Giovedì 29 giugno 2023
Il 27 giugno all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede è stato presentato il libro “Cercando un paese innocente. La pace possibile in un mondo in frantumi” (Roma, Città Nuova, pagine 159), scritto dell’ambasciatore Pasquale Ferrara, direttore generale per gli Affari politici e di sicurezza presso il ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale. [L'Osservatore Romano]

È un libro “decostruzionista”, quello di Pasquale Ferrara. Almeno nella parte iniziale. Perché smonta pezzo per pezzo definizioni e concetti delle relazioni internazionali ormai calcificati nel pensiero politico contemporaneo. Teorie ritenute immutabili e inattaccabili. A cominciare da due parole chiave — geopolitica e realismo — che, da sole, fornirebbero quei criteri di lettura in grado di decifrare il mondo pulviscolare nel quale viviamo. E diventate, invece, secondo Ferrara, ideologie deterministiche utili a giustificare qualunque politica aggressiva e a cristallizzare un equilibrio di potenza che ha nella paura l’unica arma per mantenere l’autorità tra e sui popoli.

Inevitabile, allora, anche la critica a quanti danno oggi la globalizzazione per spacciata. Ma come, si chiede l’autore: siamo in un mondo che «non è mai stato così interconnesso», come ha detto più volte anche Papa Francesco, e noi, per “leggere” la frantumazione che ci circonda, parliamo di fine della globalizzazione? Non sarà che questo consente di “legittimare” uno stato di cose e di continuare a rimandare sine die la possibilità di affrontare una volta per tutte, e in senso unitario, i temi della solidarietà, della giustizia, delle diseguaglianze, in una parola, della pace? Un dramma, vero. Per il quale non sembra esserci via d’uscita. E proprio mentre ci troviamo nel bel mezzo di «una “policrisi”, una crisi multipla che investe diversi sistemi globali — sul piano politico, economico, tecnologico, securitario — sovrapposti e intrecciati».

Che fare, dunque? Anzitutto, «ripensare la politica internazionale come scelta, non come destino ineluttabile dettato da variabili esogene come la posizione geografica»: visto che siamo sempre più partecipi di un destino comune (il famoso battito d’ali di farfalla a Pechino che scatena un uragano a New York), allora la politica è chiamata ad adeguarsi «a questa vera metamorfosi», come l’ha definita il sociologo Ulrich Beck. Mutualità, responsabilità comune, impegno gli uni verso gli altri: si chiama «fraternizzazione del mondo». Ecco la nuova frontiera. Non bastano «gli architetti di pace»: governanti di buona volontà, organizzazioni internazionali o diplomatici fautori della mediazione. Occorrono veri «artigiani della pace»: cittadini, uomini e donne consapevoli di un orizzonte condiviso. Che lavorino dal basso. Per rispondere all’instabilità e all’insicurezza, che paiono ormai consustanziali all’antropologia corrente, occorre, sostiene Ferrara, il «realismo utopico» di chi crede in «una visione di ampio respiro», che ha il coraggio «di lottare per idee e stati di cose desiderabili» e «la consapevolezza che lo status quo è solo un fenomeno passeggero».

Eccola qui, allora, dopo la decostruzione, la fase della progettazione, quantomeno ideale, di qualcosa di nuovo. Ed è la parte più accattivante del libro, anche se la più dibattuta. Perché — in assenza di una «conversione del cuore», è ancora Papa Francesco a venirci in soccorso — rimane la più difficile da mettere in pratica. Un nuovo che si avvale di strumenti talmente rivoluzionari, da essere antichi come la storia dell’uomo. Primo, la mediazione, «anche nei conflitti che possono apparire senza soluzione»; secondo, sapere che una pace imperfetta è spesso preferibile, «a certe condizioni minime di giustizia da concordare nel corso dei negoziati, di una guerra protratta a oltranza». Cercare il «paese innocente», quindi, vuol dire cercare una politica «che guardi al mondo con la fiducia e la volontà di “fabbricare” la pace». Insomma: si vis pacem, confirma fidem, conclude Ferrara. Se vuoi mantenere la pace, occorre consolidare la fiducia. E la fede.
[Roberto Paglialonga - L'Osservatore Romano]