Sabato 27 maggio 2017
“La missione secondo Papa Francesco – Le nuove prospettive della missione Ad Gentes e il doveroso ripensamento della maniera di fare missione degli istituti missionari” è un testo da Gabriele Ferrari, italiano di Rovereto (TN) e ex-superiore generale dell’Ordine dei Missionari Saveriani. Il testo è stato pubblicato, in italiano, sulla rivista di SEDOS [Servizio di Documentazione e Studi sulla Missione Globale]: Bulletin 2016, Vol. 48, N° 7/8 – July-August, p. 17-25.

 

La missione secondo Papa Francesco

Le nuove prospettive della missione Ad Gentes  e il doveroso ripensamento della maniera di fare missione degli istituti missionari

“Chiesa e missione" in questi ultimi decenni è stato un binomio classico che esprimeva la relazione obbligata che intercorre tra i due termini. Oggi tuttavia, alla luce del Concilio Vaticano II, potrebbe essere tranquillamente abbandonato, dal momento che Lumen gen­tium e, ancora più esplicitamente, Ad Gentes affermano che la Chiesa è il popolo che Dio si è scelto per proclamare nel mondo le meravi­glie di Colui che l'ha chiamata dalle tenebre alla sua luce meravigliosa (cf. 1Pt 2,9), quel popolo pellegrino nel tempo che è "per sua na­tura" missionario (AG 2). Ciò significa che la Chiesa è missione prima di fare missione. Lo afferma anche papa Francesco, il quale ricorda a ogni cristiano che essere discepolo di Gesù implica essere nello stesso tempo anche mis­sionario (Evangelii gaudium n. 120 1), e con un tratto autobiografico si identifica con la mis­sione: "Io sono una missione su questa terra" (273). Purtroppo questa verità, a cinquant'anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, non è ancora entrata nella prassi ecclesiale. Molti cristiani, sia nelle fila del clero che tra i laici, ritengono la missione ad gentes un'attivi­tà aggiunta, attribuita alla Chiesa, la quale po­trebbe tranquillamente esistere anche senza di essa. La storia delle missioni lo prova la fatica per aggiornare metodi e personale missionario sta a dimostrarlo, e ogni, anno in occasione della Giornata missionaria mondiale è possibi­le rendersi conto di quanto questo impegno sia occasionale e marginale nella vita di molte comunità cristiane e di molti fedeli. Si può sperare che la celebrazione dei cinquant'anni dalla conclusione del Concilio, insieme con la forza propositiva di papa Bergoglio, riesca a far recuperare la coscienza missionaria delle comunità cristiane e a far finalmente com­prendere che la missione è una dimensione es­senziale dell'ecclesiologia tracciata dal Conci­lio?

Provvidenzialmente papa Francesco con la sua esortazione apostolica Evangelii gaudium punta a una "conversione missionaria" della Chiesa e invita ogni fedele a "discernere quale sia il cammino che il Signore gli chiede" e a "uscire dalla propria comodità per raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo"(20). La situazione attuale del mondo non permette più alla Chiesa di restare inerte e ferma ad attendere; deve "uscire" dai suoi confini verso i lontani, gli esclusi e coloro che hanno smarrito il contatto con lei (20). Per quanto il linguaggio di papa Bergoglio sia inu­suale, per essere provocatorio, va detto subito che egli non ha inventato nulla di nuovo in ec­clesiologia. Si è limitato a riprendere la cate­goria di "Chiesa-popolo di Dio", che si trova nella Sacra Scrittura, una categoria andata in eclissi nel corso dei secoli, ma recuperata dal Concilio Vaticano II {Lumen gentium 9). Purtroppo nel corso degli anni Settanta, per paura di possibili derive democratiche, essa è stata abbandonata e sostituita con quella di "Chiesa-comunione" ufficialmente assunta nel corso del Sinodo straordinario del 1985. Non si può dire che ci sia stato un "colpo di mano" e me­no ancora un tradimento del Concilio da parte della gerarchia, tuttavia aver lasciato andare in ombra la categoria "Chiesa-popolo di Dio" ha ulteriormente allontanato la Chiesa dalla sua vocazione missionaria, concentrando l'atten­zione sulla comunità e la comunione. E se è vero che anche il binomio "comunione e mis­sione" ha una sua legittimità e un suo signifi­cato a partire dalla comunione trinitaria, e ha permesso in questi anni di comprendere e vi­vere la comunione - un aspetto essenziale della Chiesa -, tuttavia papa Bergoglio ha chiara­mente optato per ritornare alla categoria "po­polo di Dio"(17), perché questa favorisce e sottolinea la responsabilità missionaria e pro­fetica della Chiesa e di ogni discepolo in essa, senza negarne la dimensione comunionale.

Questo inserisce la Chiesa di papa Francesco nel dinamismo della storia e le imprime le di­mensioni inarrivabili del regno di Dio, al cui servizio la Chiesa si trova, come egli ha detto all''Angelus del 12 ottobre 2014: "La bontà di Dio non ha confini e non discrimina nessuno ( ... ) A tutti è data la possibilità di rispondere al suo invito, alla sua chiamata; nessuno ha il di­ritto di sentirsi privilegiato o di rivendicare un'esclusiva ( ... ) Noi dobbiamo aprirci alle pe­riferie, riconoscendo che anche chi sta ai mar­gini, addirittura colui che è rigettato e disprez­zato dalla società, è oggetto della generosità di Dio. Tutti siamo chiamati a non ridurre il Re­gno di Dio nei confini della "chiesetta" - la no­stra "chiesetta piccoletta" - ma a dilatare la Chiesa alle dimensioni del regno di Dio".

Una "Chiesa in uscita" secondo papa Francesco

Non a caso o per eccesso di fantasia papa Francesco considera la Chiesa di Gesù Cristo una "Chiesa in uscita", una Chiesa dinamica che si apre verso il mondo, che non si ripiega su sé stessa e sui suoi problemi interni, ma tie­ne lo sguardo sulle "periferie" geografiche ed esistenziali. Infatti, una Chiesa che non si apre al mondo, ha ripetutamente detto Francesco, è una Chiesa "malata"(49), che diventa sterile e che cade in quelle "tentazioni" di cui parla il papa nel secondo capitolo della Evangelii gaudium.

Tali tentazioni, cioè l'accidia egoista, il pes­simismo e soprattutto la mondanità spirituale, sono altrettante patologie da cui la Chiesa de­ve tenersi lontana e di cui, eventualmente, si deve curare, perché compromettono la gioia dell'evangelizzazione.

La "Chiesa in uscita" non può che essere una Chiesa estroversa, in ascolto del mondo e delle sue speranze. "Essere Chiesa significa essere popolo di Dio", dice Francesco, "fermento di Dio in mezzo all'umanità", "luogo della mise­ricordia gratuita dove tutti possano sentirsi ac­colti, amati, perdonati e incoraggiati"(114). La Chiesa è "la casa paterna dove c'è posto per ciascuno", "non è una dogana" che seleziona chi può entrare e chi deve restarne fuori (47), ma "come madre sempre attenta si impegna perché [tutti] vivano una conversione che re­stituisca loro la gioia della fede e il desiderio di impegnarsi con il Vangelo"(14 e 139). Non è pensabile tracciare in questa sede l'identikit della Chiesa secondo Francesco. Del resto non è intenzione del papa innovare in questo cam­po, ma solo applicare coerentemente la dottri­na conciliare. Una volta però richiamato il vol­to tradizionale della Chiesa come popolo di Dio pellegrino nel mondo, Francesco ne trae le conseguenze per i cristiani che egli considera tutti "discepoli-missionari", non discepoli e missionari, ma missionari proprio perché di­scepoli e nella misura in cui vogliono essere fedeli a sé stessi e alla loro vocazione cristiana. Come in occasione della pubblicazione della Evangelii nuntiandi - l'esortazione apo­stolica di Paolo VI sull'evangelizzazione del mondo contemporaneo (1975) - anche in oc­casione della pubblicazione della Evangelii gaudium, che sintomaticamente cita a parec­chie riprese il documento di Paolo VI, certi ambienti missionari conservatori, legati cioè alla missione ad gentes classica, hanno reagito con disappunto temendo che allargando la missione a tutta l'attività della Chiesa si inde­bolisse e fosse compromessa la già debole specificità della mis­sione ad gentes in un momento in cui il per­sonale missionario è in sofferenza per la ridu­zione numerica.

Costoro forse non si rendono conto che iso­lare la missione ad gentes non fa che chiuderla in un passato che ormai non si può far rivivere e in un modello che oggi non è più attuale né attuabi­le. Credo invece che papa Francesco, con que­sto documento programmatico del suo pontifi­cato, offra alla missione tout court e quindi anche alla missione ad gentes tre elementi di novità che possono rinnovarla e renderla ri­spondente alle attese del mondo d'oggi.

Contestualmente egli interpella gli Istituti missionari a procedere nella revisione del mo­dello della missione ad gentes, che dopo la fi­ne del colonialismo è ormai irrimediabilmente sorpassato e outdated.

Una missione che punta alla testimonianza

La prima novità è espressa da un'afferma­zione che ha scosso e scandalizzato i tradizio­nalisti, che temono si metta in questione quel­lo che finora si è sempre fatto: "La Chiesa cre­sce non per proselitismo, ma per attrazio­ne" (14.131). Quest'affermazione, che papa Francesco ha mutuato da Benedetto XVI 2, manda in archivio il modo di fare missione che ha caratterizzato la missione ad gentes dei due ultimi secoli, quando i missionari provenienti dal mondo occidentale esportavano il messaggio evangelico inevitabilmente rivestito di forme culturali occidentali e si presentavano essi stessi con un inevitabile - ancorché inconscio e spesso non voluto -complesso di superiorità e di conquista nei confronti dei non cri- stiani. Con tale affermazione, papa Francesco suggerisce una nuova modalità di fare missione, che nuova non è perché è stata la missione della prima comunità cristiana, la "missione in atto" 3 o la missione per irradiazione o attrazione (cf. At 2,47)" 4. E la missione che si fa a partire dalla testimonianza feriale e gioiosa di una comunità plasmata dalla comunione dello Spirito Santo dall'Eucaristia, fatta di persone che irradiano nel loro compor- tamento il volto del Signore e la carità dello Spirito del Risorto. Il papa non condanna certamente la generosità e le opere degli evangelizzatori del passato, molti dei quali hanno pagato con il sangue la fedeltà all'annuncio del Vangelo. E neppure pensa che l'evangelizzazione, come annuncio del Vangelo e plantatio ecclesìae, sia andata fuori moda. Il papa va invece alla radice della missione e invita a far missione testimoniando il Vangelo con la vita e offrendo il Vangelo vissuto, condividendo con tutti, e soprattutto con i lontani, gli esclusi e i più poveri, la gioiosa certezza che abita il cuore dell'evangelizzatore, che cioè "Dio lo ama, che Gesù Cristo lo ha salvato, che il suo amore ha sempre l'ultima parola"(151). E la gioia che nasce dalla scoperta della salvezza che contagia l'altro e gli mostra, prima ancora di dirglielo con la parola, il mistero del Regno, la vita cioè che viene dalla morte di Cristo in croce. Lo dice il papa all'inizio della Evangelìì gaudìum: "La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che s'incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall'isolamento [ ... ] In que­sta Esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evan­gelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni". L'annuncio del Vangelo nasce quindi dalla gioiosa testimonianza dell'incontro con Gesù e della novità di vita che esso ha prodot­to nel discepolo missionario, dell'amore susci­tato in lui dall'esperienza della misericordia e dell'amore gratuito che Gesù offre a tutti e dal­la volontà di condividere questa lieta notizia con chi non l'ha ancora ricevuta. Vivendo in mezzo alla gente e condividendo le "gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono" (Gaudium et spes 1), il discepo­lo missionario mostra, con il suo comporta­mento prima che con la parola, il volto di Ge­sù e il mistero del regno di Dio. Di qui l'im­portanza che egli non contamini l'immagine del discepolo missionario con quella del tecni­co e dell'imprenditore di opere pur sante e be­nefiche, ma rimanga soprattutto il cercatore di Dio, il pellegrino povero e solidale con il po­polo in mezzo al quale si trova e insieme al quale va alla ricerca gioiosa e carica di adora­zione dei "semi del Verbo" (Ad gentes 11) che lo Spirito ha seminato nei solchi della storia.

Una missione in dialogo con le culture

La seconda novità che il papa introduce nella comprensione della missione della Chiesa oggi è l’importanza della cultura e quindi del dialogo 5 con il mondo a tutti i livelli e con tutti gli interlocutori e del processo d’inculturazione nel momento dell’evangelizzazione. Non si tratta di una novità, ma dell’accentuazione di una dimensione permanente della missione che viene presentata come stile della missione della Chiesa. In passato l'accento andava sul dialogo come incontri di esperti che si con­frontano. Oggi il papa presenta il dialogo co­me un "cammino" ineludibile, una realtà quo­tidiana dei fedeli che prima di sottolineare le differenze culturali o religiose, cercano di condividere quello che è comune nella vita e nella fede. Il papa afferma il dovere di dialo­gare con tutti, di attivare ogni forma possibile di dialogo sull'esempio di Gesù nell'incontro con la Samaritana (cf. 72 e 120) e potremmo aggiungere con Nicodemo, con il cieco nato e in generale con i discepoli: una caratteristica dello stile di Gesù, soprattutto nel quarto van­gelo.

Il dialogo, come impegno e stile della Chie­sa, è stato già autorevolmente formulato cin­quant'anni fa da Paolo VI nella sua enciclica Ecclesiam suam. In essa papa Montini afferma che la Chiesa "deve venire a dialogo col mon­do in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa pa­rola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio" (Ecclesiam suam 67). Dialogo dice incontro desiderato e atteso, ascolto sincero, stima e rispetto per l'interlocutore; dice anche intenzione di apprendere e non solo di inse­gnare. Papa Francesco riprende questa modali­tà della missione e insiste sulla necessità per la Chiesa di dialogare con tutti e sempre, "con gli stati, con la società - che comprende il dialogo con le culture e le scienze - e con i non creden­ti". Il dialogo s'impone alla Chiesa perché essa non ha tutte le soluzioni e sa di poterle indivi­duare e trovare come frutto di una ricerca promossa insieme a tutti gli uomini di buona volontà. Scrive papa Bergoglio: "Né il papa né la Chiesa posseggono il monopolio dell'inter­pretazione della realtà sociale o della proposta di soluzioni per i problemi contemporanei" (184, cf. 241). In secondo luogo, la Chiesa dialoga, cioè ascolta anche gli altri che si met­tono in ascolto di Dio, perché essa "che è di­scepola missionaria, ha bisogno di crescere nell'interpretazione della Parola", mettendosi all'ascolto dello Spirito che parla a tutti e non solo alle Chiese, attraverso la storia e per mez­zo dei cosiddetti "segni dei tempi". Infine, il dialogo è necessario alla missione della Chie­sa, non è un'esigenza congiunturale bensì un tratto del suo stile, perché inscritto nell'identità della Chiesa, la quale è fatta a immagine della Trinità, di un Dio che è dialogo. "Per essere fedele all'iniziativa divina, la Chiesa deve en­trare in un dialogo di salvezza con tutti" (Dia­logo e annuncio 1991, n. 38). Nella visione di Paolo VI e del Concilio il dialogo non è un mezzo per convincere l'interlocutore, ma l'at­teggiamento con cui la Chiesa si mette all'a­scolto degli altri nella certezza che Dio parla a tutti, cristiani e non cristiani; quindi la Chiesa ha da imparare da tutti e non solo da insegnare 6.

Purtroppo ancora molti cristiani ritengono il dialogo un optional della missione oppure un ambito riservato solo a certi esperti. Il fatto che papa Francesco lo richiami nuovamente e lo dichiari importante e necessario nelle sue varie espressioni, come dialogo di vita (128) e dialogo con le varie religioni (242-258), rin­forza la dottrina del magistero e toglie il so­spetto - ingiusto e offensivo - che i missionari cedano alla tentazione dell'irenismo per non dover inquietare la coscienza altrui con la pro­clamazione del Vangelo e delle esigenze cri­stiane.

L'impegno per l’inculturazione

Un altro aspetto della missione che, per quanto se ne parli da decenni ormai, risulta ancora nuovo o, quanto meno, poco realizzato e che il papa chiede oggi alla missione della "Chiesa in uscita", è l'impegno per l'incultura­zione della fede. La Chiesa è cosciente che il Vangelo per essere trasmesso ha bisogno della cultura (115-116). Per questa ragione il papa rinnova l'appello ai missionari affinché cono­scano, rispettino e promuovano la cultura di ogni popolo secondo l'insegnamento del Con­cilio (Ad gentes 22) e del magistero ecclesiale (Redemptoris missio 52-54). Anche qui nessu­na novità, perché a partire dall'incarnazione del Verbo, la Parola giunge all'uomo necessa­riamente attraverso la propria cultura, sicché l'inculturazione è una dimensione obbligata dell'evangelizzazione. Nel nostro mondo mul­ticulturale l'urgenza d'inculturare la fede e il Vangelo (115) si è fatta più viva. Il papa riba­disce quest'esigenza, che non è di oggi 7, che cioè il cristianesimo non può essere trasmesso secondo "un unico modello culturale" (116): l'esigenza dell'inculturazione nella missione, formulata già dal 1979, è presente in tutti i do­cumenti del magistero pontificio di qualsiasi argomento essi trattino. Ciononostante non si sono fatti molti passi in avanti, perché la paura di compromettere l'unità e la comunione ha frenato molti dei possibili tentativi. Con papa Francesco il discorso dell'inculturazione esce ancora una volta dalla discussione accademica per spingere gli evangelizzatori a procedere finalmente a metterla in pratica.

Un ambito in cui papa Francesco chiede alla "Chiesa in uscita" di incarnarsi o inculturarsi è il mondo dei poveri, riformulando ampiamente il tema della povertà e dei poveri e sviluppan­do quella "opzione per i poveri" che, pur pre­sente nel magistero della Chiesa, in questi ul­timi decenni era stata guardata con qualche so­spetto a motivo delle possibili manipolazioni ideologiche. Oggi Francesco l'ha sdoganata af­fermando apertamente: "Desidero una Chiesa povera per i poveri" (198). Ritorna in queste parole la prospettiva dell'ecclesiologia conci­liare che in Lumen gentium n. 8 ha parlato di una "Chiesa dei poveri", prospettiva troppo presto dimenticata. Essa ritorna oggi non più come un aspetto dell'ethos ecclesiale, ma co­me una "categoria teologica prima che cultura­le, sociologica, politica o filosofica... La Chie­sa ha fatto una opzione per i poveri intesa co­me una 'forma speciale di primazia nell'eserci­zio della carità cristiana, della quale dà testi­monianza tutta la tradizione della chiesa' (198). Questa opzione - insegnava Benedetto XVI - 'è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per ar­ricchirci mediante la sua povertà'" (ibid.). La missione della Chiesa ne è profondamente se­gnata perché i poveri hanno un magistero e la "misteriosa sapienza" di Dio ci raggiunge at­traverso di loro (ibid.). Nessuno può esimersi dall'ascoltare il grido dei poveri, "nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale" (201). L'op­zione per i poveri è una dimensione della mis­sione della Chiesa e una doverosa dimensione del processo d'inculturazione.

Una missione pluriforme

La terza novità è legata a quanto detto fino­ra. La Chiesa cattolica negli ultimi secoli, per ragioni storiche ben comprensibili, ha irrigidi­to i modelli teologici e i paradigmi pastorali in un'uniformità che, per salvare l'unità, è diven­tata un freno più che uno stimolo all'evange­lizzazione. Papa Francesco ha espressamente dichiarato di voler uscire da questa rigidità e favorire un maggiore pluralismo e ne ha indi­cato il fondamento nella "libertà inafferrabile della Parola, che è efficace a modo suo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi" (22). Di questa intenzione sono testimoni le molte citazioni che il papa fa dei documenti degli episcopati in Evangelii gaudium, oltre all'insistenza sulla necessità di una maggiore inculturazione nell'annuncio del Vangelo nelle varie e diverse situazioni in cui la Chiesa si trova e sull'impegno dichiarato di lasciare più spazio alle iniziative pastorali locali: "Non credo... che si debba attendere dal magistero papale una parola definitiva o completa su tut­te le questioni che riguardano la Chiesa e il mondo. Non è opportuno che il papa sostitui­sca gli episcopati locali nel discernimento di tutte le problematiche che si prospettano nei loro territori. In questo senso, avverto la ne­cessità di procedere in una salutare decentra­lizzazione" (16). Francesco non si nasconde il rischio di una pluriformità della Chiesa, anzi prevede che la Chiesa sarà "un popolo dai molti volti" (115), che "esprime la sua autenti­ca cattolicità e mostra la bellezza di questo volto pluriforme" (116), perché il messaggio rivelato "non s'identifica con nessuna cultura", e non si deve cadere in forme di "vanitosa sa­cralizzazione della propria cultura" (117). Questa insistenza sull'incarnazione dell'unica Chiesa e del suo magistero in forme culturali diverse cambia lo stile finora seguito dalla pra­tica del magistero. L'affermazione di Redemptoris missìo 52, secondo cui l'inculturazione è stata "un'esigenza che ha segnato tutto il cammino storico" della missione, esprime un auspicio più che un fatto. Anche in questi ul­timi anni, pur affermando teoricamente il do­vere dell'inculturazione e quindi di un plurali­smo di approcci nella missione, il magistero ha soprattutto messo in guardia dai rischi e dai pericoli connessi in un'inculturazione non riu­scita, bloccandone in tal modo la realizzazio­ne. È ormai tempo che si passi all'incultura­zione della fede e della Chiesa nella varietà e pluralità delle culture. Papa Francesco solleci­ta la Chiesa al coraggio e alla creatività, ad aprirsi al mondo senza lasciarsi intrappolare dalla paura di sbagliare (cf. 49). Se la Chiesa è pluriforme, pluriforme sarà anche la missione. In alcuni ambienti essa si svolgerà secondo i canoni classici della missione ad gentes, fatta di predicazione del Vangelo, costituzione della comunità cristiana attraverso i sacramenti e la promozione dei valori del Regno. Altrove sarà quella che oggi si chiama la missione inter gentes, che punterà alla promozione dei valori inter gentes del Regno in dialogo con le reli­gioni non cristiane anche senza giungere al battesimo. Del resto già papa Wojtyla in Re­demptoris missio riconosce che ci sono perso­ne che appartengono alle religioni non cristia­ne e "non hanno la possibilità di accettare la rivelazione del Vangelo e di entrare nella Chiesa" (n. 10). In tali situazioni la missione della Chiesa punterà alla promozione di quei "valori del Regno" che sono valori autentica­mente umani, comuni alle altre religioni, e che fanno parte del Vangelo del Regno che Gesù ha annunciato. Così la nuova evangelizzazione di chi si è allontanato dalla Chiesa assumerà forme variabili e flessibili che vanno dal dia­logo della vita agli incontri feriali sulla strada e sul lavoro e finalmente a forme di predica­zione informale (127), che pur senza parole puntano a comunicare, anche senza un discor­so esplicito, il nucleo del kerygma, quell'an­nuncio gioioso che scalda il cuore dei credenti: "Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per libe­rarti" (164). Papa Francesco non offre alla Chiesa una nuova teologia della missione e neppure una nuova spiritualità missionaria (260), ma indica alla Chiesa e ai missionari al­cuni cammini nuovi da percorrere con "auda­cia" (261) e "creatività" (156). Essi rinnove­ranno la Chiesa - e in particolare gli Istituti missionari - e la ringiovaniranno più delle ri­forme strutturali che tutti attendono e di cui tutti sentono un grande bisogno, ma che pos­sono rimanere soltanto sulla carta e/o nelle buone intenzioni.

Le conseguenze per un istituto missionario

Non è necessario fare un lungo discorso per mettere in evidenza le conclusioni che un Isti­tuto missionario deve trarre dalle proposte di papa Francesco nel campo della missione. Quello che è importante è rimanere vigilanti e non lasciarsi guidare dal criterio del "si è sem­pre fatto così" (33). Una prima tentazione, molto frequente, è quella di pensare subito a delle riforme strutturali. In questo caso nulla è cambiato della struttura Chiesa e della missio­ne. Ciò che deve essere preso in considerazio­ne in vista della "conversione pastorale e mis­sionaria" richiesta dal papa sono le persone, i loro atteggiamenti e le priorità delle istituzioni nei riguardi della missione. Le tentazioni dell'autoreferenzialità, dell'accidia, del pessi­mismo e della mondanità spirituale colpiscono il missionario singolo e il suo Istituto e tolgo­no la gioia della missione e dell'evangelizza­zione. L'attenzione alla continua conversione dei singoli e delle comunità e alla loro forma­zione permanente secondo le indicazioni di Francesco deve essere la prima preoccupazio­ne di un Istituto missionario. Il rischio che es­so corre è di fissarsi nella sua tradizione e nei modelli di missione finora perseguiti. Siccome il modello del missionario ereditato dal passa­to gode ancora un notevole fascino nel popolo cristiano, può essere abbastanza difficile modificarlo. E tuttavia tanto le indicazioni del papa come quelle della storia ne richiedono una profonda revisione per renderlo più sem­plice e libero, più povero e duttile. La missio­ne della "Chiesa in uscita" richiede nuovi at­teggiamenti che a loro volta postulano una nuova formazione alla missione e un nuovo stile di missione.

Questo impone una costante e periodica ve­rifica. La prima e la più urgente di queste con­versioni riguarda la qualità evangelica della testimonianza del missionario, il quale deve assumere un nuovo stile di missione più spiri­tuale, curando più il suo essere discepolo e ab­bandonando la tendenza a fare molte cose che viene dall'atteggiamento imprenditoriale carat­teristico di una missione ormai passata. Uno stile spirituale non significa uno stile disincar­nato o fuori della storia, anzi proprio il contra­rio. La presenza del discepolo missionario de­ve essere quella del discorso della montagna: essere "sale della terra e luce del mondo", una presenza evangelica in mezzo alla massa della gente, una presenza fraterna e solidale nel no­me di Gesù.

I discepoli missionari saranno testimoni fe­deli e veraci del Signore e del suo Vangelo, germi e segni di umanizzazione: con un com­portamento che riveli la verità della loro voca­zione di discepoli missionari, annunceranno con la vita, prima che con la parola, la bellezza e la gioia di sapersi amati da Dio e la miseri­cordia e tenerezza di Dio che conquista i cuori. Infatti, è per attrazione che cresce la Chiesa (14). Va da sé che la relazione del discepolo missionario con la "Chiesa in uscita", soggetto della missione, è quella del servitore, non di colui che ha suoi progetti da realizzare, ma di colui che ha ricevuto la missione. Il suo cari­sma nella Chiesa è quello di essere inviato dalla Chiesa stessa; quindi la sua è una pre­senza subordinata, quella del servitore, che non comporta per questo la passività, ma sup­pone la comunione nella missione e l'obbe­dienza attiva e responsabile in vista dell'evan­gelizzazione. Il servizio alla Chiesa locale va tuttavia accompagnato da simpatia ed empatia per coloro che hanno la responsabilità della guida della comunità.

Questo atteggiamento è particolarmente im­portante nel momento in cui i responsabili lo­cali sono impegnati nel processo d'incultura­zione della fede e della Chiesa.

Essi hanno il diritto di trovare nei missionari non dei critici acerbi ma dei catalizzatori che favoriscono quest'operazione difficile e delica­ta. Il missionario deve tenere viva nella Chiesa locale la memoria dei lontani e lo zelo per raggiungerli, atteggiamenti che rischiano di sfumare fino a spegnersi all'emergere e cresce­re dei problemi interni della comunità, spesso pressanti e urgenti.

Così un'importante responsabilità dei mis­sionari nella Chiesa locale è quella di richia­marle la presenza dei poveri e l'impegno della Chiesa per il superamento delle situazioni che producono e mantengono la povertà. Essi stes­si devono far propria "l'opzione preferenziale per i poveri" della comunità locale, vivere so­briamente e contribuire alla creazione di una "Chiesa dei poveri per i poveri" (198), viven­do la comunione dei beni, riducendo ogni pe­ricolosa dipendenza economica e finanziaria dall'estero, pur accettando di essere strumenti della carità per i poveri.

Una "Chiesa dei poveri per i poveri" si carat­terizzerà per l'essenzialità dei suoi servizi, la sobrietà nell'uso delle ricchezze e i mezzi po­veri e normalmente accessibili ai poveri, omo­genei con la finalità della missione. Esercite­ranno la loro testimonianza profetica denun­ciando tutto quello che mantiene le situazioni di "inequità" (52) che producono ingiustizia e violenza e, insieme al papa, diranno "no" all'e­conomia dell'esclusione, all'idolatria del dena­ro, alla dittatura dell'economico e all'inequità che genera violenza, alla cultura dello scarto e alla globalizzazione dell'indifferenza (55-60), pericolose derive del processo di globalizza­zione e del neocapitalismo oggi imperante. E assumeranno uno stile di vita rispettoso dei poveri e della creazione. Il missionario, per la sua personale esperienza, richiama il dovere profetico della Chiesa di essere "voce dei sen­za voce" (Ecclesia in Africa 70), di non la­sciarsi irretire dalle istanze locali e di mante­nere quel distacco che le permette di avere uno sguardo critico sulla situazione sociale e so­prattutto su quella dei poveri.

Infine, è proprio del carisma del missionario ricordare che la Chiesa di Gesù Cristo è più vasta della Chiesa locale nella quale egli si trova, e che il mondo dei lontani che attendono il Vangelo o che l'hanno smarrito è una realtà che non deve essere dimenticata, perché l'e­vangelizzazione viene prima della cura ani­marum, essendo lo scopo primo della Chiesa.
Ref: Ad Gentes, Anno 18 vol.2, pp. 150-161.
In: Bollettino Sedos, luglio agosto 2016.

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1. D'ora in avanti i numeri tra parentesi (...) si riferiscono ai paragrafi della Evangelii gaudium.

2. Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa di inaugu­razione della V Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi presso il Santuario "La Aparecida" (13 maggio 2007), AAS 99 (2007), 437.

3. B. Forte, La chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della chiesa comunione e missione, Cinisello Balsamo 1992, p. 319, che cita S. DIANICH, Chiesa in missione. Per una ecclesiologia dinamica, Milano 1985, pp. 80- 133.

4. L'attrazione è opera di Dio che attira attraverso la te­stimonianza della koinònia che lega i membri della co­munità (cf. At 5,14).

5. È sintomatico che in Evangelìi gaudium la parola dia­logo e il verbo dialogare appaiano 58 volte.

6. "Il dovere missionario, d'altra parte, non ci impedisce di andare al dialogo intimamente disposti all'ascolto. Sappiamo infatti che, di fronte al mistero di grazia infi­nitamente ricco di dimensioni e di implicazioni per la vita e la storia dell'uomo, la Chiesa stessa non finirà mai di indagare, contando sull'aiuto del Paraclito, lo Spirito di verità (cf. Gv 14,17), al quale appunto compete di portarla alla 'pienezza della verità' (cf. Gv 16,13). Que­sto principio è alla base non solo dell'inesauribile appro­fondimento teologico della verità cristiana, ma anche del dialogo cristiano con le filosofie, le culture, le reli­gioni. Non raramente lo Spirito di Dio, che 'soffia dove vuole' (Gv 3,8), suscita nell'esperienza umana universa­le, nonostante le sue molteplici contraddizioni, segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo a comprendere più profondamente il messaggio di cui sono portatori. Non è stato forse con questa umile e fiduciosa apertura che il Concilio Vaticano II si è im­pegnato a leggere i 'segni dei tempi?' ( ... ) Questo atteg­giamento di apertura e insieme di attento discernimento il Concilio lo ha inaugurato anche nei confronti delle altre religioni. Tocca a noi seguirne l'insegnamento e la traccia con grande fedeltà" (GIOVANNI PAOLO II, Novo millennio ineunte, n. 56; vedi anche i nn. 54-55 del medesimo documento).

7. Catechesis tradendae 57 è il primo testo del magistero che parla apertamente di inculturazione: "Della cateche­si, come dell'evangelizzazione in generale, possiamo dire che è chiamata a portare la forza del Vangelo nel cuore della cultura e delle culture".