco a Fatima (Portogallo) il 12 maggio 2017.

“Se l’uomo di oggi non fissa lo sguardo su quella che è “il grande Segnale”, può facilmente perdersi” (San Giovanni Paolo II, Roma 15-8-1986).

Siamo chiamati a vivere la nostra consacrazione religiosa in un mondo che spesso è molto ostile a Dio, alla Chiesa, ai valori del Regno. In questo contesto Dio ci dà coraggio presentandoci “questo grande Segnale”, Maria, madre della Chiesa, modello di tutti le persone consacrate. Volgiamo il nostro sguardo verso di lei e diciamole:

Vergine fedele, Signora del “Sì”, con il quale hai accolto nel tuo grembo la Vita per donarla al mondo, insegnaci ed aiutaci a dire sempre “Sì” alla volontà di Dio, agli impegni della nostra consacrazione di discepoli missionari comboniani che abbiamo professato davanti a Lui per il servizio del Regno come membra della Chiesa. Che il nostro “Sì” confermi e prolunghi nella storia il “Sì”, che Tu hai pronunciato in comunione con quello che il Verbo ha detto al Padre facendosi uomo nel tuo grembo.

Che il tuo esempio sia per noi forza e coraggio, gioia e speranza che il Signore farà in noi e per mezzo di noi cose grandi, e che coscienti e responsabili diciamo: Signore, siamo servi inutili, ma vogliamo essere strumenti docili nelle tue mani; si faccia in ognuno di noi la tua volontà.

Che la tua compagnia tenga aperto il nostro cuore, riversando in esso il desiderio dell’ascolto della Parola, la pedagogia del servizio, della pietra nascosta che forse mai verrà alla luce, la passione di far causa comune con gli oppressi, in un atteggiamento di rispetto e di fede in essi, che ci metta a servizio della loro capacità di essere soggetti della propria rigenerazione.

P. Carmelo Casile
Casavatore, luglio 2018

Gruppo missionario con P. Luis Filipe Dias, in Brasile.
 

[1] Giovanni Paolo II, “Carta Apostólica a los Religiosos y Religiosas de América Latina con motivo del V Centenario de la Evangelización del Nuevo Mundo” 26/6/1990, 19.

[3] CLAR, Signos proféticos del Reino: La vida religiosa de cara a una nueva evangelización. Respuestas de reflexión en el V Centenario de la primera evangelización de América.

[4] Robert de Langeac, La vita nascosta in Dio, San Paolo 2003, p. 15. Robert de Langeac fu prete di San Sulpizio e professore al Grande Seminario di Limoges prima della seconda guerra mondiale. Fortemente impregnato della spiritualità del Carmelo, affidò i suoi scritti inediti a tale Ordine in vista della loro pubblicazione. Morì nel 1947.