In Pace Christi

Modonesi Alberto

Modonesi Alberto
Data di nascita : 04/05/1942
Luogo di nascita : Dello/Italia
Voti temporanei : 09/09/1963
Voti perpetui : 09/09/1966
Data ordinazione : 01/07/1967
Data decesso : 08/02/2018
Luogo decesso : Castiglione delle Stiviere/Italia

Brevi cenni biografici

P. Alberto era nato a Corticelle Pieve, in provincia di Brescia (Italia) il 4 maggio 1942, sesto di una numerosa famiglia di tredici figli, cinque maschi e otto femmine. Entrò nell’Istituto comboniano a Gozzano ed emise i primi voti il 9 settembre 1963. Nel 1964 passò alla Scuola Apostolica di Brescia, poi a Venegono, dove il 9 settembre fece i voti perpetui. Fu ordinato sacerdote al suo paese natale il 1 luglio 1967 e fu destinato al Sudan – dove ha passato cinquant’anni, il resto della sua vita – anche se in un primo periodo rimase in Libano per lo studio dell’arabo. Nel 1970 fu assegnato alla cattedrale di El Obeid, quale coadiutore e vice-superiore. Fu in quel periodo che conobbe P. Luciano Perina, autore della lunga lettera che riportiamo qui di seguito.

Lettera a P. Alberto Modonesi, un amico indimenticabile

Carissimo Alberto, la tua lettera di auguri per il Natale appena passato è bellissima. Anche la morte, che tutti temiamo, e che ti stava per raggiungere, per te è stato “un salto nelle braccia del Padre”. Ovviamente hai sofferto molto. E questo ti ha strappato l’espressione “ho una grande voglia di spiccare l’ultimo salto nelle Sue braccia”. Ma comunque questa tua lettera bellissima mi rendeva triste e mi causava una fitta strana, come se il mio cuore non volesse accettare che te ne stavi andando. Sono tanti i ricordi di momenti speciali vissuti insieme, sia in Sudan che qui in Italia, ed ora faccio fatica ad accettare che te ne sei andato.

Il primo incontro

Ricordo che quando ci siamo incontrati la prima volta eravamo in Sudan alla fine degli anni 70. Tu eri a El Fasher e io ero a Nyala, a centinaia di kilometri uno dall’altro. Entrambi eravamo da soli. Ognuno faceva comunità con se stesso, anche se questo causava qualche perplessità tra i nostri superiori, che avrebbero preferito che vivessimo in comunità. Mentre a noi questa preoccupazione per le nostre regole ci sembrava un po’ eccessiva, considerando la situazione concreta: i cristiani erano pochi e tutti oriundi del Sud del paese. La maggior parte di loro erano giovani che venivano al Nord per qualche lavoro stagionale, per prendere un po’ di soldi e poi tornarsene al paese, comprare qualche mucca che poi sarebbe servita come dote per il matrimonio. Le famiglie stabili nelle nostre comunità erano pochissime e quindi, per quanto riguarda il lavoro strettamente pastorale, uno bastava e avanzava, sia a El Fasher che a Nyala. Eppure, anche con pochi cristiani, il lavoro non ci mancava: scuola serale, squadre di calcio e visite alle piccole comunità cristiane sperdute nel deserto ci tenevano occupati fin sopra i capelli.

Ricordo che abbiamo pure discusso tanto sull’utilità di ‘perdere’ il nostro tempo per i musulmani. A me sembrava, infatti, che come missionari cattolici avremmo dovuto occuparci di più dei nostri cristiani. Mentre il tuo punto di vista era un po’ diverso. Ricordo quel giorno che ti sfidai chiedendoti a bruciapelo “ma tu pensi veramente che anche il Corano sia ispirato?”. Tu non lasciasti un attimo di spazio tra domanda e risposta. Per te non c’era alcun dubbio che Dio aveva dato a loro il loro libro, come a noi aveva dato il nostro.

Alla Comboni School di El Obeid

Per alcuni anni siamo stati insieme nella nostra scuola di El Obeid. Tu eri il direttore ed io insegnavo inglese. Che bello ricordare la tua serietà con gli studenti! Tu che normalmente eri piuttosto ilare, allegro e solare, con gli studenti, nel tuo ruolo di direttore, eri assolutamente un’altro: serio e preciso. E gli studenti ti amavano e rispettavano allo stesso modo, sia quando li facevi ridere in cortile, sia quando li riprendevi in classe, con qualche dovuta ramanzina. Eri come un papà buono quando giocavi a pallavolo con loro e ti scappava una parolaccia se sbagliavi un tiro. Ed eri pure un papà buono quando dovevi riprendere qualcuno, perché si capiva al volo che l’unica tua preoccupazione era il loro bene, il bene di tutti: cristiani e musulmani.

Come superiore della comunità eri più che sdramatizzante. Un giorno Fr. Enrico Ceriotti ti informò che la birra nella nostra dispensa stava per finire e ti chiese di provvederne un po’. Tu andasti al mercato e ne comprasti così tanta che Fr. Enrico, economo della casa, si spaventò e ti apostrofò con allusioni alla nostra povertà. E tu, con tatto, rispetto e gentilezza, gli rispondesti che non c’era motivo di allarmarsi: “Noi, Fratello, non siamo qui per la povertà. Siamo qui per il bene di questa gente. E se un paio di birre a settimana ci aiutano a fare meglio il nostro dovere, allora ben venga anche la birra”. Fr. Enrico, che era il più anziano di tutti noi e sempre un po’ attento a non spendere troppo, sorrise e aggiunse che per il bene della gente lui di birre poteva berne anche più di una alla volta! Scaricammo la birra soddisfatti della nostra discussione e, alla fine, ne bevemmo una lattina ciascuno, sottolineando il fatto che tu, P. Alberto, volevi proprio il bene di quella gente.

Il serpente

Che giorno maledetto quel giorno che, mentre camminavi sulla sabbia del deserto di El Daein, un serpente della sabbia, disturbato dal tuo passo, ti morse sul collo del piede. Non ricordo il nome di quel serpente, ma tutti mi dissero che il suo veleno era mortale. Io stesso, visitando El Daein qualche anno dopo di te, celebrai il funerale di un giovane che, come te, aveva avuto la sfortuna di pestarlo; in meno di 24 ore il giovanotto era freddo.

Quel morso fu l’inizio della tua fine. Quelli che erano con te in quel giorno nefasto di tanti anni fa, tagliarono la ferita dei denti del serpente, cercarono di succhiare fuori il veleno e ti portarono a Khartoum. Poi venisti in Italia. I medici ti prescrissero tutte le cure del caso, ti cambiarono persino tutto il sangue. In qualche modo sei sopravissuto, ma quello che hai sofferto da quel giorno solo tu lo sai. Quanti dottori! Quanti controlli! Quante medicine, per anni e anni. Eppure non hai mai perso il sorriso, la parola arguta, il gesto faceto, la capacità di ridere di tutti e di tutto, anche di te stesso. Anche quando ti ho incontrato poco più di un mese fa nella nostra casa di Brescia, il tuo sorriso e la tua ilarità eran quelli di sempre. Eri rimasto lo stesso Alberto, sereno e pieno di gioia di vivere, anche quando la vita se ne stava andando. Salutarti quel giorno e dirti “arrivederci” è stato molto triste. Ho avuto come un presentimento che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro.

Il bene della gente

Ma il tuo ricordo, carissimo Alberto, anche se per tante cose mi rende triste, per tante altre cose mi riempie di gratitudine, per le tante esperienze meravigliose di umanità, semplice, sincera e pure terra-terra, che abbiamo vissuto e condiviso sui sentieri e sulle piste del deserto del Sudan e sui sentieri e sulle piste tra i boschi e le foreste del Sud Sudan. Il ricordo della tua vita di preghiera, semplice e profonda, come traspare da ogni riga della tua “Lettera di Natale 2017”, è come un balsamo che consola l’amarezza provocata dalla notizia che ci hai lasciato.

Ti ricordi quella volta che di notte a El Daein qualcuno ti rubò i pantaloni? Eri andato in safari con suor Rosetta e suor Costanza, e loro al mattino nella capanna vicina ti aspettavano per la Messa. E tu, che avevi solo quei pantaloni che ti avevano rubato, gridasti loro, senza uscire, che la Messa quel giorno l’avreste celebrata più tardi. E poi proibisti di riportare il fatto, perchè, dicesti, forse era stato un povero.

Ti ricordi quella volta che andammo da Nyala a Khartoun in treno? Tre giorni e tre notti per attraversare tutto il deserto del Sudan. I disagi non erano pochi. Eppure, tu eri felice come una Pasqua, perchè eri con la gente. Sul treno non c’erano le docce e c’erano dai 45 ai 50 gradi. Ma lo stare con la gente era per te il colmo della soddisfazione, anche se non c’era acqua per lavarsi, per nessuno.

E ti ricordi quella volta che celebrammo l’Eucarestia nella cappellina di Nyala, io, te e il catechista con sua moglie? Loro due quel giorno avevano litigato e io ti suggerii che forse era meglio non farli venire alla preghiera. Ma tu li invitasti lo stesso. E poi, al momento della pace, li abbracciasti entrambi. Così in seguito, un po’ alla volta, si rappacificarono. E tu, riferendoti a loro, mi dicesti che, in fondo, una Messa senza gente è come una mezza Messa!

“Alberto, mio compagno di viaggio”, di P. Alex Zanotelli

P. Alberto Modonesi, un amico e un grande comboniano. Ci siamo incontrati e abbiamo parlato a lungo per l’ultima volta in ottobre, in occasione del Festival della missione a Brescia. Ero molto legato ad Alberto. Abbiamo compiuto un tratto di strada insieme in Sudan, ma posso dire che, anche lontani, abbiamo condiviso gli stessi ideali. Ci siamo incontrati nel 1967 a El Obeid, una città in pieno deserto, 500 km a sud di Khartoum, la capitale del Sudan. Io insegnavo lì da un anno, al Comboni College, e lui – che conosceva bene l’arabo e aveva studiato islamologia in Libano – era stato chiamato per il lavoro pastorale in varie località del vicariato.

Fu un periodo molto bello. Per entrambi era l’inizio dell’esperienza missionaria ed eravamo immersi nello spirito del Vaticano II, che sprigionava la voglia di giustizia e pace. Ma questo nostro entusiasmo andò in rotta di collisione sia con il pronunzio che con l’allora arcivescovo di Khartoum.

Il sinodo dei vescovi del 1971 verteva sul tema della giustizia. Noi volevamo che venissero denunciate sia la piaga della guerra nel sud sia la drammatica situazione complessiva del paese. Non ci fu verso. Allora, attraverso un altro comboniano, P. Renato Bresciani, riuscimmo a far arrivare sul tavolo di ogni vescovo una lettera in cui denunciavamo i massacri che avvenivano nelle regioni meridionali. L’arcivescovo di Khartoum ci rispose in pieno sinodo, smentendo la nostra lettura della realtà. Non solo. Fece pressione sul vescovo comboniano, Mons. Cazzaniga, un uomo straordinario, perché fossimo allontanati dal paese e destinati ad altro incarico. Il vescovo gli rispose sostenendo che noi due stavamo lavorando seriamente e che avevamo il diritto di manifestare le nostre idee. Nel 1973 lasciai il Sudan per specializzarmi in arabo e il governo ne approfittò per togliermi il permesso d’ingresso. Mentre Alberto continuò il suo lavoro di immersione nel mondo arabo fino al 1994, lavorando un po’ dappertutto. Dal 1994 al 2002, diede una mano al Dar Comboni al Cairo per l’insegnamento dell’arabo e la comprensione della cultura musulmana.

Aveva una forte empatia verso il mondo islamico, tanto che molti comboniani lo chiamavano “il musulmano”. Sono convinto che sull’islam abbia fatto dei passi che pochi comboniani hanno saputo fare. Ha cercato di capire quella cultura fino a innamorarsene, e si è fatto amare dalla gente. Credo assomigli al missionario che papa Francesco descrive così bene nella Evangelii gaudium. (da Nigrizia, marzo 2018)

Shukran Ya Abuna

Grazie Abuna Alberto per tutto quello che ho ricevuto da quando ti ho conosciuto per la prima volta, nel settembre 1995, quando sono arrivato al Cairo per lo studio della lingua araba nel centro Dar Comboni di cui eri il direttore.

Grazie per la tua testimonianza di vita cristiana e consacrata, per la tua vita di preghiera e di fede, per la tua testimonianza di una vita secondo il Vangelo, semplice, gioiosa e generosa. Grazie perché sei stato un bravo figlio di san Daniele Comboni, hai amato l’Africa e hai faticato per servire la tua missione fra gli africani. Sei stato nella terra dei Fur, nel Darfur, e proprio nel giorno della grande festa di santa Giuseppina Bakhita, sei partito per la casa del Padre.

Nella vita accademica e nella scuola di vita, sei stato di grande aiuto a moltissimi. Grazie per aver incoraggiato molti di noi studenti e confratelli, quando eravamo giù di spirito. Avevi la capacità di relativizzare, di abbassare tensioni, sorridere e ripartire.

Grazie per la tua capacità di lavorare. Riuscivi a lavorare bene e nell’amicizia con i confratelli, con le consorelle comboniane, con altri religiosi, sacerdoti e laici. Non eri attaccato alla tua posizione ma nella semplicità facevi sentire a casa tutti. Eri libero, per condividere quello che avevi e quello che eri.

Grazie per la tua vita di missione in Italia, Egitto, Sudan e Sud Sudan e per la tua presenza nei paesi del Medio Oriente. Grazie per la tua conoscenza profonda e il tuo apprezzamento dei popoli ai quali sei stato mandato. Ho potuto vederti al Cairo fra egiziani, arabi, sudsudanesi, eritrei, etiopi, europei, americani, asiatici. Ti ho visto fra la popolazione Nuer a Leer nel Sud Sudan. Avevi questa capacità di abbracciare tutti, di andare oltre le differenze. (P. Tesfaye Tadesse, Superiore Generale)

Dall’omelia di commiato del vescovo di Mantova

Ho notato che nelle lettere che da due anni a questa parte P. Alberto scriveva agli amici, non li aggiornava sulla sua condizione di salute, sul progresso della malattia, ma apriva il suo cuore per dire come si stava preparando alla morte. P. Alberto ha vissuto la conclusione della sua vita condividendo. Condividere è stata la sua vita. Africano con gli africani, conosceva talmente bene l’arabo da essere scambiato per un arabo nativo. Si è immedesimato con le terre e con la gente a cui la missione lo inviava. Ha ‘mescolato’ il suo destino con quello di chi ha incontrato. La Provvidenza ha fatto sì che P. Alberto sia morto nel giorno della festa liturgica di Santa Giuseppina Bakita, figura a lui molto cara perché nativa del Sudan e in particolare del Darfur, prima missione alla quale era stato inviato cinquant’anni fa, quasi come un pioniere, “per vedere se c’erano dei cristiani”.
Da Mccj Bulletin n. 278 Suppl. In Memoriam, gennaio 2019, pp. 16-23.