In Pace Christi

Della Piazza Alberto

Della Piazza Alberto
Geburtsdatum : 04/09/1913
Geburtsort : Tonadico TN/I
Zeitliche Gelübde : 07/10/1933
Ewige Gelübde : 07/10/1938
Datum der Priesterweihe : 16/04/1939
Todesdatum : 15/06/1990
Todesort : Verona/I

La famiglia di p. Della Piazza gestiva un rifugio sulle montagne sopra Primiero. Il piccolo Alberto vi si recava spesso e volentieri perché il contatto con la natura e la montagna lo entusiasmava. Fu proprio in quel rifugio che un giorno capitò un missionario comboniano il quale cominciò a raccontare le sue avventure africane. Il ragazzino lo ascoltava con grande attenzione e, alla fine del discorso, alla domanda del missionario se voleva andare in Africa con lui, rispose di si.

"In questo modo ù conclude la sorella ù ha avuto inizio la vocazione missionaria di Alberto".

Il parroco della curazia di Transacqua di Primiero certificò che "Alberto Della Piazza, di Giovanni e di Maria Lucian, nato a Tonadico e qui dimorante, tiene ed ha sempre tenuto una buonissima condotta. E' buono, ha un buon fondo di pietà e può dare garanzia di buona condotta".

Il primo ottobre del 1926 il ragazzino fece il suo ingresso nel seminario comboniano di Trento (Muralta) che era stato aperto proprio il primo giugno di quell'anno. All'inizio il rendimento scolastico fu piuttosto scarso. In condotta e in religione, però, riportò sempre dieci. Poi, un poco alla volta, ebbe un'ottima ripresa in tutto dimostrando, tuttavia, una spiccata propensione per le scienze.

La grande sofferenza

Il 10 ottobre del 1931 entrò in noviziato a Venegono e il 7 ottobre del 1933 emise i primi Voti. Poi passò a Verona per lo scolasticato come liceale e studente di teologia. Alberto era buono, gioviale, scherzoso, ma lo studio impegnato incideva profondamente sulla sua salute, tanto che un giorno un superiore gli espresse la sua titubanza nel farlo andare avanti. Alberto soffrì enormemente, pregò la Madonna, si raccomandò al Sacro Cuore dichiarandosi disposto a morire piuttosto che abbandonare la Congregazione.

Un anno prima dell'ordinazione p. Capovilla scrisse: "E' buono e di buona volontà. Attaccato alla sua vocazione, ma esaurito e strano al punto che fece dubitare del suo perfetto equilibrio mentale. Sottoposto ad osservazione in una clinica di Padova e poi visitato da un noto specialista di Roma fu giudicato normale. Terminati gli studi, starà certamente meglio". Così fu.

Il 16 aprile 1939 p. Alberto venne ordinato sacerdote. Il tremendo spauracchio che aveva contribuito ad affaticarlo e a prostrarlo più di tutti gli studi messi insieme si era finalmente dileguato.

Insegnante e animatore

Durante l'ultimo anno di teologia, essendoci nell'aria odore di guerra, anche Alberto frequentò il corso per infermieri. Poco dopo gli arrivò dal Distretto militare il preavviso di destinazione, in caso di richiamo alle armi per mobilitazione. Avrebbe dovuto presentarsi al Quarto Compagnia Sanità di Verona. Fortunatamente la patria non ebbe bisogno di lui.

Andò, invece, nel piccolo seminario missionario di Trento con il compito di insegnante e di animatore missionario. Questo ufficio lo teneva occupato tutta la settimana con gli alunni. Alla domenica si recava nelle parrocchie del Trentino per fare giornate missionarie.

Non era difficile la vita di studente con p. Della Piazza, sia perché era un tipo allegro e amante degli esperimenti a base di chimica e di elettronica, sia perché ricordava quanto aveva tribolato lui stesso su quei libri.

Intanto scoppiò la guerra. Il seminario comboniano di Muralta venne distrutto dalle bombe e i ragazzi furono mandati a casa. I missionari, non potendo andare in Africa perché le vie erano chiuse, approfittarono di quella forzata vacanza per intensificare l'animazione missionaria in vista della raccolta di fondi per la ricostruzione del seminario, e per cercare le vocazioni che lo avrebbero abitato.

Appena terminato il conflitto, l'edificio fu ricostruito a tempo di record, e risultò più bello, più ampio e più adatto allo scopo del precedente. Anche quanto a vocazione ci fu una straordinaria esplosione.

P. Della Piazza, però, era stato mandato a Padova come cooperatore nella chiesa annessa all'istituto, dove lavorò anche come insegnante fino al momento di partire per la missione.

In Africa con un mazzo di fiori

Il primo luglio 1946 poté finalmente partire per l'Africa. In quel mare, durante la guerra, era stato affondato un suo fratello. Prima di imbarcarsi, la mamma gli mise in mano un mazzo di fiori ben confezionati, e gli disse:

"Quando giungerai in vista di Alessandria, lasciali cadere in acqua e recita una preghiera per tuo fratello. Poi digli che sono i fiori che la mamma depone sulla sua tomba".

"Farò quanto mi dici, mamma. E avrò cura perché si conservino freschi fin laggiù".

"Purtroppo non saranno più tanto freschi - rispose mesta la mamma - ma lo saranno il mio ricordo e la mia preghiera". Giunto in prossimità di Alessandria, p. Alberto celebrò quel mesto rito con intima commozione e con la partecipazione dei confratelli e della gente che viaggiavano con lui.

A Trento e a Padova aveva dato buona prova di sé come insegnante. A Torit, dove fu destinato, venne perciò nominato direttore e incaricato delle scuole. In un tempo relativamente breve imparò la lingua. Conosceva il tedesco e l'inglese. In missione avrebbe imparato altre cinque lingue locali.

Non si accontentava, infatti, di badare alla scuola, ma andava nei villaggi a trovare la gente, a portare le medicine agli anziani, a divertire tutti con i suoi esperimenti, per cui si procurò subito una grande notorietà pari al logoramento fisico che nuovamente lo stava minando.

Ma p. Alberto obbediva più all'entusiasmo che sentiva dentro che alle sue reali possibilità fisiche. P. Gambaretto, superiore a Torit, scrisse: "Da quanto mi consta è un ottimo soggetto, attivo, zelante, obbediente. La sua venuta mi fu di grande sollievo e ne ho ringraziato il Signore e i superiori".

Tra le zanzare di Lafon

Nel 1948 venne aperta la missione di Lafon, dedicata a Maria Consolatrice. C'era davvero bisogno di consolazione per i missionari di quella zona! P. Della Piazza fu uno dei primi ad andarvi. Per un buon periodo dell'anno il territorio era coperto di acquitrini con un clima impossibile. Non si poteva dormire né di giorno né di notte, causa l'umidità, il caldo e le zanzare che assalivano i malcapitati senza un attimo di tregua, quasi volessero dissanguarli.

I mezzi erano scarsi e poveri per cui i missionari non avevano neanche la possibilità di difendersi e di nutrirsi adeguatamente. Anche le soddisfazioni quanto a ministero non erano rosee, data la diffidenza della gente e la difficoltà di seguirla nelle sue migrazioni tra quelle paludi.

Mentre i missionari, immersi nell'acqua fino alla cintola, trascinavano i pali per costruire la missione e magari inciampavano e cadevano, i Neri, invece di dar loro una mano, ridevano a crepapelle gustandosi quelle scene.

Correva il detto che "quelli di Lafon o morivano o diventavano matti". Coloro che uscivano da quell'inferno giustificavano il loro modo di fare, qualche volta strano, con questa battuta: "Attento, ché sono stato a Lafon".

La sorella del Padre racconta questo episodio: "P. Alberto ci scrisse che un giorno, mentre era in visita ai villaggi, fu preso da un eccesso di stanchezza da non farcela più. Infatti cadde a terra semisvenuto. Aveva sudato molto e non aveva trovato un goccio d'acqua, essendo nella stagione asciutta. Quando si sentì morire, gli venne in mente che la mamma, prima di partire per l'Africa, gli aveva messo in tasca un sacchettino di pezza con dentro alcune medagliette della Madonna dicendogli di non separarsene mai. Estrasse quel sacchettino, se lo accostò alle labbra e cominciò a succhiare. Ebbe l'impressione di bere e, un po' alla volta, anche le forze ritornarono, per cui poté rincasare sano e salvo".

P. Della Piazza si buscò la malaria cerebrale. Si sa che, qualche volta, questa malattia lascia delle brutte conseguenze. P. Alberto, tuttavia, riuscì ad uscirne vivo, anche se profondamente scosso, per cui dovette al più presto rientrare in Italia.

Scrisse mons. Mazzoldi nel 1950: "P. Alberto è un missionario zelante e servizievole. Ha molta entratura con gli indigeni in missione e fuori per la sua bonarietà e buon senso nel trattare le loro questioni e nel visitarli. Fisicamente è piuttosto debole per cui c'è pericolo dell'esaurimento. Dimentica facilmente le cose ed è parecchio disordinato. Fa un apostolato molto buono".

Come ai vecchi tempi

Dal 1951 al 1958 lo troviamo nuovamente in Italia. Prima come animatore missionario a Verona, poi - gli ultimi due anni - come insegnante dei Fratelli a Pellegrina.

La sua predicazione missionaria si era arricchita dell'esperienza di missione. La gente lo ascoltava volentieri perché raccontava tanti episodi sugli usi e i costumi degli Africani. Erano tempi difficili per coloro che andavano a predicare giornate missionarie. L'Italia era nella fase della ricostruzione, molti dovevano emigrare per mancanza di lavoro, la povertà dilagava. P. Alberto alle volte tornava a casa con le tasche quasi vuote. Allora entrava in crisi. Diceva: "Forse non sono più adatto a questo lavoro, o i tempi stanno cambiando e io non me ne accorgo, o la gente parla un altro linguaggio".

Si trovò più a suo agio a Pellegrina. Con gli aspiranti Fratelli esercitava quello spirito pratico che lo aveva sempre caratterizzato, e diceva loro: "Guardate che se volete ottenere dei buoni risultati in Africa, bisogna fare così e così". Cioè, vale più la pratica che la grammatica.

Esperto in "rotazione"

L'aria della pianura veneta lo rimise completamente in sesto, per cui si sentiva pronto ad affrontare nuovamente l'Africa. Questa volta i superiori lo mandarono in Uganda, a Kangole, come addetto al ministero. Il clima di quel deserto spinoso dove vivono i Karimojong non era certo un posto ideale per chi era debole di nervi. Infatti, dopo appena due anni, dovette ritornare in Italia. Trascorse un anno a Pordenone, un po' in riposo e un po' come animatore missionario finché, nel 1963, fu nuovamente destinato a Trento come insegnante e addetto alle giornate missionarie. Vi rimase fino al 1966. Poi fu trasferito a Thiene per passare, poi, fino al 1970, a Carraia sempre come incaricato dell'animazione missionaria.

Dopo un anno di riposo ad Arco (1970-1971) fu in Casa Madre a Verona ancora come incaricato delle giornate missionarie (1971-1974), quindi a Pesaro (1974ù1976) con lo stesso incarico, e finalmente a Verona (1976-1981) con lo stesso compito di predicatore di giornate missionarie.

Un collasso che lo portò sull'orlo della tomba mise fine alla sua attività esterna. Dal 1981 alla morte fu in Casa Madre come ammalato.

Ha sofferto molto

P. Alberto Della Piazza è un confratello che ha sofferto molto e che non sempre è stato capito. Ciò lo ha portato a chiudersi un po' nel suo mondo fatto di strumenti elettronici, di piccioni che entravano liberamente nella sua camera per mangiare il becchime che egli procurava, di piccoli favori fatti ai confratelli - e con tanta soddisfazione e gioia - quando si trattava di aggiustare l'orologio o di fare qualche saldatura agli spilli che sostengono i crocifissi da mettere sul risvolto delle giacche.

La sofferenza di p. Alberto è adombrata in una testimonianza di fr. Benetti, che riportiamo.

"Sono stato con p. Della Piazza a Thiene e a Verona tra gli anni '60-'70. Si notava che aveva un fare un po' strano. Erano le conseguenze della dura vita africana nel Sudan meridionale. Aveva, però, tante belle qualità di intelligenza, specie verso le cose scientifiche, elettroniche, ecc. Erano il suo argomento forte. Gli piaceva scherzare molto con racconti e barzellette. In genere non voleva nessuno con lui quando andava a fare la giornata missionaria quasi che avesse vergogna a farsi sentire dai confratelli. Una volta accettò che l'accompagnassi con tre ragazzi a Trento, chiesa di Sant'Antonio. Con stupore di tutti si sentiva chiaramente la sua voce anche quando non era al microfono. Tutti si guardavano in girò sbalorditi sentendolo agli altoparlanti. Egli aveva fatto ciò che oggi è comune: aveva applicato e nascosto sotto la pianeta un radiomicrofono.

Le sue prediche erano belline, però tirava in ballo troppi vermi e insetti, tanto che qualche fedele diceva: 'Si esce di chiesa che ci pare di sentire i vermi scorrere per la schiena'. Il suo pezzo forte nella predicazione era 'il verme di Guinea: come si estrae dalla caviglia del piede'.

Si può facilmente capire che questi discorsi forse potevano andar bene solamente prima del Concilio, non dopo. Ma ognuno dà ciò che può. Per questo qualche parroco ebbe a protestare presso i superiori per la sua predicazione 'sorpassata'.

Egli, tuttavia, andava volentieri a fare le giornate missionarie, con tanto di tricorno, e stava in ginocchio a pregare, edificando la gente. E confessava". Il fatto, però, di vedersi respinto da qualche parroco, costituiva per lui una sofferenza non indifferente che gli provocava un senso di scoraggiamento".

Sulla sua auto, una Fiat 850, aveva installato come antifurto un terribile serpentaccio giallo e nero di plastica. Giaceva arrotolato e con la testa in atteggiamento di attacco, appena dietro il lunotto posteriore. Un congegno elettronico, che azionava quando la macchina era in sosta, faceva muovere lentamente quella bestiaccia. Tale congegno  faceva congelare il sangue nelle vene anche a chi sapeva che il serpente era finto. Nessuno gli toccò mai la sua auto.

Il campanello d'allarme

Una sera del 1982, mentre tornava dalla giornata missionaria, si sentì male. Stringendo i denti e richiamando tutte le sue forze, riuscì a pilotare la macchina fino nel cortile di Casa Madre. Come uscì dall'abitacolo, cadde a terra svenuto. Era già buio, ma il Signore volle che p. Gaetano Beltrami, pure di ritorno dal ministero, lo vedesse. Con l'aiuto di qualche altro, si accompagnò l'ammalato fin sulla poltrona del telefonista. Rantolava. Suor Milena, subito accorsa, gli misurò la pressione. Lo sfigmomanometro andò a 300, il massimo, e si sentivano ancora i battiti, segno che la pressione era più alta. La suora gli praticò subito un salasso, mentre il portinaio di turno telefonava all'ospedale per il ricovero.

Se la cavò, ma da quel giorno non volle più uscire per ministero.

A Verona con allegrezza

Tutti coloro che arrivavano in Casa Madre, come prima persona normalmente incontravano p. Alberto che, con l'immancabile sigaretta in bocca, salutava il nuovo arrivato chiedendo come era andato il viaggio.

Per tenere allegra la compagnia, confezionava uccellini che cantavano, alzavano e abbassavano la testa elettronicamente e facevano altre acrobazie. Sempre con il suo radiomicrofono nascosto sotto la giacca, egli parlava mentre era in refettorio e, chi passava davanti alla sua stanza al terzo piano, sentiva la sua voce e diceva: "Diavolo! Come fa a parlare qui se è in refettorio?".

Un giorno un "baldo giovane" della redazione di Nigrizia si presentò al pranzo in refettorio con i calzoncini corti e le gambe ben abbronzate. Ci fu un bisbiglio specialmente all'estrema destra dove normalmente si mettono gli anziani.

Il giorno dopo, p. Alberto apparve in refettorio con un paio di calzoncini di tela bianca a pois rossi. Tutti sorrisero divertiti, e lui: "Credono di stupirci, loro, perché sono giovani! Stanno freschi!". E tutto finì con una risata.

Nel 1989 p. Alberto celebrò il suo cinquantesimo di messa. I superstiti - erano ancora un discreto gruppetto - volevano organizzare una festa insieme. Il superiore di Gozzano gli chiese un parere in proposito, a nome di p. Vincenzo Carradore, un altro che celebrava le nozze d'oro.

"Io le nozze le ho già fatte una volta. Anche quel giorno celebrerò per conto mio alle cinque e mezzo del mattino come il solito, e non voglio feste. Ho detto anche a mia sorella che non si faccia vedere".

"Trasmetterò il tuo desiderio".

Per il giorno della sua festa, detto confratello gli fece trovare una letterina augurale nel messale che adoperava per la sua celebrazione mattutina.

Qualche mese dopo, incontrandolo nuovamente, p. Alberto gli disse:

"Grazie per gli auguri e per le preghiere. Li ho graditi". Si, p. Della Piazza, nonostante la sua scorza ruvida, aveva un cuore sensibile e sapeva apprezzare i piccoli gesti. Anzi, forse faceva il duro (e per questo rinunciò alla sua festa) per non lasciarsi commuovere.

La morte arrivò quasi improvvisa colpendolo prima con una paralisi per cui fu ricoverato all'ospedale di Borgo Trento, e poi arrestandogli quel suo cuore già tanto provato dalle tribolazioni della vita di missionario di frontiera. La salma, dopo i funerali a Verona, è stata traslata nel cimitero del suo paese. Dal Paradiso avrà ancora un sorriso, un saluto e un augurio per tutti i confratelli che varcheranno la soglia di Casa Madre.                P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 169, gennaio 1991, pp. 98-104