Vittorio Farronato: “Da 50 anni cammino con l’Africa”, tra ricordi, nostalgia e speranze

Immagine

Mercoledì 25 novembre 2020
«Da 50 anni cammino con l’Africa. “Chi arriva a un nuovo villaggio, deve imparare i ritmi della danza”. Ho provato a farlo. (…) Volevo capire, danzare a ritmo giusto, armonizzarmi con la vita. E ho concluso: “La forza più grande che provoca cambiamento è l’economia”. Non cambiano solo i muri degli edifici ma i pensieri di chi abita dentro.» (Vittorio Farronato)

VILLAGGIO D’AFRICA
TRA ECONOMIA E RELIGIONE

L’antico villaggio conosce i granai e non conosce templi. Tutti conoscono il lavoro e le sue stagioni, e sanno che “il tuo sangue è rosso come il mio”. Tutti respirano un’aria religiosa, e alzano occhi al cielo da dove viene il sole e la pioggia per tutti. Le stagioni si seguono con calma e fedeltà. La vita del villaggio ne accompagna i ritmi e vive in simbiosi. La sobrietà non si chiama ancora povertà perché manca il confronto. La natura si compone di terra e sole e pioggia. La fecondità dei campi e della famiglia raccontano la fatica e la gioia. “Il sole nasce e muore e ritorna. La luna nasce e muore e ritorna. L’uomo nasce e muore e non torna più”. La vita è intessuta di legami familiari e di legami col mondo invisibile. Nessuno studia l’economia o dà lezioni di religione.

Per fare una stuoia si prendono delle fibre vegetali che vanno dall’alto in basso, e si aggiungono le file orizzontali creando l’intreccio. Poi nel mondo hanno scoperto il tessile che segue le stesse regole. Il cielo e la terra si intrecciano nella vita, Dio e Mondo fanno parte della stessa storia. Alle cose antiche diamo nomi nuovi, il villaggio di oggi parla di economia e di religione. Ma le nuove situazioni cambiano il significato delle parole, e nuove domande cercano le proprie risposte.

Non esiste più l’antico villaggio anche dove restano i campi e le capanne. Il mondo occidentale ha urtato il mondo della tradizione umiliandone la saggezza. Un’economia potente e prepotente ha frantumato una società sobria e inclusiva. In brevi stagioni l’Africa deve camminare ai ritmi di un mondo globalizzato. I giovani hanno i piedi al villaggio e la testa in città. Nuovi bisogni e nuovi modelli dicono alla gente del villaggio che è rimasta indietro.

Sono passati più di 50 anni, ero a Parigi a studiare. Un professore di Università mi dice: “Andare in Africa come missionario? Non è il meglio della vita. La Chiesa ha già distrutto le culture dei popoli, e tu vai a continuare questo lavoro?” Ho spiegato cosa significa per me andare, come vorrei vivere. Ha concluso: “Se è così, puoi andare”.

Da 50 anni cammino con l’Africa. “Chi arriva a un nuovo villaggio, deve imparare i ritmi della danza”. Ho provato a farlo. Tenevo presenti le parole di Parigi. L’Africa stava cambiando rapidamente, non solo fuori ma dentro. Volevo capire, danzare a ritmo giusto, armonizzarmi con la vita. E ho concluso: “La forza più grande che provoca cambiamento è l’economia”. Non cambiano solo i muri degli edifici ma i pensieri di chi abita dentro. La cultura è la risposta di un gruppo umano alle situazioni che vive, per interpretarle e sceglierle. Nel villaggio ogni persona vive dentro una relazione, il gruppo contiene ogni persona garantendo la sopravvivenza di tutti. L’economia del denaro ha creato l’individuo e il privato che esclude. Bisogna reinventare le relazioni dando parola a ogni area culturale. La modernità aiuta la persona africana a liberarsi dal condizionamento del gruppo, il villaggio propone al nostro homo œconomicus di privilegiare le relazioni umane al rapporto coi beni. Scopriamo il mondo come “casa comune” dove siamo ospiti dentro una Vita più grande di noi.

La stuoia contiene un intreccio che dona solidità. Cielo e terra compongono il vissuto umano dentro un tessuto morbido e forte. Economia e Religione ci interpellano a ogni latitudine, ogni situazione cerca le sue risposte. C’è chi sceglie Dio mettendosi a lato di un mondo troppo complesso; c’è chi sceglie il mondo perché Dio è troppo lontano o noioso. Anche il villaggio d’Africa deve trovare nuove armonie per ritmare la danza e il lutto. Nuove strutture economiche comportano nuovi linguaggi religiosi. Mi trovo come missionario in Congo, attualmente al villaggio di Yanonge, e provo a dire qualcosa che gli occhi del turista non vedono.

La spontaneità della vita precede la riflessione critica. Noi per capirci ci siamo un po’ sdoppiati: sto alla finestra e guardo il mio io che cammina. Hanno chiesto a un pesciolino: “Cos’è l’acqua?” E lui è corso da sua mamma per chiederlo. La vita è una forza che spinge, come il chicco di grano sotto terra spinge su cercando una luce che ancora non conosce. Ma la vita che ti fa sorridere e danzare è minacciata dalle forze della morte. La religiosità è sentita come invocazione alle forze della Vita per proteggersi dalla morte. Dio è sorgente della vita e non può essere causa del male e della morte: la religiosità africana non conosce la bestemmia. Ma tra il cielo di Dio e la terra degli uomini ci sono vasti spazi abitati dai venti, e sulle ali dei venti passano forze invisibili di cui non vedi il volto. L’esistere umano è una “lotta spirituale” per difendere la vita. La fecondità è la rivincita sulla morte, un nuovo bambino prende il posto di chi è passato. Diceva Omero: “Sugli alberi ci sono sempre le foglie, ma le foglie dell’anno di prima sono passate”.

Dio è buono, garante della fecondità dei campi, della fecondità della famiglia e del gregge. Più che cercare il suo volto, lo riconosci nell’esuberanza vitale della foresta, nello stupore di una nascita. Ma la malattia già dice che la morte ha messo le uova nella tua carne. “Da dove viene sofferenza e morte?” Ecco, qui la domanda può cambiare: “Da chi viene la minaccia di morte?” E ti guardi attorno. Il volto che ride è anche il volto che minaccia. L’uomo dal cuore cattivo può dirigere le forze del male che ti colpiscono. La stregoneria agisce, solo l’uomo della divinazione ci può rivelare le cose nascoste.

Anche noi parliamo di malocchio. Gesù dice che dal cuore dell’uomo può uscire tanto male. A frammenti cerchiamo una Verità più grande. Siamo pellegrini della Verità.

Accostiamo le narrazioni, il villaggio si racconta, racconto l’uomo Gesù. Lui ci racconta il Padre, e ci sentiamo amati, perfino amabili. Lui ha portato sopra di se sofferenza e cattiveria, ogni nostra morte è compresa nella sua, in lui risorto vediamo la nostra storia vittoriosa. Vediamo oltre i confini del tempo che prima si spegneva con la morte. Una continuità di vita ci libera da ansietà e avidità, apre lo sguardo verso il suo Volto. Una stagione nuova fa crescere bontà e speranza. Una nuova maniera di amare pulisce gli occhi da sospetti e paure, da dentro sentiamo crescere un bisogno di solidarietà verso tutti. Il clan familiare chiedeva un’economia spicciola di sostegno reciproco; essere famiglia del Padre ci invita a riconoscerci nei diritti e nei bisogni di chi incontriamo. Il cibo di ogni giorno, la salute, la scuola, la dignità diventano ricchezza di famiglia.

Non funziona subito: un frutto ha bisogno di tempo per maturare, e più ancora bisogna che la religione superi i confini del rito e della morale. Chi mi fa soffrire non ha gioia dentro e non può offrirla. Il peccato è fare il male che fa soffrire gli altri, ed esce dal mio cuore che non ha dato spazio alla Sua Vita in me: È venuto ad abitare in mezzo a noi, nel più intimo di noi, pieno di grazia e di verità. Non siamo solo sulla stessa barca, ma siamo la stessa persona, io siamo noi, e Lui in noi. “Non uccidere”, ha detto Dio. “L’Economia di oggi uccide i poveri e deve essere cambiata” ha detto il Papa. Il Covid ci obbliga a riflettere, a ripartire. Siamo troppo abituati a restare all’interno delle nostre culture erudite: il serpente si morde la coda. Per uscire da schemi anche veri ma incompleti abbiamo bisogno di scambio di doni tra culture.
P. Vittorio Farronato
[Combonianum]