«Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (Mt 18, 21). Dietro questa domanda che Pietro rivolge a Gesù c’è un dubbio che anche ognuno di noi porta nel cuore. Ma è davvero giusto perdonare sempre? A volte lo esprimiamo dicendo: “io perdono ma non dimentico”, che mostra quanto ci risulta difficile accettare la rivoluzione cristiana. (...)
«Un esercito di perdonati»
(Matteo 18, 21-35)
«Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?» (Mt 18, 21). Dietro questa domanda che Pietro rivolge a Gesù c’è un dubbio che anche ognuno di noi porta nel cuore. Ma è davvero giusto perdonare sempre? A volte lo esprimiamo dicendo: “io perdono ma non dimentico”, che mostra quanto ci risulta difficile accettare la rivoluzione cristiana. Vorremmo arginare in qualche modo il comandamento dell’amore e del perdono, vorremmo una giustizia un po’ più rigorosa, che almeno qualche volta esiga di rispondere al male con il male.
Il Signore spiega allora a Pietro (e a ognuno di noi) come andrebbe a finire se Dio applicasse alla lettera quella “giustizia rigorosa” che ingenuamente auspichiamo. Lo fa raccontando di un re che «volle regolare i conti con i suoi servi» (Mt 18, 23), uno dei quali risulta avere un debito di diecimila talenti (gli esperti spiegano che la somma equivale allo stipendio di molti milioni di giornate di lavoro). Il messaggio è chiaro: nessuno di noi è in regola nel suo rapporto con Dio: per dirla con Papa Francesco, «siamo un esercito di perdonati». E neppure la giustizia nelle relazioni tra gli uomini è il risultato di un puntuale regolamento di conti, dal quale in realtà nessuno uscirebbe vivo. Tuttavia il perdono non è un’amnistia generale, un condono di tutte le nostre azioni abusive, come se il Signore chiudesse un occhio e si impegnasse a dimenticare. Quello che Dio fa e che chiede a ogni cristiano di fare è proprio il contrario: guardare il male fatto da un altro con occhi buoni, con compassione, con misericordia.
Non si tratta di dimenticare il passato, ma di trasformarlo. È quanto succede in un’indimenticabile scena de La commedia umana di William Saroyan. Un giovane entra in un locale per rapinarlo, ma l’anziano negoziante, che conosce il ragazzo e sua madre, lo sconcerta porgendogli i soldi contenuti nella cassa: «Prendili e salta su un treno per tornare a casa. Non denuncerò il furto. Li rimetterò io, di tasca mia. Sono circa 75 dollari… Tua madre ti aspetta. Questo denaro è un regalo che faccio a lei. Non sei un ladro se lo prendi. Prendilo, metti via quella rivoltella e va’ a casa». Perdonare significa regalare a una persona quello che mi ha rubato. Questo dono trasforma il furto, cambiando in qualche modo il passato e recuperando, anzi redimendo ciò che era perduto.
La giustizia evangelica che sconcerta Pietro e ognuno di noi è l’unico modo di trasformare il mondo e le relazioni, che sono quotidianamente minacciate e ferite dal torto, dal sopruso e dalla violenza. «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono», insegna san Giovanni Paolo II. La giustizia evangelica, che è la via della pace nelle relazioni, è il perdono.
Prima di pensare alle grandi ingiustizie sociali vale la pena guardare a quello che succede dentro le mura di casa nostra: «La famiglia è una grande palestra di allenamento al dono e al perdono reciproco, senza il quale nessun amore può durare a lungo» (Papa Francesco). Senza perdono vicendevole non può durare neanche la famiglia di famiglie che è la Chiesa. Si tratta di imparare a guardare con occhi pazienti e buoni le mie sorelle e i miei fratelli, e ogni famiglia e istituzione della Chiesa, senza stupirmi delle loro debolezze né tantomeno scandalizzarmi degli eventuali sbagli oggettivi: «La santità nella Chiesa comincia col sopportare e conduce al sorreggere» (Ratzinger). Guardando con occhi di misericordia si impara a vedere nella debolezza altrui, anche quando genera ingiustizia, una chiamata alla comprensione e alla pazienza. Non limitarsi a sopportare più o meno stoicamente ma accorgersi che dietro a ogni sbaglio si nasconde una richiesta di aiuto.
Ognuno di noi ha bisogno di essere sorretto quando fatica a stare in piedi e di essere guardato con affetto e comprensione quando cade, come capita tutti i giorni più d’una volta. «Non ti dico di perdonare fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette» (Mt 18, 22). In questa richiesta di Gesù c’è anche la rassicurazione che il perdono quotidiano è sempre possibile.
[Carlo De Marchi – L’Osservatore Romano]
Il perdono cristiano
L’amore che prevale sulla ragione
Sir 27,30 - 28,9; Salmo 102/103; Rm 14,7-9; Matteo 18,21-35
Domenica scorsa abbiamo ascoltato i consigli di Gesù sulla “correzione fraterna”, un dovere di tutti i cristiani. Nel brano di questa domenica Egli ci invita ad un altro importantissimo comportamento tra cristiani: “il perdono fraterno”.
Il brano di Siracide, nella prima lettura, prepara alla comprensione di quest’insegnamento sul perdono reciproco. Gesù ben Sira, da buon maestro di sapienza, ammonisce: “Il rancore e l’ira sono un abominio, il peccatore li possiede. Chi si vendica avrà la vendetta del Signore ed egli terrà sempre presenti i suoi peccati”. Aggiunge: il peccatore chi si vendica dei torti subiti non può chiedere ed ottenere il perdono dei suoi peccati. A questa dichiarazione seguono due esortazioni applicative. La prima esprime il rapporto tra perdono e preghiera: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera saranno rimessi i peccati”. Il perdono dei peccati risulta anche la condizione per ottenere la salute, perché la radice ultima della malattia è il peccato.
Il maestro di sapienza evoca i motivi delle sue sentenze sul perdono reciproco: l’esistenza è breve e non vale la pena avvelenarla con l’odio e il rancore. Infatti, la coscienza del proprio limite creaturale (l’uomo è una creatura fragile, fatta di carne) è una ragione sufficiente per essere indulgenti con gli altri esseri umani, suoi simili. Inoltre gli Israeliti hanno stretto un’alleanza con il Signore (“Ricordati dell’alleanza con l’Altissimo”, cioè dell’amore misericordioso di Dio, che per primo ci ha perdonato), e quindi devono essere amici tra loro e perdonarsi.
La parabola del brano evangelico è la trascrizione di quest’agire misericordioso di Dio di cui parla il Siracide. Tutto inizia con la domanda di Simone a Gesù: “Signore, quante volte dovrò perdonare mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. Sette è il numero che indica la pienezza divina. L’uomo, normalmente, non può andare al di là della perfezione divina. Pietro vuole in qualche modo chiedere a Gesù: “devo essere come Dio?”. La risposta di Gesù è questa: “…Ma fino a settanta volte sette”, cioè dieci volte la pienezza divina moltiplicata per se stessa. Pietro voleva organizzare il perdono, avere le precisioni sull’ultima volta, sull’ora di smetterla di far i conti. Gesù gli dice che non c’è un’ultima volta.
La logica del perdono viene illustrata da un racconto simbolico che si svolge come un dramma in tre atti. Nel primo atto sono in scena un re e uno dei suoi servi che ha accumulato un debito enorme di “diecimila talenti”, che corrispondevano alla rendita annuale di Erode il Grande. Appare perciò ingenua la supplica del servo che non sarà mai in grado di saldare il suo debito. Il padrone, mosso di compassione, va ben oltre la richiesta del servo. Non si limita a una proroga nel pagamento, ma condona totalmente il debito. Il messaggio è chiaro: ognuno di noi, nei confronti di Dio, è debitore insolvibile; se non interviene l’atto gratuito del suo perdono smisurato, da soli, coi nostri sforzi ed opere, non riusciremo mai a conquistare la salvezza, che è grazia.
Nel secondo atto, il servo, insperatamente graziato, afferra per la gola un collega che gli deve una somma miserevole, “cento denari”, corrispondente a un terzo della paga annuale di un bracciante agricolo. Il servo debitore supplica il collega di aver pazienza e promette di rifondergli il debito. In questo caso la promessa è realistica. Ma il servo creditore non si lascia smuovere e fa valere i suoi diritti sul debitore. Ecco la seconda lezione: i debiti che gli altri hanno nei nostri confronti, in confronto con debito che noi abbiamo con Dio (a ciò che noi abbiamo sottratto a Dio coi nostri peccati) sono quisquilie.
Nel terzo atto la scena è dominata dall’intervento del padrone che fa chiamare questo servo spietato e gli fa vedere la sua malvagità. La “compassione” del re verso lui (debitore radicalmente insolvente) doveva servire di modello e motivo della sua compassione verso il suo collega debitore di una piccola cifra. Il padrone ha allora fatto applicare le sanzioni legali previste per un debitore insolvente. Come sarebbe stato bello se, in risposta al gesto magnanimo del suo padrone, anche lui, avesse perdonato al collega che lo supplicava.
La lezione è questa: chi non perdona sinceramente al proprio fratello si espone alla condanna da parte di Dio. Il perdono che riceviamo da Dio va donato, condiviso. In tal modo, il perdono diventa un’azione ininterrotta di trasformazione del mondo. Inoltre, se in un certo senso siamo noi a dare a Dio la misura del suo perdono dei nostri peccati, non è anzitutto che dobbiamo perdonare agli altri per ottenere a nostra volta il perdono di Dio. No. Il perdono ci è già stato dato gratuitamente. Il nostro gesto di perdono è la conseguenza, e non la causa della salvezza. Esso è la risposta, il segno manifesto che siamo stati perdonati. Quindi, la Chiesa è una comunità di uomini perdonati che perdonano.
Don Joseph Ndoum