La riconciliazione con il Creato, tra gli uomini, tra i popoli, tra le religioni, non è un’utopia della storia, perché in Cristo la riconciliazione è già cominciata. Con le parole dell’apostolo Paolo non possiamo mai dimenticare che: «Dio ha riconciliato a sè il mondo in Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2 Cor 5,18-20). (...)

L’urgenza della riconciliazione
Matteo 18,15-20

La riconciliazione con il Creato, tra gli uomini, tra i popoli, tra le religioni, non è un’utopia della storia, perché in Cristo la riconciliazione è già cominciata. Con le parole dell’apostolo Paolo non possiamo mai dimenticare che: «Dio ha riconciliato a sè il mondo in Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione» (2 Cor 5,18-20).

Pensiamo che cosa immensa ci è affidata; a noi non è affidato il ministero della guerra, del razzismo, del nazionalismo, a noi è affidato il ministero della riconciliazione. Ogni giorno dobbiamo sentire, vorrei dire, l’urgenza della riconciliazione. Riconciliarsi prima di tutto con la propria storia, con un passato che non può essere una zavorra pesante che ti schiaccia; riconciliarsi con il presente, per poter scorgere i segni dei tempi. Riconciliarsi con il tempo che passa; la morte è il segno più chiaro della nostra fragilità e ci può insegnare a vivere una vita che sceglie l’essenziale, nell’attesa del compimento delle sorprese del suo amore.

Chiediamo anche perdono al Signore e l’aiuto della sua Grazia, perché noi spesso non siamo una realtà riconciliata; i cristiani sono separati; anche nella chiesa, in tante case, esiste il demone della divisione. Perché spesso non siamo riconciliati? Penso che la risposta più vera stia nel fatto che tra noi c’è troppo poca Parola di Dio. Dice il Signore al profeta: «Ascolterai una parola dalla mia bocca e tu li avvertirai da parte mia» (Ez 33,7-9).

Noi a volte abbiamo annunciato parole che non erano dalla bocca di Dio; abbiamo detto tante cose, dicendo che erano le parole di Dio, e invece non era vero; erano e sono ancora oggi a volte parole di potere, di ideologia, parole dei più forti, e così siamo diventati ministri di divisione. Noi non dobbiamo dire parole che vincono, ma parole che salvano, e solo quelle riconciliano e costruiscono la pace, quella vera.

Dobbiamo essere umili e stare attenti, anche nelle nostre cattedre universitarie, nella nostra stampa, nelle nostre chiese, a diventare quasi senza rendersene conto, mistificatori della Parola, persone che hanno scambiato il vangelo con la cultura, gente che non vuole il dialogo ecumenico e con le altre religioni, persone sempre inquiete, in guerra contro tutti, che giudicano il mondo con disprezzo, e che pensano che la Fratellanza umana, nuova frontiera del cristianesimo sia una eresia.

Anche la Chiesa qualcuno dice, ha dei nemici e quindi bisogna difenderla: dal relativismo, dal soggettivismo, dal laicismo e così via. Gesù però non si è mai difeso; e allo stesso modo Pietro e Paolo non si sono mai difesi. C’è tutta una storia di nemici che abbiamo combattuto forse per non vedere il male dentro di noi: il potere, il denaro, il clericalismo. La Chiesa la difende il Signore, a noi il compito di renderla sempre più bella e attraente con un battesimo coerente con la vita.

Donaci sempre Signore un cuore riconciliante, generoso e fedele, aperto all’accoglienza e alle necessità di quanti incontriamo. Fa che la nostra fede sia coerente con l’onestà, la giustizia e la carità e sappia trasmettere alle nuove generazioni la gioia dell’incontro con il Risorto.
Francesco Pesce / Osservatore Romano

La correzione fraterna, un'arte che richiede umiltà

Ez 33,7-9; Salmo 94/95; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

La parola di Dio di questa domenica ci propone un segno importante, che dovrebbe essere riscontrabile in ogni comunità cristiana: la correzione fraterna. Questo tema appare già nella prima lettura, dove il profeta Ezechiele si sente ricordare dal Signore che è stato costituito come “sentinella per il suo popolo” col compito di vegliare sui suoi concittadini, e di ammonire chi sbaglia.

Nel brano evangelico, la correzione fraterna appare addirittura un dovere. La Chiesa è santa, ma composta di peccatori; ed ecco allora la necessità della correzione fraterna. La lezione fondamentale è che ognuno è corresponsabile della vita di fede dei fratelli; e la preoccupazione non è quella di dimostrare il torto o di punire, ma di aiutare e liberare: ciò che conta è il ricupero del fratello, e la qualità essenziale tra i membri della comunità è l’essere fratelli. Nella comunità cristiana è grandissimo quindi il valore di ogni singola persona.

Anche un solo cristiano conta, è importante e prezioso. Bisogna fare di tutto per non perderlo. Per il ricupero del fratello colpevole, Gesù insegna una procedura graduale a tre livelli. Si tratta di un procedimento di misericordia e di una traduzione umana della pazienza di Dio. Prima il peccatore va avvicinato ed ammonito a tu per tu, segretamente. Se fallisce questo primo approccio, si cerca un confronto in presenza di due o tre testimoni, persone di fiducia, che possano riuscire là dove noi non ce l’abbiamo fatta da soli. Soltanto dopo un nuovo insuccesso la mancanza rilevata può essere portata davanti all’assemblea della comunità locale.

Solo alla fine, dopo aver esaurito tutti i tentativi per far rientrare nell’ambito della comunità il fratello che ha commesso qualche colpa, questi può essere considerato come “un pagano e un pubblicano”, cioè un escluso dalla comunità. Questa scomunica o esclusione, più che un elemento punitivo, costituisce un motivo di riflessione e uno stimolo alla conversione. Essa ha una funzione pedagogica, e non vendicativa. E non è tanto la comunità che decreta l’esclusione, quanto il fratello peccatore ostinato che si pone automaticamente in stato di separazione, fuori dalla comunione.

Spesso, di fronte alla mancanza di un fratello, se ne parla immediatamente con tutti, la si pubblicizza in ogni angolo, perfino con le amplificazioni; e il colpevole è talvolta l’unico a non sapere di ciò che da tempo tutti dicono alle sue spalle. Cristo ci insegna un procedimento opposto. Nel caso di un membro della comunità che commette una colpa, l’amore del prossimo si attua nella forma della correzione fraterna. Ci si corregge perché si è fratelli, membri della comunità ecclesiale dove tutti siamo figli del Padre celeste. Ci si ammonisce perché ci si ama. Questa “correzione” non può mai essere una vendetta o mascherare un complesso di superiorità: deve stare a cuore unicamente il bene del fratello.

Occorre anche fare attenzione allo stile che la correzione fraterna deve avere: verità e carità insieme. Si tratta di afferrare la verità con le molle della carità, poiché certe verità scaraventate in maniera brutale ed offensiva possono essere tutto tranne che verità evangelica, che non è mai disgiunta dalla discrezione, dalla carità e dal rispetto della persona. Bisogna aiutare il fratello a prendere coscienza del suo stato di colpa, perché possa ravvedersi. Lo scopo è di creare nel peccatore un esame di coscienza, perché è proprio in questo tipo di situazione, come risulta nel caso della parabola del figliol prodigo, che spesso Dio si inserisce e spinge alla conversione.

Anche se sembra previsto un limite nella prassi della correzione fraterna e sembrano fissati i criteri per far parte della comunità cristiana, non vuol dire che sia limitato l’ambito dell’amore del prossimo e soprattutto quello della misericordia di Dio. Il fratello escluso continua ad essere oggetto dell’amore misericordioso del Padre celeste, che benefica tutti senza distinzione tra buoni e cattivi, giusti ed ingiusti. E in quanto figli del Padre celeste, i credenti continuano ad amare e a fare del bene anche a quelli che non fanno parte della comunità dei fratelli.

In questo ordine di riflessione la seconda lettura di questa domenica, tratta dalla Lettera ai Romani, traccia un programma di vita cristiana: sono tanti i comandamenti di Dio, e riguardano i vari aspetti della condotta; tuttavia, essi sono condensati e pienamente compiuti nell’amore.
Don Joseph Ndoum