Lunedì 22 ottobre 2018
“Alle riflessioni chi mi sono proposto di fare e di condividere in questo spazio, ne manca una, forse la più difficile da svolgere, perché si riferisce alla dimensione centrale del nostro carisma: la evangelizzazione. Man mano che sentivo le difficoltà nell’affrontare il tema, sentivo anche la necessità di farlo, soprattutto per l’importanza che il tema ha per il futuro dell’Istituto: nella e-vangelizzazione, infatti, si gioca il nostro futuro e il nostro posto Chiesa e nelle società in cui operiamo”. (P. Manuel Augusto Lopes Ferreira mccj)

La volontà salvifica di Dio, già operante nella storia dei popoli, si è ri-velata in modo pieno e definitivo in Gesù Cristo, nel quale tutte le na-zioni sono chiamate a formare un solo popolo. Per mezzo di Lui ognuno può accedere al Regno dì Dio e essere liberato dall'alienazione causata dal peccato e dalla tirannia della morte.

La Chiesa riceve da Cristo la missione, e dallo Spirito la forza di anda-re in tutto il mondo a proclamare la Buona Notizia a ogni creatura. Essa porta avanti la sua missione attraverso un pluralismo di doni e di cari-smi.

L'Istituto missionario comboniano è un'espressione specifica della missionarietà della Chiesa.

I suoi membri partecipano attivamente alla missione della Chiesa al mondo, attraverso il servizio all'uomo e la testimonianza della loro con-sacrazione e vita comunitaria.

I missionari comboniani si impegnano pubblicamente a un particolare stile di vita, per attuare meglio il servizio missionario nella responsabili-tà ed edificazione reciproche. Consci di rispondere a tale chiamata in modo insufficiente e frammentario, accettano di rivedere costan-temente il loro stile di vita per vivere nel mondo come segno di sal-vezza.

Alle riflessioni chi mi sono proposto di fare e di condividere in questo spazio, ne manca una, forse la più difficile da svolgere, perché si riferisce alla dimensione centrale del nostro carisma: la evangelizzazione. Man mano che sentivo le difficoltà nell’affrontare il tema, sentivo anche la necessità di farlo, soprattutto per l’importanza che il tema ha per il futuro dell’Istituto: nella e-vangelizzazione, infatti, si gioca il nostro futuro e il nostro posto Chiesa e nelle società in cui operiamo.

Inizio questa riflessione nel momento in cui riparto per la missione (Asia), vivendo la dimen-sione che è stata, è, e sarà la caratteristica della vocazione missionaria: uscire dalla propria terra, cultura e chiesa per vivere e annunciare il vangelo in altre latitudini e tra altri popoli. Spontane-amente penso a Paolo di Tarso che è uscito dal suo mondo giudaico per portare il vangelo al mondo greco-romano. Penso con emozione a Daniele Comboni che ha lasciato la sua chiesa di Verona per portare il vangelo alla Nigrizia, e così condurla alla chiesa, vivendo tante volte e in-tensamente questa uscita che a quel tempo era certamente più drammatica ed esigente di oggi. Ricordo con nostalgia la mia prima partenza, nella pienezza dei trent’anni; ora, a cinquant’anni, il mio andare è più difficile e incerto.

Le parole e il metodo

Nell’affrontare il tema della evangelizzazione incontriamo subito due difficoltà.

La prima si riferisce ai termini che usiamo e al loro significato: che cosa intendiamo per e-vangelizzazione? Probabilmente ogni comboniano ha una sua opinione al riguardo. Questo complica la riflessione sul tema, ma io non intendo unificare questa varietà. Parto, invece, dal concetto basico di evangelizzazione: portare il vangelo ai popoli, quale semente che fruttifica in comunità ecclesiali e in processi di trasformazione sociale secondo i valori del Regno. Sceglien-do questa idea di evangelizzazione mi sento in perfetta comunione con Paolo, con Comboni, con tanti missionari che hanno scritto le più belle pagine della storia della Chiesa, e in linea con l’inse-gnamento del magistero ecclesiale.

La seconda difficoltà sta nella questione del metodo. È una questione che ultimamente ci sta impegnando molto (vedi la Ratio Missionis in elaborazione), interessati come siamo alla ricerca di una metodologia comboniana. Da un lato si sente il desiderio, che definirei idilliaco, di una metodologia che ci identifichi e ci unisca; dall’altro ci troviamo di fatto in una grande diversità di situazioni sociali ed ecclesiali con sensibilità ed esigenze proprie, per cui la ricerca di un “me-todo unico” sembra inutile. A parer mio, l’identità e l’unità non si costruiscono partendo dal me-todo, ma dalla visione teologica che è il fondamento della nostra missione, dalla mistica che le dà vita e passione, dalla spiritualità che la alimenta, dalla fraternità che la sostiene. Gli elementi della cosiddetta “metodologia missionaria” devono, indubbiamente, essere continuamente pro-posti; ma quelli che assicurano l’identità e l’unità del carisma attraverso il tempo sono, secondo me, di ordine teologico e spirituale.

Il cammino del passato

Col passare degli anni, il concetto e la meto-dologia della evangelizzazione hanno subito del-le alterazioni, ma hanno sempre conservato alcuni elementi caratteristici: la presenza fra i non-cristiani, l’annuncio del vangelo, l’edificazione della chiesa locale, la testimonianza di vita e la promozione umana. Non c’è dubbio che, per gli istituti ad gen-tes, la evangelizzazione è sempre stata legata al primo annuncio e alla catechesi, ai sacramenti della iniziazione cristiana (battesi-mo e cresima), alla formazione di comunità (eucaristia e ministeri) e alla trasformazione sociale. Tuttavia, con l’andar del tempo e la crescita delle chiese locali, il concetto e la pratica della e-vangelizzazione sono notevolmente mutati: il primo annuncio e la catechesi ai margini; l’accompagnamento delle comunità cristiane (servizio pastorale nel contesto di parrocchie già stabilite) e l’impegno per la trasformazione sociale (specialmente in Africa e nelle Americhe) al centro. Questo spostamento ha finito col rendere i missionari semplici sostituti del clero locale (gli istituti missionari garantiscono parroci di buona qualità e a buon prezzo per i vescovi locali), prigionieri dei problemi sociali causati da crescenti ingiustizie ed esclusioni, lontani dalla meto-dologia kerigmatica, incapaci di arricchire le chiese locali con la dimensione ad gentes.

Il vicolo cieco del presente

All’inizio del XXI secolo questa situazione appare sempre più insostenibile. Mentre gli istitu-ti missionari soffrono di una crescente diminuzione di personale (a causa delle vocazioni in ca-duta libera nelle chiese del nord) e le chiese del sud dispongono di un clero crescente in numero e qualità (tanto che si può permettere di “esportarlo” in Europa e negli Stati Uniti), è giocoforza domandarsi se una evangelizzazione troppo dipendente dal modello della parrocchia abbia un futuro per gli istituti ad gentes.

Quanto poi all’opera di trasformazione sociale, io sono cosciente (come lo sono tutti i mis-sionari della mia generazione) che essa ha fatto parte integrante della evangelizzazione, soprat-tutto a partire dal Vaticano II, dalla Populorum progressio e dall’Evangelii nuntiandi di Paolo VI, e dai documenti più significativi del magistero della seconda metà del secolo XX. Ma sono pure cosciente che la sintesi raggiunta in questi documenti, e nella conseguente azione missiona-ria, sta entrando in una fase di revisione. L’ottimismo e la mistica che hanno caratterizzato que-sta fase stanno diminuendo. Nella ecclesiologia hanno guadagnato importanza altre dimensioni della missione della chiesa. Sulla scena sociale e politica sono apparsi nuovi elementi decisivi, tanto nelle Americhe che in Africa: gli attori e gli agenti della trasformazione sociale (organiz-zazioni non governative e altri) si sono moltiplicati, e sono cresciute la coscienza, la responsabi-lità e la capacità di intervento dei governi... Di conseguenza, è necessario chiedersi se una evan-gelizzazione troppo identificata con la trasformazione sociale, abbia un futuro per il missionario.

Infine, mentre gli istituti ad gentes hanno lasciato un po’ cadere l’an-nuncio del Vangelo per disperdersi nel sociale, nuovi movimenti e comunità ecclesiali hanno sperimentato e sviluppato metodologie di presenza, dialogo, annuncio e testimonianza maggiormente in linea con la evan-gelizzazione. Anche questo deve farci riflettere.

Le questioni nodali

Sapere che, nel passato, gli istituti missionari sono stati significativi... non basta: la sfida è di esserlo anche oggi e di continuare ad esserlo domani. Ed è pure importante riconoscere che non basta essere significativi socialmente (finendo magari sulle prime pagine dei giornali perché pre-senti in zone di povertà e conflitti): dobbiamo esserlo anche ecclesialmente. La domanda che ri-chiede una risposta urgente è questa: quali passi dobbiamo fare per impiegare le nostre risorse di personale e di mezzi in nuove e significative iniziative missionarie?

Dobbiamo ammettere che in varie chiese locali dell’Africa e delle Americhe il nostro compi-to missionario sembra sia terminato: ci sono comunità cristiane che camminano da sole, clero e gerarchia locali già stabiliti, chiese con sufficienti risorse per crescere e sopra le quali, di fatto, ricade il compito di evangelizzare il proprio territorio.

Qualcuno dirà che la popolazione non è totalmente cristiana, che la situazione sociale è scan-dalosa e che, quindi, c’è ancora molto lavoro pastorale da fare. Ma dov’è che le popolazioni so-no totalmente cristiane? Dov’è che non c’è una trasformazione sociale da fare secondo il Vange-lo? Dov’è che le chiese locali, e i laici in particolare, non sono chiamati a rispondere a queste sfide e ad essere protagonisti di questi cambiamenti? In Europa? In America?

Per quanto sia spiacevole ammetterlo, sembra che gli istituti missionari stiano perdendo la capacità di farsi presenti in nuove situazioni missionarie, tra popoli che non conoscono il Vange-lo e dove la testimonianza e il primo annuncio del kerigma cristiano avrebbero pieno e urgente significato. Penso, per esempio, alle periferie delle grandi città sia in Africa, che America e in Europa; penso ai paesi islamici, ai popoli e alle culture dell’Asia... Nello scrivere tutto questo, intendo presentare una situazione e non attribuire responsabilità. È chiaro, infatti, che le cause sono complesse e che ci sono situazioni oggettivamente contrarie che non possiamo influenzare, come, per esempio, l’attuale evoluzione del mondo islamico. Ma è anche chiaro gli istituti mis-sionari non devono rimanere impastoiati nelle proprie necessità o nelle necessità delle chiese lo-cali che hanno fondato. Le risorse disponibili per nuove iniziative sono certamente limitate, ma il prendere coscienza di questa situazione è già di per sé un passo in avanti verso soluzioni più positive.

Mi rendo conto che queste domande toccano la coscienza più profonda della nostra identità. Penso a S. Daniele Comboni e vedo che sono domande apparentemente lontane da lui e dal suo tempo. Allora si era davvero preoccupati di “salvare” le genti, mentre oggi sappiamo che esse possono trovare la salvezza anche nelle religioni non cristiane (quelle africane comprese!) se se-guite rettamente. Se, dunque, è diminuita l’urgenza della salvezza, che motivazioni abbiamo per evangelizzare oggi? In un’Africa alla deriva (come quella attuale, del resto!), Comboni è stato il buon samaritano della Nigrizia quando nessuno lo faceva. Ma come essere oggi il buon samari-tano senza prendere il posto di altri, senza cadere nella illusione di risolvere i problemi econo-mici e sociali delle nigrizie del nostro tempo (compito che certamente oltrepassa la missione della chiesa in un mondo globalizzato dove tanti seguono il modello dominante dello sviluppo senza sottometterlo alla critica della fede)?!

Sarà nostra missione promuovere lo sviluppo economico, sociale e culturale, com’è stato in passato per ovvie ragioni e necessità? Oggi molti popoli, specialmente in Asia, arrivano allo svi-luppo in tutti i campi, senza bisogno del Cristianesimo! Il nostro compito, allora, non sarà quel-lo di vivere il vangelo con i popoli per offrir loro una visione e una mistica che sostenga i cri-stiani nella lotta e arricchisca i non cristiani nello sforzo per una società aperta ed ecumenica? Sono convinto che S. Daniele Comboni e i nostri egregi predecessori comprendono queste do-mande e che con il loro esempio ci spingono alla ricerca di nuove risposte.

Un ritorno al carisma

Sulla base di quanto detto, è evidente che il futuro impone agli Istituti ad gentes un ritorno al carisma strettamente missionario. E questo su quattro fronti: la Parola, la Testimonianza, la Co-munità e la Ministerialità.

Anzitutto, un ritorno alla Parola. L’annuncio del Vangelo, la proclamazione del ke-rigma cristiano (della salvezza della persona umana in Cristo), ha sempre fatto parte della identi-tà della missione. Nella storia del nostro istituto e delle sue più belle iniziative, abbiamo esempi eloquenti della centralità della Parola: studio delle lingue locali, traduzione delle Scritture, tem-po e risorse dati alla catechesi e alla formazione dei catechisti. L’annuncio e la catechesi occu-pavano il centro delle metodologie missionarie dirette agli adulti, ai giovani e ai bambini, attra-verso considerevoli spazi e tempi di incontro con la gente (continui safari e soste su tutto il terri-torio). I tempi cambiano e i metodi vanno rinnovati, ma la Parola deve ritrovare la stessa centra-lità in tutti i settori della nostra attività: evangelizzazione, animazione missionaria, formazione, trasformazione sociale… Il problema va affrontato fin dall’inizio, già dalla formazione di base: i nostri candidati dovrebbero essere iniziati alla missione in un contesto più kerigmatico; lo studio della teologia e delle metodologie missionarie dovrebbero essere più centrate sui ministeri che hanno relazione con la Parola (vedi la dottrina e la pratica di S. Paolo).

In secondo luogo, un ritorno alla Testimonianza, alla qualità di una vita cristiana che da sola diventa annuncio, elemento di attrazione e di convocazione: per noi comboniani si tratta di ritornare al “santi e capaci” che Comboni voleva per i suoi missionari. Nel sottolineare questo ritorno, mi sento in linea con il più recente magistero della chiesa. Da Paolo VI (Evangelii Nun-tiandi) fino al Papa Giovanni Paolo II (Redemptor Hominis e Tertio ineunte millennio), la di-mensione della testimonianza è costantemente sottolineata. Paolo VI ci ricorda che il mondo moderno (e post-moderno) ha più bisogno di testimoni che di maestri (EN 41). E l’attuale ponte-fice ci propone la sfida di pensare e vivere la nostra missione partendo dalla piattaforma della testimonianza e della santità cristiana (“l’auten-tico missionario è il santo”).

In terzo luogo, un ritorno alla Comunità, a una missione pensata e vissuta in comu-nione e fraternità. A livello ecclesiale Giovanni Paolo II ha accentuato questo ritorno, parlando di una chiesa e di una missione come “scuola di comunione”. Per noi comboniani la dimensione della comunione è certamente anteriore alla trasformazione dell’istituto in congregazione reli-giosa; la nostra fraternità fa parte ed è richiesta dalla missione, secondo la mente e l’insegnamento del Fondatore. Per questo dobbiamo invocarlo e operare per un ritorno alla co-munità senza paura di essere mal interpretati: Comboni ci volle e ci sognò come “un cenacolo di apostoli per la Nigrizia… cenacolo dove regna la carità”. Alla luce di tutto questo, non ha senso il modo di vivere nell’istituto di chi guarda alla comunità come semplice mezzo e occasione per realizzare una missione strettamente personale nello stile e nei mezzi. Non ha senso anche per-ché oggi ci sono molti modi per realizzare progetti individuali in territori di missione. Il ritorno alla comunità è importante perché, da un lato favorisce un rinnovato senso di appartenenza e di identità, e dall’altro crea il contesto nel quale la missione del futuro deve essere vissuta: la co-munione con le chiese locali e la sinergia con le società civili. Contesto che richiede una grande capacità di vivere ed agire in koinonia e collaborazione.

Il tema della collaborazione ci porta all’ultimo punto: la Ministerialità. Si tratta di pensare la missione in un contesto di pluralismo di ministeri, dando maggior rilievo ai ministeri non ordinati (dei Fratelli religiosi, dei laici, della donna...), in linea peraltro con il nostro fonda-tore che ha saputo valorizzare sacerdoti e laici, e ha promosso il protagonismo della donna afri-cana in generale e della missionaria consacrata in particolare. Il senso ecclesiale degli istituti ad gentes dipende dalla loro capacità di vedere e collocare la loro missione nel contesto di una grande varietà di ministeri e carismi che certamente caratterizzerà la chiesa del futuro.

I nuovi percorsi

Se, come ha sottolineato più volte Giovanni Paolo II, l’uomo moderno e la società contempo-ranea sono il cammino della chiesa e del vangelo, il cammino degli istituti ad gentes sono i po-poli che ancora non conoscono il vangelo e dai quali la chiesa è assente. Fra essi, la preferenza andrà per gli esclusi, per i gruppi umani più poveri e minoritari, che vivono ai margini del mon-do globalizzato. Per noi comboniani la preferenza sarà per le nigrizie. Sono queste che oggi in-terpellano i missionari ad gentes, come una volta interpellarono Paolo: “Passa in Macedonia e vieni ad aiutarci” (Atti 16, 9).

In questi spazi di missione, quali itinerari significativi si aprono per il futuro degli Istituti ad gentes? Oltre i ministeri della Parola di cui sopra, penso che i nuovi cammini si stiano aprendo nel campo del dialogo inter-religioso. Non è facile parlare di questo tema fra noi comboniani: siamo persone orientate all’azione, a un protagonismo che non ha pazienza per accettare i tempi lunghi e le difficili strade del dialogo, inteso sia come dialogo di vita, sia come dialogo di fede. Pensiamo che questo compito spetti ad altri più preparati di noi (sta a vedere che le comboniane ci hanno sorpassato, visto che nel Capitolo 2004 hanno definito il dialogo e la riconciliazione come le sfide della missione comboniana oggi!). Ma davanti al sorgere dei fondamentalismi, della intolleranza e della manipolazione della religione per fini politici, dobbiamo renderci conto dell’importanza del dialogo, della mutua conoscenza e degli atteggiamenti di rispetto reciproco che la comunicazione sociale, pur globalizzata, non potrà mai colmare. Nella storia degli istituti missionari c’è una preziosa tradizione di contatto con i popoli non cristiani; essi, in passato, so-no stati capaci di costruire ponti con la conoscenza e la valorizzazione della loro lingua, cultura e credenze religiose. Essi dunque, più di qualsiasi altro, sono chiamati oggi nella chiesa a vivere la missione universale come presenza e punto di incontro tra culture e religioni.

Se guardiamo all’evoluzione del nostro istituto in questi ultimi anni, non vediamo nessun progresso nel campo del dialogo religioso. Portiamo avanti, non senza difficoltà, l’iniziativa del “Dar Comboni” al Cairo, in Egitto. Ma nelle altre province dell’Africa, iniziative significative di dialogo con l’Islam non sono mai riuscite a decollare. La stessa sorte è toccata alle belle idee “capitolari” sul dialogo con le religioni tradizionali in Africa e con le religioni “afro” nelle Ame-riche. L’apertura all’Asia, il continente delle grandi religioni non cristiane, ha creato un ambien-te favorevole ad un avanzamento in questa direzione; ma la resistenza alle missioni in Asia, sor-prendentemente manifestata nell’ultimo Capitolo, mostra quanto siamo lontani dal vedere, nel dialogo religioso, il cammino della missione del futuro.

Il campo molto più familiare al genio comboniano, e ad una pratica missionaria che si è ve-nuta affermando negli ultimi anni, è certamente quello della giustizia, della pace e dell’integrità del creato. Questo cammino continuerà ad avere un significato per gli istituti ad gentes, special-mente in Africa. Ma ha anch’esso un urgente bisogno di una revisione nelle attitudini e nei me-todi.

Il coinvolgimento dei missionari nella trasformazione sociale richiede sempre più un maggior rispetto della diversità dei carismi nella chiesa e il riconoscimento delle funzioni proprie dei lai-ci in generale e delle donne in particolare. Senza questa revisione, i missionari ad gentes, com-boniani compresi, saranno presto superati (se non lo sono già!) dalle nuove realtà delle chiese locali e dai nuovi protagonisti della società civile, che finiranno per emarginare i missionari e i loro metodi ritenuti ormai obsoleti. A questo riguardo il Capitolo del 1997 ha lasciato orienta-menti più articolati e concreti che il Capitolo del 2003.

Nuovo ritmo, nuove direzioni

Non solo i cammini della missione saranno nuovi. Nuovo sarà anche il ritmo dell’azione e-vangelizzatrice.

La questione di un ritmo sostenibile non è meramente formale, come non pochi, chiudendo gli occhi ad una evidenza che si impone, continuano a considerarla. Agli istituti ad gentes, infat-ti, non è più possibile mantenere il ritmo tradizionale delle loro attività, ritmo intenso, basato su una forte mistica e su considerevoli risorse in personale e mezzi economici. Oggi le vocazioni ad gentes provengono in gran parte dalle giovani chiese del sud, povere e senza una tradizione missionaria. È naturale, quindi, che i ritmi ereditati dal passato vengano rivisti e molte iniziative ridimensionate perché non possono avere continuità nel futuro. È questo discernimento che sta dietro alla questione della “revisione degli impegni”, revisione che non ha fatto grandi passi in avanti forse perché mancano ancora criteri chiari e perché siamo emotivamente legati a quello che abbiamo fatto e che stiamo facendo, ritmi compresi. Siamo restii ad alzare lo sguardo verso il futuro, non siamo interessati alla missione del dopo di noi... nonostante che il crollo di alcune iniziative sia già avvenuto! Un senso di responsabilità storica dovrebbe aiutarci ad essere mag-giormente preoccupati per la missione del futuro e quindi a trovare, in modo programmato e creativo, il ritmo che ragionevolmente potremo sostenere tenendo conto delle persone e delle ri-sorse su cui potremo contare.

La visione che prevale negli istituti missionari (evidente, ad esempio, nelle loro riviste e nella loro organizzazione interna), l’evangelizzazione è ancora pensata come un movimento (di per-sone, mezzi e iniziative) dal nord verso il sud. Ma non passerà una generazione prima che tale direzione si inverta. Non ha senso, perciò, continuare a pianificare la missione come un movi-mento dal nord al sud. Meglio incominciare a pianificarla dal sud al sud e, eventualmente, dal sud al nord! Questo cambiamento di direzione, unito a quello del ritmo sopra ricordato, sarà per gli istituti ad gentes un cambiamento molto significativo a livello di visione, di sensibilità e di mistica.

Il passato e il futuro

L’ostilità manifestata nell’ultimo Capitolo verso l’apertura all’Asia è sintomatica della ten-sione che viviamo tra passato e futuro. L’Africa oggi significa il passato, la conclusione di un’ammirabile storia del nostro carisma in azione nel continente nero. L’Asia oggi (come a suo tempo e a suo modo l’apertura alle Americhe) significa il futuro, il kairos dello Spirito. L’apertura all’Asia non è importante e significativa solo per i confratelli inviati laggiù. Essa è fondamentale per tutto l’istituto e per i suoi futuri cammini di missione: l’apertura all’Asia apre a tutti noi l’opportunità di una missione più centrata sul vangelo, più attenta alla testimonianza e alla Parola, più identificata con i valori spirituali (la contemplazione); ci richiama ad una mis-sione maggiormente sfidata dal dialogo religioso, meno dipendente dalla trasformazione sociale e più centrata sulla persona, sul genio religioso e culturale dei popoli. Il nostro istituto, piccolo come è, ha naturalmente poco da offrire all’Asia (e la accusiamo di rubare personale alla mis-sione dell’Africa!). Ma il problema non è questo. Se abbiamo poco diamo poco, ma diamolo tut-to, senza riserve.Tutto l’istituto deve essere presente nel poco che diamo. Perché questa è la sfi-da: che tutto l’istituto viva questa apertura, questa ricerca di nuovi cammini, questo sforzo di i-dentificarsi sempre più con la missione di sempre (dall’Africa, all’Asia, alle Americhe): la mis-sione del vangelo che siamo chiamati a vivere e annunciare secondo lo spirito e l’eloquente e-sempio di S. Daniele Comboni “testimone eccellente di santità e maestro di missione” per noi e per la chiesa, per oggi e per tutti i tempi.

P. Manuel Augusto Lopes Ferreira mccj
[comboniani.org]

Seminare Gesù Cristo
Vorrei farmi cibo spirituale per i miei fratelli
che hanno fame e sete di verità e di Dio;
vorrei vestire di Dio gli ignudi,
dare la luce di Dio ai ciechi,
aprire i cuori alle innumerevoli miserie umane
e farmi servo dei servi
distribuendo la mia vita ai più indigenti e derelitti.

Amare sempre e dare la vita cantando l’Amore!
Seminare la carità lungo ogni sentiero;
seminare Dio in tutti i modi, in tutti solchi;
stendere le mani e il cuore
a raccogliere pericolanti debolezze e miserie
e porle sull’altare,
perché in Dio diventino
le forze di Dio

e grandezza di Dio.
Don Orione