Lunedì 21 dicembre 2020
All’inizio erano in cinque persone, ora sono oltre un migliaio. Tutto era incominciato su un terreno da un ettaro. Attualmente l’iniziativa si sviluppa su 20 ettari di terreno. Non c’era formazione, in 35 anni sono stati istruiti oltre settemila agronomi. Quella di Songhai è davvero una favola concreta e reale, anzi concretissima: un centro agricolo di eccellenza nel cuore di quell’Africa che solitamente dipingiamo solo in balia della miseria. E che invece in questo caso ha generato una realtà di dimensioni notevoli e di impatto sicuro sul futuro del Continente.

Per la cura della casa comune
L’impresa agricola Songhai, avviata dal domenicano Godfrey Nzamujo

In Benin si danza
con la terra

All’inizio erano in cinque persone, ora sono oltre un migliaio. Tutto era incominciato su un terreno da un ettaro. Attualmente l’iniziativa si sviluppa su 20 ettari di terreno. Non c’era formazione, in 35 anni sono stati istruiti oltre settemila agronomi. Quella di Songhai è davvero una favola concreta e reale, anzi concretissima: un centro agricolo di eccellenza nel cuore di quell’Africa che solitamente dipingiamo solo in balia della miseria. E che invece in questo caso ha generato una realtà di dimensioni notevoli e di impatto sicuro sul futuro del Continente.

All’origine di questa singolare esperienza vi è un padre domenicano nigeriano, Godfrey Nzamujo, nato nel 1950, la cui lungimiranza è stata già premiata con numerosi riconoscimenti: il Premio Africa Leadership, il Premio Onu per la Cooperazione Sud-Sud, il Premio speciale per l’imprenditoria agricola dall’Unido, l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, l’Engineering Honors Award conseguito in California. Proprio lo Stato americano dove padre Nzamujo si era laureato in filosofia, agronomia, economia e informatica. Una competenza multidisciplinare che gli è tornata molto utile quando nel 1985 ha deciso di fondare in Benin Songhai, termine che richiama la stagione di un regno autoctono molto florido nel xvi secolo.

Cosa c’è al cuore di questa impresa agricola così convincente tanto che nei mesi scorsi anche la cnn si è recata da padre Nzamujo per riprendere dal vivo le sue coltivazioni e i suoi allevamenti? «Songhai non si basa sulle tesi di Malthus e il catastrofismo di cui egli si fa cantore. Songhai non vuole solo condividere meglio la povertà ma propone a ciascuno di tirarsi su le maniche per ridurre la povertà, fornendo delle tecnologie e dei metodi che migliorano la produzione rispettando al contempo l’ambiente e la vita sociale». Una pratica di ecologia integrale ante litteram rispetto a Laudato si’ e un esempio concreto che l’ispirazione dell’enciclica francescana non è mera utopia ma può diventare realtà concreta. Anzi, il legame tra quest’esperienza e la visione di Laudato si’ affiora più di una volta nelle parole del suo fondatore: «Un approccio sistematico dove nulla si perde», o, detto secondo l’enciclica in positivo, «tutto è connesso»: sviluppo sostenibile e nuove fonti di energia rinnovabili, scarti di produzione nei centri di allevamento che diventano sostentamento per i campi agricoli.

Tutto è iniziato nel 1985 quando padre Nzamujo voleva dar seguito ad un’ispirazione: coniugare il rispetto dell’ambiente e della mentalità africana con la possibilità di dare un futuro al Continente, sia in termini di sviluppo economico che di lotta alla miseria. Di qui la scelta su uno dei Paesi più poveri del Continente, il Benin: «Le cose sono iniziate a Ouando, una zona disabitata della zona meridionale del Paese, con un po’ di pescicultura, la realizzazione dei primi stagni, qualche coltivazione di legumi e un piccolo centro di allevamento. Non era facile, ma il progetto rispondeva alle sfide del Benin e dell’Africa in generale, ovvero il lavoro per i giovani già scolarizzati, la sicurezza alimentare, l’ambiente e la promozione della persona». Oggi Sonhgai è un centro agricolo e di allevamento con le più moderne tecnologie accoppiate al rispetto dell’ambiente: il biocarbone, ovvero carbone a uso agricolo, la moltiplicazione e la commercializzazione dei semi, il riciclaggio di rifiuti di plastica, la rivoluzione verde con i micro-organismo efficaci, un centro di sperimentazione energetica. Oggi a Songhai vengono 20 mila visitatori l’anno, tra i quali molti capi di Stato africani interessati a capire i segreti di un successo agricolo tutto made in Africa. «Songhai è soprattutto uomini e donne che hanno saputo unire i loro sforzi e fare una buona lettura per saper “danzare” con la natura – spiega padre Nzamujo nel suo libro “Songhai. L’Afrique maintenant” (Cerf), in cui si racconta anche della diffusione dell’iniziativa in altri Paesi africani: Liberia, Sierra Leone, Congo e Nigeria –. Questo è un sistema di valorizzazione del flusso energetico che circola tra gli esseri viventi, un sistema di formazione e di incubazione, un centro di sperimentazione tecnologico e un luogo di produzione di beni agricoli, di prodotti industriali, di servizi».

Da buon domenicano e persona versata negli studi, padre Nzamujo evidenzia bene quali sono le fonti ispiranti il suo lavoro: primo fra tutti il padre domenicano Luis Joseph Lebret, considerato l’ispiratore della Popolorum progressio di Paolo vi, ma anche il Nobel per l’economia Amartya Sen, con la sua teoria sulla «capacità»; sul fronte energetico, Jeremy Rifkin e un’assonanza con la visione dell’«economia di comunione» di Chiara Lubich e del movimento dei focolari.

Molto critico sui piani di sviluppo calati dall’alto senza nessun riferimento alla situazione concreta («progetti stereotipati, articolati attorno a un’attività precisa che durano solo il tempo della disponibilità finanziaria che vi è allocata»), Nzamujo sottolinea invece come Songhai è «il modello di una comunità rurale dove sono sviluppate tutta una serie di attività attorno al settore primario, secondario e terziario, e vi sono ugualmente inserite delle infrastrutture socio-economiche». Se deve dire in sintesi il punto di forza della sua visione, padre Nzamujo afferma: «La vera forza di Songhai è la teoria che nasce dall’azione quotidiana, dalla pratica agro-ecologica, dalla produzione di beni e servizi, e che rilancia verso un’azione approfondita o ancor meglio adattata alla realtà sul campo». Con una stella polare fissa, che pare quasi un’affermazione pre-Laudato si’: «Questo è il credo di base di Songhai: valorizzare per gli esseri umani, in maniera durevole, il capitale ambientale rigettando l’agro-arroganza». Una piaga che così viene spiegata dal domenicano nigeriano: «Consiste nell’imporre alla natura, ai viventi che costituiscono la terra, la nostra logica tecnicistica e meccanicistica, per farne una macchina da produzione di cui noi dobbiamo approfittare a breve termine». Come non vedere in questa stessa terminologia un’affinità istintiva con la denuncia di Laudato si’ contro «il paradigma tecnocratico»? Quello che invece si prova a fare a Songhai è «danzare con la terra», ovvero «trovare una logica in ogni ecosistema e approfittare al massimo degli “ecoservizi” di ogni territorio».

Ecco allora la singolarità di un’esperienza che unisce etica della terra e coltivazione per far uscire dalla fame una porzione, seppur piccola, del Continente, mostrando che unire etica e sviluppo non solo è possibile ma diventa doveroso: «Songhia è controcorrente alla logica dominante e vuole essere un luogo di innovazione tecnologica in terra africana, un luogo di proposte per un altro paradigma sociale e tecnologico, quello della sostenibilità, della diversità e delle sinergie. La posta in gioco è quella di ridisegnare il “pack tecnologico” per un vero sviluppo». Così a Ouando sono di casa le pompe di irrigazioni, l’uso del solare, la produzione di fertilizzanti a partire dai residui degli scarti degli animali, l’illuminazione con il solare degli allevamenti di polli…In sostanza, padre Nzamujo usa un termine molto in voga, ahimè, oggi, per mostrarne invece le possibilità positive: «Songhai è un virus. Il suo obiettivo è di infettare tutta l’Africa. Certamente non si tratta di iniettare una malattia ma al contrario la vita, la resistenza, l’immaginazione e proporre una nuova strada, una bussola per un altro stile di sviluppo».
[Lorenzo Fazzini – L’Osservatore Romano]