Ci somiglia l’Apostolo Pietro. Con slancio e generosità ha appena risposto a nome di tutto il gruppo alla domanda di Gesù, proclamandolo come il Cristo e riconoscendolo come Messia. Tuttavia, come il resto dei suoi fratelli e come spesso anche noi, egli ha in mente un’altra idea di Messia, che naufraga dinanzi all’annuncio della morte di croce e della risurrezione. (...)

Cristo non vuole una religiosità
del “quieto vivere”

Matteo 16, 21-27

Ci somiglia l’Apostolo Pietro. Con slancio e generosità ha appena risposto a nome di tutto il gruppo alla domanda di Gesù, proclamandolo come il Cristo e riconoscendolo come Messia. Tuttavia, come il resto dei suoi fratelli e come spesso anche noi, egli ha in mente un’altra idea di Messia, che naufraga dinanzi all’annuncio della morte di croce e della risurrezione.

Adesso Pietro è smarrito, la sua umanità cede alla paura, i calcoli “umani, troppo umani” che ha fatto sono stati rovesciati: il Messia non è immagine di un Dio potente e vittorioso, che sconfigge i nemici e ci trascina di gloria in gloria, ma è il segno vivente del Dio dell’amore che perde se stesso, si abbassa, lava i piedi all’umanità stanca, si annulla nel dramma della sofferenza umana e sceglie di morire pur di strappare dall’abisso della morte la creatura che ama. Dinanzi a questo progetto, che gli richiede impegno, sacrificio, donazione e amore, Pietro si spaventa e Gesù lo rimprovera duramente: lo aveva definito “pietra” dell’edificio del Regno, ora lo definisce “pietra di inciampo, ostacolo, addirittura Satana”.

Così è anche della nostra vita e della nostra fede. Siamo abitati da luci e ombre e, mentre con slancio ci appassioniamo e compiamo dei passi, allo stesso tempo la paura di impegnarci e di amare spesso ci trattiene, scalfisce le nostre presunte sicurezze e abbassa i nostri voli; così, nel cammino spirituale, a certi slanci del momento e a certi generosi impegni, corrisponde anche un immaginare Dio come una specie di “potente protettore” che mi mette al riparo dalle sfide della vita, un Dio a “uso e consumo” della mia vita, un Dio che utilizzo per la mia gloria o, molto spesso, un Dio dal quale non mi lascio mai “toccare dentro”, che non mi scuote, non mi ferisce, non sconvolge i miei schemi e non incide nelle mie scelte.

Questa religiosità del “quieto vivere”, che dispensa una falsa tranquillità e non mi smuove, che mi accarezza senza però mai mettermi in discussione sull’amore, non è quella che il Cristo vuole. Vai dietro di me, dice Gesù a Pietro. Per essere davvero cristiano devi seguire Cristo e andargli dietro, cioè vivere sulle sue orme: perdere la propria vita a vantaggio dell’altro, impegnarsi con coraggio nel bene, offrire se stessi per seminare speranza, tenerezza e perdono. In una parola: morire come Cristo. Prendere la croce di Gesù nella propria vita significa scegliere di non pensare più nel semplice calcolo umano, che si gioca sulla bilancia degli egoismi; significa scegliere di battere la via dell’amore, del dono di se, del bene a tutti i costi.

Una grande lezione per Pietro e per noi: non basta “sapere” chi è Dio e avere delle belle nozioni teoriche su di Lui; bisogna mettersi dietro di Lui e condividere il suo progetto. Essere cioè quel piccolo seme d’amore che muore e, nella tempesta del mondo, porta frutti di speranza e di vita.
[Francesco Cosentino – L’Osservatore Romano]

Passare
dal privilegio al servizio

Geremia 20,7-9; Salmo 62/63; Romani 12,1-2; Matteo 16,21-27

Il brano evangelico, che dà l’intonazione alla liturgia della parola di questa domenica, presenta le condizioni per seguire Gesù. Esse sono concentrate nell’espressione “portare la croce” al seguito del “Maestro” per condividerne il destino. Nel testo della prima lettura, che riporta una sezione delle “confessioni” del profeta Geremia, viene come anticipata l’esperienza della crisi dei discepoli, chiamati a seguire Gesù anche al costo della vita, ma per avere la pienezza di quella stessa vita.

Infatti, avversato e contraddetto nella sua missione profetica, Geremia aveva l’impressione di essere stato tradito da Dio. L’abbraccio e lo scherno lo avvilisce e lo sconvolge. Ma l’attrattiva del Signore, la sua chiamata, risulta sempre più forte di questa crisi provocata dal duro impatto con l’ambiente ostile in cui egli deve proclamare la parola di Dio. Lo contestano perché egli dà fastidio con le sue prese di posizioni che denunciano i soprusi e le violenze dei suoi compaesani. Il rapporto tra ricerca di Dio e dono della vita è presente anche nelle parole del salmo responsoriale: “poiché la tua grazia vale di più della vita … così ti benedirò finché io viva”. Il miglior commento del brano di Geremia è la preghiera di questo salmo 62 introdotta dal canto: “Ho sete di te, Signore, l’anima mia”.

Nel brano della lettera di Paolo ai Romani, che sembra estraneo alla tematica evangelica, l’apostolo delle nazioni invita a scegliere tra l’adeguamento alla mentalità mondana e l’adesione integra a Dio. Non basta una celebrazione rituale della liturgia, o una semplice memoria (rituale) del sacrificio di Cristo, se poi non è toccata la vita, e se non sbocca nell’attuazione della sua volontà. Questo dice Paolo, è il culto spirituale dei cristiani. L’apostolo insiste quindi sul rapporto tra liturgia eucaristica e culto spirituale, esistenziale che si deve realizzare nella vita di tutti i giorni.

Nel brano evangelico, i discepoli, per bocca di Pietro, erano arrivati a dire chi è Gesù: il Cristo, il Messia, Figlio di Dio. Ora si tratta per Gesù stesso di chiarire o precisare il suo destino, la sua missione e la strada da percorrere. I discepoli vengono così introdotti improvvisamente nel discorso sul dramma della croce, non dovuto ad una crudele fatalità o ad un cieco destino determinato dalla cattiveria degli uomini, ma da un disegno di salvezza voluto da Dio.

Infatti, il piano della salvezza non può realizzarsi se non passando attraverso la passione, la morte e la risurrezione. Il linguaggio della croce e la prospettiva che il destino di Gesù ne sia contrassegnato, appare insopportabile a Pietro (a causa di ciò di cui egli è stato spettatore e protagonista: la camminata di Gesù sulle acque e la sua professione di fede messianica riguardante Gesù, il quale, paternalistico e presuntuoso, protesta: “Dio te ne scampi, Signore, questo non ti accadrà mai”. Pietro avverte soltanto il dolore, l’umiliazione, la sconfitta, ma non ha il fiato sufficiente per arrivare al mattino della Risurrezione.

La croce non rappresenta un punto di arrivo, è semplicemente un passaggio, sia pure obbligato. Bisogna saper vedere al di là della croce. Inoltre per strano che possa sembrare questo disegno di Dio basato sull’ignominia della croce, chi vi si oppone o vi mette degli intralci, è giudicato da Gesù come un Satana: “Lungi da me, Satana! Tu sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini. Si tratta qui della vera definizione del termine “Satana”, cioè un ostacolo sulla strada, e qui, un ostacolo alla missione di Gesù. In modo inconscio, Pietro non si colloca più nella posizione di un discepolo, e Gesù lo invita a riprenderla. Vuole essere “consigliere di Dio”, invece di esserne il discepolo.

Tutti noi abbiamo forse troppo spesso lo stesso atteggiamento di Pietro, soprattutto quando si tratta di scansare le croci e le sofferenze; coltiviamo più o meno consciamente la vocazione di mettere Dio in processo o di insegnargli il suo mestiere Divino e il modo di governare il mondo.

Domenica scorsa Pietro è stato proclamato beato da Gesù (perché ha accolto un suggerimento, una rivelazione dall’alto. Adesso diventa Satana, perché lascia parlare l’istinto umano, nel senso dei desideri terreni e delle ambizioni messianiche trionfalistiche. Non si era sbagliato circa l’identità di Gesù, ma si sbaglia adesso circa il modo di intendere la sua missione. Da “roccia” di fondazione della comunità messianica, egli diventa pietra in cui si inciampa. Gesù aggiunge allora che chi vuole essere suo discepolo deve rimanere se stesso e condividere a tutti i costi il suo destino per prendere parte alla sua gloria finale. Egli definisce il profilo del discepolo. La prima condizione per seguire Gesù è l’autorinnegamento e il portare la croce. Questo significa “perdere la propria vita” per restare fedeli a Gesù. Ma chi la perde a causa di Gesù è sicuro di ritrovarla. Il discepolo non deve illudersi quindi di salvarsi a basso prezzo, occorre passare attraverso la stessa strada per cui il Maestro è passato. Lui alla fine sarà il giudice glorioso davanti al quale si deciderà il destino glorioso davanti al quale si di deciderà il destino di ogni uomo sulla base delle proprie azioni. Si tratta in fin dei conti di entrare nella logica di Gesù che affronta la sua sorte come scelta di fedeltà totale al Padre per approdare alla vita piena della risurrezione.

La meta che dà senso al fatto di portare la croce, di perdere la vita, i beni e il potere mondano è quindi questa vita piena e definitiva promessa a chi condivide la fedeltà a Gesù. Infatti, “qual vantaggio avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”.
Don Joseph Ndoum