Dalla domenica scorsa, la novità annunciata da Gesù nello sviluppare la sua rivelazione circa il pane di vita trova grandi incomprensioni e resistenze nei Giudei. Ciò non frena la sua decisione né lo induce a modificare la portata delle sue affermazioni. Piuttosto, egli annuncia con forza che la condizione essenziale per avere la vita eterna e risuscitare nell’ultimo giorno è “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”.

Giovanni 6,41-51

Incapaci di crescere nell’amore
Arturo Paoli

Il brano del Vangelo di Giovanni (6,41-51) non solo ci dice che cosa Dio si aspetta da noi, ma principalmente ci indica quale sia la nostra vera evoluzione. Che cosa vuol dire questo? Sappiamo che l’uomo è un essere in un processo di creazione permanente. Sappiamo anche che questo processo richiederà millenni molto lontani per la sua evoluzione naturale, logica, arriverà fino allo sviluppo razionale al funzionamento della ragione. Ma non basta il funzionamento della ragione per dire “l’uomo è quello che Dio ha voluto”, “l’uomo ha raggiunto finalmente il punto omega della sua evoluzione”. Guai se si dovesse dir questo! Pensate infatti quanti danni ha fatto l’uomo razionale. Non è forse l’uomo razionale quello che fa le guerre? Non è l’uomo razionale quello che accumula ricchezze e lascia morir di fame milioni di suoi fratelli? Non è sempre l’uomo razionale quello che non riesce a vivere in armonia nella coppia? Soprattutto quello che non riesce ad essere un buon educatore dei suoi figli? Anzi è piuttosto uno che schiaccia i propri figli, anche se crede di amarli tanto.

Perciò o aspettiamo un’altra tappa della nostra evoluzione, oppure davvero non ci sarebbe da stare molto allegri e molto felici con l’uomo d’oggi. E vorrei dire con l’uomo dell’Occidente cristiano, perché non si preoccupa di cercare una maggior perfezione, dal momento che “sono diventato intelligente, capace, domino il mondo, posso aver ragione delle negatività della terra”.

Perché non siamo andati avanti in quello che è essenziale? Dove non siamo cresciuti? Nell’amore! Oggi c’è un regresso fortissimo prodotto dalla tecnica, che ci impedisce di avanzare nella comprensione dell’amore. Proprio in questi giorni un giornalista ha scritto questo: «Siamo diventati più cattivi da vent’anni in qua». Più cattivi vuol dire più individualisti, più insensibili ai dolori dell’altro, più chiusi nel nostro Io fetale, che non è 1’Io vero.

Allora ci verrebbe da dire che quello in cui dovremmo evolvere, con un energico balzo in avanti, è proprio l’amore. Perché essere figli di Dio – come ci viene detto nel battesimo e la Chiesa lo ripete continuamente, anche un po’ retoricamente – significa avere la sua stessa fisionomia, rassomigliargli, essere simili a lui. E se Dio è Amore, come gli rassomigliamo? È evidente che nell’amore c’è una evoluzione, e amare l’altro non vuol dire aver abbandonato la tappa primitiva che è quella dell’uomo razionale.

Il Papa Benedetto XVI ha scritto una Enciclica, (Caritas in Veritate, Lettera Enciclica “Sullo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità”, Roma 29 giugno 2009), dove si sofferma a parlare dell’amore e della ragione, che praticamente devono fondersi.

Amare non vuol dire perdere l’intelligenza, ma nell’intelligenza può non esserci l’amore. Talvolta in questa ricerca di raffinatezza nell’impiego dell’intelligenza si mette da parte l’amore, perché considerato una forma di debolezza, l’amore è femmineo, l’amore non è degno dell’uomo che pensa!

La proposta di Gesù non è quella della iper-razionalità, il balzo che dobbiamo fare, il punto di arrivo che dobbiamo raggiungere è quello che Charles de Foucauld chiamava il Modello Unico, Gesù. Questa è l’immagine con la quale dobbiamo confrontarci, perché quella è l’immagine che Dio ha pensato che un giorno raggiungeremo. Quindi, quanto più noi oggi ci avviciniamo all’amore, quanto più cresciamo nell’amore, tanto più avanziamo verso questa immagine. L’uomo vero, l’uomo sognato da Dio, l’uomo creato dalle sue mani, è l’uomo che ama, che ama senza misura, che ama fino a donare se stesso, fino a dare anche la sua vita, proprio come Gesù. È Gesù che ha superato tutti gli ostacoli, che non si è fermato davanti alle minacce, che non si è fermato davanti alla certezza di morire sulla croce, ma è andato avanti. Perché? Ecco la domanda. È andato avanti non perché amava la sofferenza, non perché voleva essere una vittima, e neppure perché – bestemmia suprema! – il Padre lo aveva mandato a morire. Per carità! Gesù lo ha fatto solo per l’esigenza di amare fino in fondo, al massimo grado, fino al dono della vita. Qualcuno avrebbe potuto dirgli: «Guarda che c’è qualcuno che ha amato più di te, ci sono i martiri, ci sono uomini che anche per motivi politici hanno dato la vita».

Allora Gesù, proprio come Modello Unico, deve vivere l’amore fino all’ultima tappa, fino a dare la vita per gli altri, per noi.

Pertanto la nostra relazione con Gesù non è quella esteriore – vado alla messa, faccio un pellegrinaggio, lo invoco in continuazione – no, non è di questo tipo. La relazione con lui, come lui stesso ci ha detto, è quella della vite col tralcio: «Voi siete uniti a me, per diventare come me». È un amore evolutivo.

All’opposto ci sono i bigotti, che sono quelli che restano sempre allo stesso punto, sono religiosi statici, che non hanno capito assolutamente nulla, nonostante le loro numerose pratiche devozionali quotidiane. Conosco delle buone persone che dicono di non poter dormire se non pregano. Ahimè! Che disgrazia! Dio non vuole bigotti, ma persone spirituali, che crescano con lui, che lo guardino con gli occhi della fede e che gli dicano: «Vorrei essere come te, ma sono tante povero, tanto incostante, tante incapace, dammi la tua grazia, Signore». Allora ecco che il Cristo risponde: «Io sono la vita … Io sono la verità … Io sono l’Essere compiuto … Sono l’uomo finale, l’uomo Omega … quello sognato dal Padre e voluto da lui … il punto di arrivo… il traguardo … ».

Questo è Gesù, dobbiamo guardarlo così, perché allora ci sentiamo attratti da lui. E vedete, anche se uno si scarnificasse con le penitenze più atroci, non servirebbe a nulla, se non arrivassimo a fissarci su questa immagine col desiderio di raggiungerla in qualche modo, il più vicino possibile.

Direi che questo è il senso del Vangelo di Giovanni. Perciò l’uomo a cui noi facciamo i monumenti non è quello bravo, quello intelligente, ma è il Santo, è Francesco d’Assisi, il quale non si compiace d’esser buono, d’esser santo, ma invoca: «Fammi Signore strumento di tua pace». Ecco, è l’uomo capace di pace, perché capace d’amore, fino a dare la vita per gli altri.

Quelle mormorazioni che spengono la fede

1Re 19,4-8; Salmo 33; Ef 4,30 - 5,2; Gv 6,41-51

Dalla domenica scorsa, la novità annunciata da Gesù nello sviluppare la sua rivelazione circa il pane di vita trova grandi incomprensioni e resistenze nei Giudei. Ciò non frena la sua decisione né lo induce a modificare la portata delle sue affermazioni. Piuttosto, egli annuncia con forza che la condizione essenziale per avere la vita eterna e risuscitare nell’ultimo giorno è “mangiare la sua carne e bere il suo sangue”.

A questa sue parole reagiscono i suoi ascoltatori, che si mettono a discutere tra di loro dicendo: “può costui darci la sua carne da mangiare?” Questa reazione potrebbe essere assimilata a quella dei figli di Israele nel deserto, quando discutono, increduli, con Mosè perché non si fidano della Parola di Dio.

L’elemento nuovo che ricorre in queste parole di Gesù è l’espressione “bere il sangue”, posta in parallelismo con “mangiare la carne”. Se la carne rappresenta l’umanità di Gesù consegnata alla morte, anche il sangue è connesso con il fatto della sua morte. Nell’antropologia biblica il sangue richiama il principio vitale, di cui l’uomo non può appropriarsi. Gesù quindi nella sua umanità – la sua carne e il suo sangue – consegnata per amore nella morte, è fonte di vita per chi lo accoglie come dono di Dio.

Il verbo di Dio assume la condizione umana non soltanto per piantare la sua tenda in mezzo a noi, ma anche per diventare cibo degli uomini. Tutto quanto in una logica di amore, di comunione, di immedesimazione. Nel senso cioè di offrirsi perché l’altro possa esistere in pienezza.

“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”. Il verbo “dimorare” è un verbo tipico del linguaggio giovanneo e significa che il credente viene strappato a se stesso e decentrato; nel senso che il suo centro la sua dimora sono d’ora in poi in Cristo, che cambia radicalmente la fisionomia della sua vita. Il credente entra così in sintonia col mondo di Gesù, assimila le sue scelte, i suoi orientamenti e i suoi sentimenti. E questo ci fa spesso paura.
Don Joseph Ndoum