Sabato 30 novembre 2024
Lo stato di salute sociale di una qualsivoglia macroregione dipende in gran parte dalle condizioni economiche in cui versano gli stati nazionali che la compongono. Purtroppo, per quanto concerne l’Africa subsahariana le difficoltà non mancano. Né c’è da meravigliarsi più di tanto. Nella nostra rubrica settimanale, Hic sunt leones, abbiamo sempre evidenziato le debolezze sistemiche acuitesi a dismisura a seguito della pandemia, della crisi russo-ucraina e dal dilagare della speculazione finanziaria sulle commodity d’ogni genere. [
P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano]

Nel suo ultimo Regional Economic Outlook per l’Africa subsahariana, pubblicato alla fine di ottobre, il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha dipinto un quadro preoccupante. Ecco alcuni passaggi abbastanza eloquenti: «L’inflazione rimane a due cifre in quasi un terzo dei paesi. La capacità di servizio del debito è bassa e l’aumento degli oneri del servizio del debito (cioè, gli aumentati interessi) sta erodendo le risorse disponibili per la spesa per lo sviluppo. Le riserve valutarie sono spesso insufficienti e persistono preoccupazioni per la sopravvalutazione e la competitività. Nei loro sforzi per ridurre questi squilibri, i decisori politici devono affrontare tre ostacoli principali. (…) La crescita regionale, prevista al 3,6 per cento nel 2024, è generalmente contenuta e disomogenea, anche se si prevede una modesta ripresa l’anno prossimo. I paesi ad alta intensità di risorse continuano a crescere a circa la metà del tasso del resto della regione, con gli esportatori di petrolio che faticano di più. I fattori che frenano la crescita includono conflitti, insicurezza, siccità e carenza di elettricità».

In questo contesto, si stanno acuendo le pressioni legate all’elevata povertà, alla mancanza di inclusione sociale e opportunità di lavoro, nonché alla debole governance, aggravate dal rapido aumento del costo della vita e dagli effetti a breve termine dell’aggiustamento macroeconomico. Le pressioni politiche e la frustrazione sociale che ne derivano rendono l’aria pesante. Non a caso, il Fmi ha espresso per la prima volta nel suo periodico rapporto la preoccupazione di un aumento dei «disordini sociali». D’altronde bisogna essere realisti: in una macroregione in cui la spesa sociale viene tagliata per far fronte al rimborso di un debito sempre più oneroso e in cui l’aumento dei prezzi erode il potere d’acquisto, le condizioni di vita della gente comune saranno sempre più precarie.

Non c’è dunque da meravigliarsi se l’Africa subsahariana è lungi dall’essere uscita dalla trappola in cui l’hanno gettata la serie di shock degli ultimi cinque anni. Il Fmi è giustamente allarmato per la scarsità di fonti di finanziamento. In merito non emerge alcun miglioramento significativo. Si avverte dunque sempre più l’urgenza di riformare l’architettura finanziaria globale per facilitare un'allocazione equa, sostenibile e inclusiva delle risorse, essenziale per finanziare gli obiettivi di sviluppo dell’Africa. In sintesi, sono davvero molte le priorità che i governi africani presenteranno alla Quarta Conferenza Internazionale sul Finanziamento dello Sviluppo in programma a Siviglia (Spagna) dal 30 giugno al 3 luglio del prossimo anno.

Anzitutto vi è la questione del debito divenuta pressoché ingestibile da quando i governi africani hanno sostituito il debito multilaterale a basso costo e lungo termine con un debito verso creditori privati — assicurazioni, banche, fondi di investimento, fondi di private equity — molto più oneroso e a breve termine. Con il risultato che il debito in quanto tale è stato finanziarizzato e il pagamento degli interessi è oggi inscindibilmente legato alle attività speculative sui mercati internazionali. In questo contesto, la finanza speculativa considera inaffidabile un paese pesantemente indebitato, e di conseguenza lo costringe a pagare più caro il denaro: almeno quattro volte di più di quanto pagano i paesi economicamente avanzati.

Questo si traduce per i paesi africani non solo nell’assenza di un welfare degno di questo nome, ma anche di infrastrutture (strade, scuole, ospedali), necessarie sia alla lotta contro la povertà, sia alla creazione di condizioni atte ad avviare lo sviluppo, il quale, a sua volta, garantirebbe la restituzione del prestito ricevuto. Ma a Siviglia si dovrà necessariamente parlare anche su come affrontare i costi legati al cambiamento climatico, che attualmente assorbono almeno il 5 per cento del Pil africano. E la Cop29 sulla lotta internazionale a tale cambiamento, appena conclusa a Baku, la capitale Azerbaigian, non ha certamente offerto motivi di ottimismo in merito.

Vi è poi la questione, per certi versi enigmatica, della transizione energetica. Infatti, da una parte si chiede ai paesi del continente di effettuare la transizione, senza però avere chiaro da cosa. Alcuni paesi non hanno nemmeno elettricità o combustibili fossili da cui effettuare la transizione. In altri mancano le infrastrutture elettriche di base. Dei 733 milioni di persone nel mondo che non hanno accesso all'elettricità, l'80% – è bene rammentarlo - si trova in Africa. E l’Africa ha ricevuto solo il 2% dei 10 trilioni di dollari investiti a livello globale nella transizione energetica dal 2015 al 2022.

Altre priorità includono la lotta ai flussi finanziari illeciti e la creazione di un consenso sulla riforma del sistema fiscale internazionale. Dulcis in fundo, vi è la questione dei cosiddetti crediti di carbonio. Anche in questo caso la discrasia è evidente. Mentre in Africa il carbonio viene spesso venduto a meno di 10 dollari a tonnellata, a volte anche a soli 5 dollari a tonnellata, in Europa e in altre parti del mondo industrializzato i prezzi superano i 100-120 dollari a tonnellata.

Per affrontare questi divari di sviluppo, il Fondo monetario internazionale fornisce, in termini generali, il suo tradizionale consiglio: investire di più nel capitale umano, migliorare la gestione delle risorse naturali e promuovere la diversificazione economica.

Alla luce di quanto detto, una prospettiva sull’andamento economico del continente non può prescindere da uno sguardo all’Africa del futuro, ovvero su come si stanno indirizzando i paesi africani al loro interno, nello scacchiere mondiale e sulle mosse che stanno operando per contenere le congiunture negative. Ciò che si rileva è l’impegno nel sostenere l’interscambio commerciale attraverso l’Africa Continental Free Trade Area (AfCFTA), il libero mercato di scambio intra-africano che ha coinvolto 54 paesi africani su 55, entrato in vigore formalmente il 1° gennaio 2021.

La comunità internazionale, in particolare l’Unione Europea (UE) e i suoi stati membri, hanno in questo la responsabilità e l’interesse di sostenere il processo del libero scambio delle merci in Africa attraverso investimenti, commercio e assistenza, dimostrando, concretamente, di voler «aiutare – come spesso si dice nei circoli della politica - gli africani a casa loro». Anche perché entro il 2050 l’Ue rappresenterà poco meno del 5 per cento della popolazione mondiale e il mercato del lavoro richiederà risorse umane in grado di sostenere l’economia reale. Entro quella data un quinto dei lavoratori mondiali saranno africani ed entro il 2075 saranno diventati un terzo. Investire per colmare il divario Nord-Sud, in particolare formando i giovani e le donne, sarà quindi una grande opportunità per tutti.

C’è inoltre da considerare il posizionamento dell’Africa nei confronti del cartello dei Brics. Oltre al Sud Africa, ne sono entrati a far parte Egitto ed Etiopia. Si tratta di un’alternativa all’ordine mondiale vigente che, sfruttando a suo favore la crisi del multilateralismo di matrice occidentale, propone un altro modo d’intessere relazioni internazionali. Si prospetta, cioè, la possibilità di scardinare i meccanismi della finanza internazionale consolidati da ottant’anni di liberismo a guida occidentale, sancito negli statuti delle strutture nate dagli accordi di Bretton Woods, Banca mondiale e Fmi, ma anche nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

I Brics, infatti, rifiutano ormai una rilevanza inadeguata al loro peso economico, ormai superiore a quello dei Paesi del G7. A partire dalla Cina, che nei Brics ha certamente un ruolo guida e che con il 16 per cento del Pil mondiale pesa per solo il 5 per cento nelle decisioni della Banca mondiale. Per non parlare del Fmi nel quale gli Stati Uniti detengono il 60 per cento dei voti. E va ricordato che il debito internazionale e i suoi interessi oggi si pagano in dollari e che tra le prospettive del sistema alternativo auspicato dai Brics c’è quella di arrivare a rifonderli in monete locali.

In questo contesto l’Africa, avendo straordinarie potenzialità e disponendo di un bacino demografico in crescita esponenziale (l’età media è 20 anni) potrebbe rivestire un ruolo significativo nelle trasformazioni in corso a livello globale.

P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano