La barca che attraversa il mare in tempesta è una bella immagine della Chiesa. Essa gode sempre della presenza di Gesù, benché sembri che egli dorma, sembri assente. I discepoli sanno che egli è con loro. La Chiesa nel mondo è sempre stata e sarà sempre investita da venti contrari, e sempre corre il pericolo che le onde del mare la riempiano, che le mentalità e le abitudini del mondo entrino in essa tanto da correre lo stesso pericolo sia chi è dentro che chi è fuori.

Sei convinto che egli non vede e non sente? Ti sembra che non si curi della sorte della barca in cui egli sta riposando? Gesù continua invece ad aver fiducia nel Padre, che sa e vede tutto e provvede alle necessità dei suoi figli con la sua onnipotenza. Quando ti assale la tempesta della prova, del dolore, del male,  della crisi di fede , la paura per il presente o per il futuro ricordati del sonno di Gesù nella barca. Non andare a svegliarlo, ma mettiti a riposare accanto a lui!

Il Signore salva dai gorghi del male

Gb 38,1.8-11; Sal 106/107; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

Il racconto della tempesta calmata dall’intervento di Gesù domina la liturgia della Parola di questa domenica. È chiara l’intenzione di porre in risalto il contrasto tra Gesù che dorme (l’unica volta, nel vangelo, in cui viene presentato mentre dorme) a poppa e i discepoli che sono persi dalla paura. Essi lo svegliano dicendogli: “Maestro, non t’importa che moriamo?”. Con questa parola (d’invocazione e di rimprovero) dei discepoli, è ugualmente posto in risalto il tema dominante di tutta la scena: la paura della morte.

Il sonno di Gesù è la conseguenza normale di una giornata faticosa, ma esprime anche la sua serena fiducia o la fede in Dio. Nella sollecitudine del Padre Scopriamo, attraverso, il suo sonno la presenza di colui che può tutto.

La recente teologia del sonno di Dio, che ne risulta, ci aiuta a purificare l’idea che ci facciamo di Dio, della sua azione, delle sue manifestazioni: avere Cristo sulla nostra barca non significa essere certi che tutto andrà per il meglio, senza la tempesta, ma significa essere convinti che tutto sta andando per il meglio in mezzo alle tempeste. Non si arriva al porto nonostante la burrasca. Si tratta di perdere a poco a poco le pretese di insegnare a Dio il suo mestiere o di imporgli i mordi di intervento legati ai nostri schemi, per accertare i suoi comportamenti e disegni che smentiscono spesso le nostre esigenze. Più concretamente, bisogna avere fede non solo perché Dio “veglia”, ma fidarsi anche di un Dio che “dorme”.

In evidente antitesi con la reazione dei discepoli, Gesù affronta la potenza minacciosa del mare nella piena consapevolezza della sua autorità. Egli si rivolge al vento e alle acque del mare con un ordine: “Taci, calmati!” Gesù si rivolge agli elementi inanimati quasi interpellasse delle persone. Infatti il mare veniva considerato come il ricettacolo delle forze del male, il luogo dove abitano e imperversano le potenze demoniache. Quindi il gesto di Gesù sta a indicare la potenza di Dio che comanda anche al mare ed esorcizza le forze infernali che vi sono racchiuse. Il timore che prende i discepoli è diverso dalla paura che contrasta con la fede. Esso, assieme allo stupore, predispone al cammino di fede suggerito dall’interrogativo circa l’identità di Gesù: “chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?”

Al di là di tutto quanto, possiamo registrare un’altra importantissima lezione: le forze del male ostacolano in tutte le maniere il diffondersi del vangelo. Però, l’evangelizzazione è portatrice di una forza che, pur rivestita di “debolezza” (il sonno di Gesù) può superare tutte le forze ostili.

L’episodio della tempesta placata rimanda, infine, alla lotta sostenuta da Cristo contro le potenze del male e della morte nella sua passione. Allora si capovolgeranno le parti: saranno i discepoli a dormire, mentre Gesù veglierà e lotterà vittoriosamente.
Don Joseph Ndoum  

“Passiamo all’altra riva”

Commentario a Mc 4, 35-41

Andare oltre le frontiere
Domenica scorsa abbiamo visto Gesù “lungo il mare” di Galilea conversando con una moltitudine di persone sul Regno di Dio con un linguaggio vicino a contadini e pescatori. Oggi vediamo come Gesù, finita quella sua conversazione, alla sera di quello stesso giorno, invita i discepoli a salire sulla barca e traversare il lago verso “l’altra riva”. Questa espressione –“l’altra riva”- sembra aver un significato molto più profondo di una semplice referenza geografica. Sappiamo che, nell’altra riva abitavano persone di cultura e religione differente, alle quali Gesù vuole incontrare e condividere con loro la stessa vicinanza di Dio. Infatti, nei vangeli ripetutamente Gesù spinge i discepoli a non rimanere nello stesso luogo, ma camminare verso altri villaggi e città e andare all’incontro di samaritani, peccatori, pagani e altri tipi di persone “differenti”.
Quest’atteggiamento missionario di Gesù fu assunto dalla Chiesa già dai primi tempi fino ad oggi. Paolo, per esempio, fu “forzato” dallo Spirito ad andare oltre la frontiera asiatica verso l’Europa (Macedonia); Francesco Xavier fecce un viaggio di mesi per portare il vangelo al Lontano Oriente; Daniel Comboni traversò il deserto africano per aprire alla Chiesa un nuovo continente; e così molti altri.
Anche oggi, la Chiesa non può rimanere attaccata alla sua posizione “di sempre”. Anche oggi lo Spirito spinge la Chiesa a cercare altre rive, superare frontiere geografiche, culturali e religiose, per andare all’incontro dell’umanità del secolo XXI nei cinque continenti: un’umanità di rifugiati a migranti, di giovani che cercano un futuro e di anziani abbandonati, di milioni di persone che sono come “pecore senza pastore” e senza un senso per la vita…. Tutti noi dobbiamo chiederci: Qual è la riva verso la quale Gesù ci invita a remare? Quali frontiere dobbiamo superare come persone, come famiglie, come comunità, come parrocchie?

Entrare nel mare e confrontare le tempeste
Sappiamo che il mare nella Bibbia rappresenta molte volte un’immagine del male che c’è nel mondo, con i suoi pericoli e tempeste, che possono distruggere e affondare la nostra piccola nave personale e anche la stessa fragile Chiesa.
Di fatto, quando uno decide di uscire del suo piccolo “mondo protetto” da tradizioni e costumi, rischia di trovarsi davanti a nuovi ostacoli e problemi, che uno non è sicuro di sapere come superare. Quando si esce dai muri della parrocchia o della comunità (dove ormai ci conosciamo e ci sentiamo abbastanza sicuri), si può trovare un mondo ostile che respinge e si oppone al nostro stile di vita e al nostro messaggio. Qualche volta, il mondo esteriore può scatenare venti fortissimi che minacciano con affondare la nostra debole fede e la fragile comunità.
Un momento come questo è quello che ci descrive Marco oggi. E Marco cci racconta che i discepoli non si comportarono da falsi super-eroi: loro avevano paura e dubitarono. Fu il momento di guardare al Signore a gridare: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”.

Anche se non lo pare, il Signore è con noi
Marco ci racconta quel’esperienza dei primi discepoli, che, sottomessi a persecuzioni a difficoltà insormontabili, dubitarono e avevano paura, ma, alla fine esperimentarono che il Signore non era morto o addormentato, ma vivo e presente con loro nella comunità che viaggiava in mezzo alle tempeste, non ostante la loro poca fede.
Per noi, come per i primi discepoli, è importante che se vogliamo intraprendere nuove iniziative missionarie, non ci dimentichiamo di portare il Signore con noi nella barca. Non dobbiamo andare in missione soltanto con il nostro entusiasmo e la nostra creatività. Se la missione è soltanto iniziativa nostra, quando venga la tempesta, affonderemo. Ma, se portiamo il Signore con noi (nella sua Parola, nei sacramenti, nella comunità, nel suo Spirito), quando arrivi il momento della difficoltà, grideremo in preghiera sincera, il Signore risponderà e con il suo potere arriveremo alla nuova riva per condividere la buona notizia della sua presenza.
P. Antonio Villarino,
Missionario comboniano

«Non mi piace chi non dorme,
dice Dio»

«Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva» (Mc 4, 34). Tra i misteri della vita di Cristo c’è un fatto che, a ben vedere, è sorprendente. Dio si incarna per realizzare la redenzione dell’intera umanità e liberarla dalla paura e dal peccato e tuttavia, pur avendo questa immensa missione da realizzare, trascorre circa un terzo della sua vita terrena dormendo, come ogni altro uomo. E il suo sonno viene descritto dal Vangelo di Marco in modo molto realistico: il Maestro, stanco per le lunghe giornate di predicazione e spostamenti a piedi, sembra letteralmente crollare dal sonno, tanto da non accorgersi della tempesta che travolge la barca che lo sta trasportando attraverso il mare di Galilea.

Esiste un sonno buono, profondamente umano. «Non mi piace chi non dorme, dice Dio», canta Charles Péguy, che definisce il sonno «l’amico di Dio» e fa dire al Creatore: «Il sonno è forse la mia più bella creatura». Esiste una sapienza che deriva soltanto dall’abbandonarsi come bambini nelle braccia paterne di Dio. Ma io non sono più un bambino! — protesta il vecchio che ognuno di noi porta dentro di sé. Sicuramente Dio non ci vuole incoscienti o immaturi, ma neppure possiamo sentirci addosso la responsabilità della salvezza della Chiesa e del mondo. L’opera di Dio si realizza con ritmi e tempi che non sono sotto il controllo di ognuno di noi: «Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4, 27).

Ma esiste anche un sonno cattivo, che è un miscuglio di paura, pigrizia, distrazione e superficialità, un torpore che rende sordi alle chiamate di Dio. «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora?» (Mc 14, 37). Il dono di sapersi abbandonare nelle braccia paterne di Dio non esime dalla lotta contro il sonno cattivo, che è un’esigenza ineludibile della vita cristiana. Gesù non promette un tempo di bonaccia e di calma piatta e per questo rivolge un invito a ognuno di noi: «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mc 14, 37-38).

Gesù non ci lascia soli nella nostra debolezza e ci invita a rivolgere al Padre la richiesta di «non abbandonarci alla tentazione» (Mt 6, 13). È questo che in realtà temiamo nel profondo del nostro cuore: essere soli e non sentire la vicinanza di Dio nelle tempeste delle nostre giornate, nelle tensioni che respiriamo sul lavoro e in casa, nelle faticose relazioni che spesso ci troviamo a vivere. È il momento di gridare nella nostra preghiera: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4, 38). A questa invocazione accorata faceva riferimento Papa Francesco nell’indimenticabile preghiera per la pandemia, nel marzo del 2020, incoraggiandoci a «guardare a tanti compagni di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita (…). Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca».

Possiamo lasciar riposare nel Signore ogni nostra paura. E nelle nostre giornate spesso così piene di scadenze e di stanchezze, abbiamo proprio bisogno di momenti di preghiera, cioè di riposo in Dio. Perché, per dirla ancora con Péguy, «chi dorme ha il cuore puro. / È il grande segreto per essere instancabili come un bambino».

[Carlo De Marchi – L’Osservatore Romano]

Fede e amore per rilanciare la Missione

Giobbe 38,1.8-11; Salmo 106; 2Corinzi 5,14-17; Marco 4,35-41

Riflessioni
Una domanda insistente percorre tutti i 16 capitoli del Vangelo di Marco, dall’inizio alla fine: “Chi è Gesù?” Anche nel brano del Vangelo di oggi, Marco pone sulle labbra dei discepoli la domanda: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?” (v. 41). I numerosi miracoli di guarigioni e la dottrina nuova, insegnata con autorità da un Maestro così sorprendente (1,27), confluiscono nella professione di fede in Gesù da parte di due testimoni oculari coincidenti: Pietro e il centurione. Infatti, a metà del Vangelo di Marco, abbiamo l’affermazione solenne del discepolo Pietro: “Tu sei il Cristo” (8,29); e alla fine, il centurione pagano, ai piedi della croce, dichiara: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (15,39). Una affermazione che riceve conferma immediata nell’avvenimento della risurrezione! (16,6).

Il Vangelo di Marco, pur nella sua brevità e concisione, è una risposta graduale e completa a quella domanda iniziale sull’identità di Gesù, con un messaggio globale e coinvolgente. “Il catecumeno nel Vangelo di Marco - il cristiano oggi, ognuno di noi - è invitato a comprendere che Dio sta per prendere possesso della sua vita e gli va incontro con una misteriosa iniziativa, che egli è chiamato ad accettare” (Carlo M. Martini). Marco, nella sua tematica evangelizzatrice, dedica poco spazio ai discorsi e alle parabole di Gesù, preferendo dare risalto agli episodi della vita e ai miracoli, che egli sa narrare sempre con vivacità di immagini ed emozioni.

Lo si vede chiaramente anche nel miracolo della burrasca sedata (Vangelo): la tempesta grande, la barca ormai piena d’acqua, il grido disperato dei discepoli, Gesù che dorme tranquillamente, sul cuscino, a poppa... Ma a Gesù basta una parola per far cessare il vento. Finisce la paura dei discepoli, ma resta il “grande timore” (v. 41) per aver visto una manifestazione del Signore. La narrazione, ricca di elementi per la catechesi, culmina con la preghiera accorata dei discepoli al Maestro e con la loro professione di fede in Lui, al quale anche il vento e il mare obbediscono (v. 41). In tal modo, gli riconoscono il potere divino, proprio di Colui che ha fissato un limite al mare (I lettura) e ha infranto l’orgoglio delle sue onde (v. 11).

Nella cultura di molti popoli, il mare (con la sua potenza, cetacei, draghi marini...) è visto spesso come antagonista della divinità, simbolo di forze negative, nemiche dell’uomo. Al contrario, il Dio della Bibbia è più potente del mare, lo domina. Per questo, la scena evangelica di oggi conteneva sia un messaggio di consolazione per le prime comunità cristiane che cominciavano a sperimentare la persecuzione, come pure un invito ai catecumeni a fidarsi di Gesù Cristo e della sua nuova proposta di vita. Egli è sempre Emmanuele, Dio con noi, anche nelle prove e burrasche di ogni genere. Anche quando dorme - il sonno del corpo o il sonno della morte - Gesù condivide con noi le situazioni di pericolo, è entrato e resta nella barca dei discepoli. Non sarà mai sopraffatto: ha sempre la parola ultima di vita. Significativamente, Marco usa qui, per due volte, il verbo greco tipico della risurrezione (egheiro), per indicare che Gesù si è svegliato, destato (v. 38.39); è vivo, presente. Però, “il Signore non viene a risolvere le tue difficoltà, ma a vivere con te nelle difficoltà. Questa è la liberazione, il mistero cristiano, il mistero di Dio” (Servo di Dio don Oreste Benzi).

La narrazione del miracolo della tempesta sedata è anche una pagina di teologia biblica sul mistero del dolore nel mondo, che fa appello alla presenza provvidente e onnipotente di Dio. Di fronte al dolore, le logiche umane fanno tutte difetto. La figura di Giobbe (I lettura) resta emblematica. L’unica àncora è fidarsi di Dio e gridargli, pur in modo crudo ma fiducioso, la nostra disperazione, come il salmista, come i discepoli: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (v. 38). Con la certezza che - come e quando lo sa Lui! - Egli ha sempre in riserva la parola per calmare la tempesta: “Taci, calmati!

L’esperienza del dolore, lo schianto per la morte di innocenti, l’indignazione per le violenze e le ingiustizie, ci spingono ad elevare lo sguardo verso la Croce, verso il Cuore trafitto di Gesù Cristo. L’amore di Gesù che abbiamo ricevuto e l’esperienza di essere salvati da Lui ci spingono ad amarlo sempre di più e a farlo conoscere ad altri, perché tutti lo amino. (*) San Paolo (II lettura), con una espressione forte e di non facile traduzione, afferma che “l’amore del Cristo ci possiede” (v. 14): ci spinge, ci stringe, ci domina, ci spezza il cuore, ci chiama alla conversione e alla missione.

Preghiamo che il Signore renda salda la nostra fede, perché nelle tempeste della vita possiamo scorgere la Sua presenza forte e amorevole e ne rendiamo testimonianza con la vita e la parola.

Parola del Papa

(*) Speciale: Riprendiamo buona parte della meditazione di Papa Francesco sull’odierno brano del Vangelo di Marco, la sera del 27 marzo 2020, in piazza San Pietro, vuota, durante il momento straordinario di preghiera in tempo di pandemia da Covid-19.

«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città… Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.

È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40). Cerchiamo di comprendere…

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità… Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te… E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita…: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo… Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera… Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai… Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale… Ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi…

Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare... nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà… Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.

Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr. 1Pt 5,7).

Sui passi dei Missionari

20   Bb. Francesco Pacheco, sacerdote, e altri 8 giovani martiri della Compagnia di Gesù, condannati al rogo a Nagasaki (Giappone) nel 1626.

·     Ricordo di tre sacerdoti italiani: don Primo Mazzolari (1890-1959), parroco di Bozzolo (Mantova), «la tromba dello Spirito Santo» (Giovanni XXIII); don Lorenzo Milani (1923-1967), parroco di Barbiana (Firenze), «fedele al Vangelo, con la sua passione educativa» (Papa Francesco); SdD. Tonino Bello (1935-1993), vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi, uomo di vita semplice, impegnato accanto ai poveri, critico contro le armi e le guerre. Nel 2017-2018, Papa Francesco andò “pellegrino” sulle tombe di questi tre profeti, che «hanno lasciato una traccia luminosa, per quanto scomoda».

·     Giornata mondiale del Rifugiato, promossa dalle Nazioni Unite nel 2000. Oggi nel mondo 80 milioni di persone fuggono da guerre, violenze, persecuzione, in cerca di asilo e rifugio.

21   S. Luigi Gonzaga (1568-1591), italiano di Mantova, figlio di una famiglia nobile e potente. Rinunciò all’eredità e alla carriera, divenne gesuita e morì a Roma all’età di 23 anni, assistendo gli appestati. È il patrono della gioventù studentesca.

22   S. Paolino da Nola (353-431), nato in Francia, poeta latino, e vescovo. Evangelizzò soprattutto la Campania (Italia meridionale).

·     Ss. Giovanni Fisher (1460-1535), vescovo di Rochester, e Tommaso Moro (1478-1535), uomo politico e magistrato, martiri inglesi. Fisher fu decapitato quindici giorni prima di Moro, a Londra. Furono intrepidi difensori della fede cattolica contro le pretese del re Enrico VIII. Tommaso Moro è patrono dei governanti e dei politici.

·     Nel 1622 Gregorio XV creò la Sacra Congregazione di Propaganda Fide (oggi Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli), per dirigere l’attività missionaria e liberare le missioni dalle ingerenze delle potenze coloniali. In seguito furono creati il Collegio Urbano (1627) per la formazione di missionari, la Tipografia poliglotta, l’Archivio storico.

23   S. Giuseppe Cafasso (1811-1860), sacerdote italiano celebre per il suo intenso apostolato svolto a Torino e dintorni, teso alla santificazione del clero e alla salvezza delle anime, con speciale dedicazione ai carcerati e ai condannati alla pena capitale (ne assistette 68 e tutti si convertirono).

24   Natività di S. Giovanni Battista, precursore del Messia, ne annunciò la venuta e gli preparò il cammino, dandone testimonianza fino al martirio. È un modello per i missionari.

·     S. Maria Guadalupe García Zavala (1878-1963), di Guadalajara (Messico), fondatrice della congregazione delle Ancelle di santa Marherita Maria e dei poveri, per l’assistenza ospedaliera agli ammalati.

·     Ricordo di Vincenzo Lebbe (1877-1940), lazzarista belga, missionario in Cina, dove fondò due congregazioni per l’apostolato di cinesi fra i cinesi. Propugnò la separazione della missione dalle ingerenze politiche. Al suo pensiero si ispirarono la lettera missionaria Maximum illud di Benedetto XV (1919) e la decisione di nominare i primi sei vescovi cinesi, presa da Pio XI, che li ordinò in San Pietro nel 1926.

25   Ven. Melchior de Marion Brésillac (1813-1859), missionario francese, vescovo in India e poi in Sierra Leone, dove morì. Nel 1856, fondò a Lione la Società per le Missioni Africane (Sma), con il programma di «andare verso i più abbandonati».

26   S. Vigilio (355-405 c.), martire, nato a Roma, terzo vescovo di Trento. Evangelizzò la regione trentina con l’aiuto di tre chierici originari della Cappadocia (odierna Turchia), che il vescovo Ambrogio di Milano gli inviò in aiuto: i Ss. martiri Sisinnio, Martirio e Alessandro, arsi vivi dai ‘pagani’ in Val di Non (29 maggio 397).

·     B. Giacomo da Ghazir (Khalil Al-Haddad) (1875-1954), sacerdote cappuccino libanese. Svolse una mirabile opera di predicazione in Libano, Palestina, Iran e Siria. Nel 1930, fondò la congregazione delle Suore Francescane della Croce del Libano, per la cura dei disabili, orfani, handicappati mentali, persone anziane e incurabili abbandonate dai loro familiari.

·     S. Josemaría Escrivá de Balaguer (1902-1975), sacerdote spagnolo, fondatore dell’Opus Dei, per promuovere l’ideale della santificazione personale nella vita ordinaria e nel lavoro.

·     Giornata internazionale a sostegno alle Vittime della Tortura, proclamata dalle Nazioni Unite nel 1997.

+++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++

A cura di: P. Romeo Ballan – Missionari Comboniani (Verona)

Sito Web:   www.comboni.org    “Parola per la Missione”

+++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++