VIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno C: La fecondità è la prima legge di un albero

Immagine

L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene. Il buon tesoro del cuore: una definizione così bella, così piena di speranza, di ciò che siamo nel nostro intimo mistero. Abbiamo tutti un tesoro buono custodito in vasi d’argilla, oro fino da distribuire. Anzi il primo tesoro è il nostro cuore stesso: «un uomo vale quanto vale il suo cuore» (Gandhi).

L’ipocrisia avvelena i rapporti con l’altro

Siracide 27,4-7; Salmo: 91; 1Cor 15,54-58; Luca 6,39-45

Le parole della prima lettura sono semplici e convincenti. L’autore usa immagini facilmente comprensibili per aiutarci ad usare discernimento: “Quando si scuote un setaccio restano i rifiuti; così quando un uomo discute, ne appaiono i difetti… Non lodare nessuno prima che abbia parlato, poiché questa è la prova degli uomini”. Non tutto ciò che avviene dentro di noi e non tutto ciò che brilla attorno a noi è dono del Padre: dobbiamo discernere alla luce della Parola di Dio quanto vediamo o udiamo, anche ciò che percepiamo dentro di noi, altrimenti possiamo cadere vittima di inganni e tentazioni. Il discernimento è un dono grande del Signore, che va usato e coltivato.

Gesù sviluppa le stesse immagini usate dal Siracide e le adopera per istruire i suoi discepoli: un cieco guida un altro cieco, chi ha impedimenti a vedere pretende di correggere chi ha solo un piccolo difetto, l’uomo cattivo vuol dar lezione di bontà oppure proporsi come esempio agli altri. Ma proviamo a ragionarci: chi è “il cieco”? Che cos’è la correzione? Chi è veramente “buono”? Cieco non è solo, o non è tanto, un ipovedente, ma soprattutto è colui che non vede Dio, cieco è chi non riconosce che Gesù è Figlio di Dio, chi non si è preparato alla scuola del Signore e quindi non conosce la sua volontà. Allora comprendo che la parola del Signore è per me, prima che per chiunque altro.

Il discepolo di Gesù deve farsi aiutare da chi si è preparato alla sua scuola. Perché uno sia maestro non basta che voglia insegnare, ma bisogna che prima si sia preparato, si sia lasciato formare, che abbia imparato! Sarò attento quindi a non ascoltare chiunque si mette ad insegnare: prima valuterò se si è formato alla scuola di Gesù. Di correzione abbiamo sempre bisogno. Tutti infatti abbiamo degli impedimenti a vedere la realtà dei fatti così come essa è, così come il Padre la vede.

Se un fratello versa lacrime perché gli è entrata nell’occhio una pagliuzza, e quindi ha bisogno di aiuto, lo potrò e lo dovrò aiutare. Dovrò però anzitutto assicurarmi di non essere impedito io stesso da ignoranza della Parola di Dio, da pregiudizi, da uno spirito di superiorità o di insopportazione o di rabbia. E anch’io, nel mio bisogno, mi farò aiutare perciò da chi è maturato alla scuola del Signore, da chi è umile e impara dal Vangelo e mi vuol portare a vivere il Vangelo. Per correggere gli altri, accetto di essere corretto.

Attorno a noi ci sono molte persone, buone e cattive, cioè ci sono uomini che si avvicinano a Gesù e uomini che si allontanano da lui. Quali sono le persone veramente buone da ascoltare? Quali saranno capaci di aiutarmi davvero? So che Dio solo è buono. E che Gesù è unito a lui, anzi, uno col Padre. Ascolterò perciò solamente quelli che si tengono vicini a Gesù: la loro parola sarà d’aiuto per me. Chi sta lontano dal Signore non può darmi sapienza né salvezza, perché l’unico maestro sicuro e salvatore dato dal Padre è Gesù.

Non mi lascerò ingannare dalle apparenze. Frutti buoni vengono solo da persone buone, e buone non sono le persone gentili e sorridenti, ma le persone che appartengono a Gesù e vivono unite a lui e come lui ha insegnato, benché talvolta possano essere scorbutiche e irascibili! Anche noi perciò, per poter aiutare altri, ci rafforzeremo nella fede in Gesù e ci istruiremo con la sua Parola, ci lasceremo trasformare dal suo santo Spirito e vivremo in comunione con i suoi fratelli.
Don Joseph Ndoum

La fecondità è la prima legge di un albero
Ermes Ronchi

(Letture: Siracide 27,5-8; Salmo 91; 1 Corinzi 15,54-58; Luca 6,39-45)

L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene. Il buon tesoro del cuore: una definizione così bella, così piena di speranza, di ciò che siamo nel nostro intimo mistero. Abbiamo tutti un tesoro buono custodito in vasi d’argilla, oro fino da distribuire. Anzi il primo tesoro è il nostro cuore stesso: «un uomo vale quanto vale il suo cuore» (Gandhi). La nostra vita è viva se abbiamo coltivato tesori di speranza, la passione per il bene possibile, per il sorriso possibile, la buona politica possibile, una  “casa comune” dove sia possibile vivere meglio per tutti. La nostra vita è viva quando ha cuore.

Gesù porta a compimento la religione antica su due direttrici: la linea della persona, che viene prima della legge, e poi la linea del cuore, delle motivazioni profonde, delle radici buone. Accade come per gli alberi: l’albero buono non produce frutti guasti. Gesù ci porta alla scuola della sapienza degli alberi. La prima legge di un albero è la fecondità, il frutto. Ed è la stessa regola di fondo che ispira la morale evangelica: un’etica del frutto buono, della fecondità creativa, del gesto che fa bene davvero, della parola che consola davvero e guarisce, del sorriso autentico.

Nel giudizio finale (Matteo 25), non tribunale ma rivelazione della verità ultima del vivere, il dramma non saranno le nostre mani forse sporche, ma le mani desolatamente vuote, senza frutti buoni offerti alla fame d’altri. Invece gli alberi, la natura intera, mostrano come non si viva in funzione di se stessi ma al servizio delle creature: infatti ad ogni autunno ci incanta lo spettacolo dei rami gonfi di frutti, un eccesso, uno scialo, uno spreco di semi, che sono per gli uccelli del cielo, per gli animali della terra, per gli insetti come per i figli.  Le leggi profonde che reggono la realtà sono le stesse che reggono la vita spirituale. Il cuore del cosmo non dice sopravvivenza, la legge profonda della vita è dare. Cioè crescere e fiorire, creare e donare. Come alberi buoni.

Ma abbiamo anche una radice di male in noi. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello? Perché ti perdi a cercare fuscelli, a guardare l’ombra anziché la luce di quell’occhio? Non è così lo sguardo di Dio. L’occhio del Creatore vide che l’uomo era cosa molto buona! Dio vede l’uomo molto buono perché ha un cuore di luce. L’occhio cattivo emana oscurità, diffonde amore per l’ombra. L’occhio buono è come lucerna, diffonde luce. Non cerca travi o pagliuzze o occhi feriti, i nostri cattivi tesori, ma si posa su di un Eden di cui nessuno è privo: «con ogni cura veglia sul tuo cuore perché è la sorgente della vita» (Proverbi 4,23).
Avvenire

Il frutto buono

Una delle immagini più vivide che l’arte figurativa devozionale del tardo medioevo (soprattutto tra il xiv e il xvii secolo) ha sviluppato è quella del torculus Christi, propriamente del torchio mistico. Si tratta di un soggetto iconografico fortemente drammatico in cui Cristo è raffigurato disteso su un torchio o dentro un tino dell’uva: la croce è dipinta come una pressa, spesso azionata da due angeli o in alcuni casi da Dio Padre e il sangue, che proviene da questa pigiatura, raccolto come in un grande calice. L’impatto di questa immagine è non meno forte di quello della crocifissione e, nonostante non abbia di per sé nessun riferimento nella narrazione evangelica, ha ancora oggi una forte valenza simbolica e mistagogica per accedere al mistero di Cristo e anche al mistero che è la nostra vita.

Il racconto che questa immagine dischiude a chi la osserva o, meglio, a chi da questa immagine si lascia guardare, pone una domanda profonda e drammatica: cosa accade quando siamo pigiati, pressati da ciò che viviamo e da ciò che esige da noi consapevolezza e responsabilità? Quando siamo pigiati dalla croce o dalle croci della vita, cosa viene da noi: vino buono che dà vita o veleno che la toglie?

Perché — ci dice Gesù — l’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene. E ogni albero si riconosce dal suo frutto, e non vi è albero cattivo che produca frutto buono… (cfr. Lc 6, 43-45). Lui lo sa e il torculus Christi, questa immagine forse così cruenta, ce lo mostra: è Gesù il frutto buono della vigna del Padre che pigiato produce il vino buono, bevanda di vita eterna; è Gesù il frutto buono dell’albero della Croce, frutto che pressato nel torchio produce solo amore. Di questo frutto sant’Agostino dirà: «Il primo grappolo d’uva schiacciato nel torchio è Cristo. Quando tale grappolo venne spremuto nella passione, ne è scaturito quel vino il cui calice inebriante quanto è eccellente!» (cfr. Esp. Sal. 55).

Lasciamo che sia il collirio di questa immagine ad aiutarci a togliere trave e pagliuzza dai nostri occhi, perché si apra a noi limpida la visione di noi stessi e, abbandonata ogni ipocrisia, accogliamo quanto la vita ci regala per poter maturare esposti al sole della bontà, della misericordia, della benevolenza per portare frutti buoni di vita eterna.
[Fulvia Sieni - L'Osservatore Romano]

FRUTTI e RADICI
Clarisse Sant’Agata

Pieter Bruegel il Vecchio, Parabola dei ciechi,
Pittura a tempera e colore ad olio su tela, Museo e Real Bosco di Capodimonte.

Ancora una volta ci mettiamo in ascolto della parola di Gesù nel discorso della pianura. Dopo l’invito ad assumere la misura “alta” della misericordia che ci è stata usata, Luca riporta una serie di parabole dove ricorrono con insistenza due elementi in antitesi: un cieco che, presumendo di vedere, si pone a guida di un altro cieco; un discepolo e il suo maestro; un uomo con gli occhi ottenebrati da una trave che presume di indicare ad un altro uomo la pagliuzza che gli impedisce di vedere; un albero buono e un albero cattivo; frutti buoni e frutti cattivi; un uomo buono e un uomo cattivo; un costruttore accorto e un costruttore maldestro.

Di fronte alle figure di queste parabole che si contrappongono siamo chiamati a prendere posizione, a scegliere una delle due possibilità come la Via per la nostra vita. Mi sembra che questa Via indicata da Gesù passi per una scelta di profondità e coerenza, come emerge dalle parabole stesse di oggi.

Non dimentichiamo che queste parole sono rivolte da Gesù ai suoi discepoli per aiutarli a crescere come tali. Un discepolo è prima di tutto un uomo che ha innestato in Cristo la sua vita: “…non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui (letteralmente: “se siamo divenuti una stessa pianta”) a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. (Rm 6,3-5).

Con il nostro battesimo siamo stati piantati in Lui e quindi l’albero della nostra vita porterà il frutto corrispondente a questa Radice. Anche la parabola della casa costruita sulla roccia (che però oggi la liturgia non ci propone) non fa che ribadire la necessità per il discepolo di porre le fondamenta della sua vita sulla roccia che è il Cristo (“Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un saggio architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento a come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” cfr. 1Cor 3,10-11).

Dalle radici e dalle fondamenta dipende il futuro di quell’albero e di quella casa. Nessuno stupore nel vedere crollare una casa senza fondamenta nel momento in cui il fiume la investe. Chi può presumere di stare in piedi senza essere ben fondato? Si tratta di avere fondamenta “autentiche”, per le quali occorre scavare in profondità fino a trovare la roccia che non viene meno: Cristo. Le grandi acque del fiume della vita arriveranno, ma non potranno danneggiare una casa che è stata costruita su “salde fondamenta” (cfr. Eb 11,10: “Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso”).

Anche l’albero “buono” non potrà che dare buoni frutti. Ma cosa può fare la differenza fra l’albero buono e quello cattivo? O meglio possiamo chiederci, presumendo di essere alberi “buoni”: che cosa ci può impedire di dare buoni frutti?

Se, a suo tempo, il profeta Isaia aveva narrato la parabola di una vigna “tutta di vitigni genuini” della quale Dio si era preso cura che aveva dato “frutti acerbi” (cfr. Is 5), scopriamo vera la possibilità di dare anche frutti “cattivi”, in una non corrispondenza con l’attesa amorosa di Dio di fronte all’albero della nostra vita!

La bontà/bellezza dell’albero (per la quale Luca usa il termine “kalos”) corrisponde alla sua somiglianza con la “bontà/bellezza” del suo piantatore, colui che è il “buon/bel pastore che da la vita per le sue pecore” (cfr. Gv 10,11). Alla bontà del Maestro corrisponde la bontà/qualità dei suoi discepoli. Tralci di quella vite vera (cfr. Gv 15), i discepoli potranno dare il buon frutto di una vita somigliante alla sua: cioè donata! Ma perché l’albero “buono” dia frutti buoni occorre che sia radicato sempre più profondamente in Colui che ha dato l’unico frutto buono e bello. Non è forse Lui stesso quell’“albero di vita” che da frutto dodici volte all’anno (cfr. Ap 22,2)?

“Il tuo frutto è opera mia” (Os 14,9), dice il Signore a Israele che cercava una fecondità di vita lontana dal suo Signore e Dio. Questa parola di Gesù quindi è un forte appello a verificare se il nostro “frutto” rivela che siamo innestati nell’unico albero che è il Signore. Guardiamo al frutto per scoprire la nostra Radice. E se il frutto della nostra vita ci smaschera come spini o rovi, non temiamo di ritornare al Signore perché Lui può far fiorire e maturare anche “uva dalle spine”! E non si tratta di una esagerazione!

Se infatti guardiamo a Paolo, il fariseo persecutore dei discepoli di Cristo, che il Risorto trasforma nel testimone e pastore della sua chiesa, non riconosciamo che Dio è capace di cambiare “la natura” dell’albero che siamo? Che frutto potevano dare le spine di Paolo? Ed eppure il Signore non ha temuto di cercare frutti anche su questo “rovo”, fino a trovarvi il “frutto di conversione” (cfr. Lc 3,8) che ha trasformato radicalmente la vita di Paolo. Se l’albero della vita di Paolo ha dato il frutto buono di una vita conforme a quella del suo Signore, non temiamo per il frutto della nostra vita. Unica avvertenza: attenzione alla Radice!
http://www.clarissesantagata.it

La pagliuzza e la trave
Enzo Bianchi

Nell’ultima parte del discorso della pianura tenuto da Gesù dopo essere disceso dal monte con i dodici discepoli da lui resi apostoli, Luca ha raccolto sentenze diverse, parole e immagini che definisce “parabole” e che riguardano soprattutto la vita dei credenti nelle comunità.

Gesù le aveva indirizzate per mettere in guardia i discepoli dai comportamenti di alcuni uomini religiosi allora sulla scena, scribi e farisei, ma Luca le aggiorna, le attualizza per la sua chiesa. Le stesse espressioni, infatti, nel vangelo secondo Matteo sono utilizzate con maggior chiarezza polemica verso le guide di Israele (cf. Mt 7,16-18; 12,35). Queste brevi sentenze sono espresse mediante accoppiamenti: due ciechi, discepolo e maestro, tu e il tuo fratello, due alberi, due uomini, due case (cf. Lc 6,46-48). Questo stile apparteneva certamente alla tecnica retorica orale, tesa a facilitare l’imprimersi delle parole nella mente degli ascoltatori.

Il primo insegnamento sgorga da una domanda retorica posta agli ascoltatori: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadrebbero entrambi in una buca?”. L’ammonimento è evidente, ma a chi viene indirizzato? A ogni discepolo, tentato di non riconoscere le proprie incapacità, i propri errori, eppure abitato dalla pretesa di voler insegnare agli altri. Sono però rivolte anche alle “guide” della comunità cristiana, quelli che al suo interno detengono l’autorità e insegnano agli altri ma a volte sono colpiti da cecità: denunciano i peccati altrui, condannano severamente gli altri, senza mai fare un esame su loro stessi e sul proprio comportamento. Nel vangelo secondo Matteo Gesù ha avvertito questi “ciechi e guide di ciechi” (Mt 15,14; 23,16) e nel quarto vangelo è testimoniato un suo esteso insegnamento sulla cecità degli uomini religiosi, che non riconoscono di essere ciechi e dunque rimangono in una condizione di peccato, senza possibilità di conversione (cf. Gv9,39-41).

Certo, gli uomini religiosi, e anche noi quando nella comunità cristiana abbiamo il compito di guidare, ammonire e correggere chi ci è affidato, possiamo proprio essere tentati di insegnare ciò che non viviamo e magari di condannare negli altri quelli che sono i nostri peccati: denunciando le mancanze altrui, ci difendiamo dalla coscienza che ci condanna e non le riconosciamo anche come nostre. Per questo occorre una grande capacità di autocritica, un attento esercizio all’esame della propria coscienza, un saper riconoscere il male che ci abita, senza spiarlo morbosamente nell’altro.

Segue poi una sentenza sul rapporto tra discepolo e maestro, un vero richiamo alla formazione: il discepolo sta alla sequela del maestro, accetta di essere da lui istruito e formato, si dispone a ricevere con gratitudine ciò che gli viene insegnato. Di più, secondo la tradizione rabbinica il discepolo impara non soltanto dalla bocca del suo maestro ma stando accanto a lui, condividendo la sua vita in un atteggiamento umile che non presume e non si colloca mai nello spazio di un’autosufficienza che smentirebbe la sua qualità di discepolo. Un discepolo, dunque, non può essere più del suo maestro e, quando avrà completato la formazione, sarà riconoscente al maestro per il cammino percorso, fino a poter diventare lui pure maestro. Il maestro è autentico quando fa crescere il discepolo e con umiltà sa trasmettere l’insegnamento da lui stesso ricevuto; il discepolo è un buon discepolo quando riconosce il maestro e cerca di diventarlo anche lui, vivendo tutte le esigenze del discepolato.

Va però anche detto che Gesù non si limita a collocare il rapporto maestro-discepolo entro la tradizione rabbinica, ma lo trascende, indicando come la sua sequela comporti di andare ovunque egli vada (cf. Ap 14,4), di vivere coinvolti nella sua vita fino a condividere l’esito della sua morte, dunque la resurrezione. Il cammino di Gesù, quello di vita-morte-resurrezione, è il cammino del discepolo, e può essere percorso solo mediante l’attrazione della grazia di Cristo, senza confidare sulle proprie forze.

Ecco poi un ammonimento alla seconda persona singolare, che merita di essere riportato per esteso: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: ‘Lascia che tolga la pagliuzza nel tuo occhio’, mentre non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la paludosa dall’occhio del tuo fratello”. Sì, il fratello cristiano, nella vita quotidiana della comunità, può essere chiamato a correggere il fratello perché questa è una necessità della vita comune: camminare insieme comporta l’aiutarsi a vicenda, fino a correggersi.

Ma proprio in riferimento alla correzione Gesù si fa esigente: questa non può essere mai denuncia delle debolezze dell’altro; non può essere pretesa manifestazione di una verità che lo umilia; non può mai anche solo sembrare un giudizio né l’anticamera di una condanna già pronunciata nel cuore. Purtroppo nella vita ecclesiale spesso la correzione, anziché causare conversione, perdono, e riconciliazione, produce divisione e inimicizia, finendo per separare invece che per favorire la comunione. Il peccato degli altri ci scandalizza, ci turba, ci invita alla denuncia e anche questo ci impedisce di avere uno sguardo autentico e reale su noi stessi. Ciò che vediamo negli altri come “trave”, lo sentiamo in noi come pagliuzza; ciò che condanniamo negli altri, lo scusiamo in noi stessi. Allora meritiamo il giudizio di Gesù: “Ipocrita!”, perché ipocrita è chi è abitato da uno spirito di falsità, chi non sa riconoscere ciò che è vero e anzi è diviso tra ciò che appare e ciò che è nascosto, tra l’interiore e l’esteriore.

In questa esortazione Luca significativamente fa risuonare a più riprese il termine “fratello”, lo intende in senso cristiano e lo applica a tutte le dimensioni della vita ecclesiale. E se Matteo per la correzione fraterna esige una vera prassi, una procedura da adottarsi nella comunità cristiana (correzione a tu per tu, correzione alla presenza di uno o due testimoni, appello alla comunità: cf. Mt 18,15-17), Luca delinea un cammino affinché la correzione sia secondo il Vangelo: si tratta di non sentirsi mai giudice del fratello, di riconoscersi peccatore e solidale con i peccatori, di correggere con umiltà seguendo in tutto l’esempio del maestro, Gesù.

Questa serie di sentenze è conclusa dall’immagine dell’albero buono, che è tale perché produce frutti buoni, che invece non si possono raccogliere se l’albero è cattivo. Gesù richiama alla realtà e invita gli ascoltatori a discernere il vero dal falso discepolo in base al criterio dei frutti portati dalla sua vita. Non le parole, le dichiarazioni, le confessioni e neanche la preghiera bastano per dire l’autenticità della sequela di Gesù, ma occorre guardare al comportamento, ai frutti delle azioni compiute dal discepolo. Il cuore è la fonte del sentire, volere e operare di ogni essere umano. Se nel cuore c’è amore e bontà, allora anche il comportamento dell’uomo sarà amore, ma se nel cuore domina il male, anche le azioni che egli compia saranno male. Il discepolo è perciò chiamato all’esercizio del discernimento!
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