Fr. Enrico Gonzales: “Torna la calma dopo gli scontri violentissimi ad Abéché, in Ciad”

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Martedì 1 febbraio 2022
È trascorsa una settimana dai tragici avvenimenti di Abéché. A partire da lunedì scorso, per quattro giorni, la città è stata teatro di scontri violentissimi tra partigiani di opposte fazioni e le forze dell’ordine/esercito. All’origine degli scontri, un’improvvida decisione del governo che aveva nominato uno «chef de canton», scatenando le ire dei sostenitori del sultano del Ouddai. Sì, ci sono ancora queste autorità tradizionali.
[Credit photo: Di Dans]

Lo scontro politico e per la gestione della cosa pubblica (leggi: denaro) ha visto per le strade di Abéché bande di giovani delle opposte fazioni fronteggiarsi violentemente. A questo punto è necessario ricordare che in Ciad essere armati (dal semplice coltello alla pistola e/o AK47) è ritenuta cosa assolutamente normale, in barba alle disposizioni (sulla carta) del divieto di porto d’armi. Il contesto socioculturale del Ouddai, del paese in generale, non aiuta affatto per un controllo di persone armate a volte fino ai denti. Di qui, le reazioni esagerate, violente: essere armati è segno di mascolinità, di potere, ed essere minacciosi/violenti contro chi mi attacca è banalmente diffuso: reagisco così per dimostrare che sono il più forte. Il problema è che questa situazione di violenza generalizzata è sfruttata/usata da chi rimesta nel torbido.

È quanto puntualmente accaduto la settimana scorsa per le strade di Abéché. Sono stato testimone in diretta di tutto ciò, perché la chiesa e la nostra casa si trovano su un asse stradale al centro della città, che porta ai quartieri popolari dove abitano le due fazioni rivali. Botti, pneumatici bruciati, colpi d’arma da fuoco, mitragliate (perché ad un certo momento è intervenuto l’esercito) hanno segnato le giornate di lunedì e martedì.

Io e il confratello ci siamo accucciati in casa, in comunicazione con le suore, il vescovo e i comboniani di N’djamena. Siamo rimasti nascosti fino alle 12.30. Si sentivano i colpi d’arma da fuoco e poi, nel pomeriggio, calma, scandita dalle sirene delle ambulanze che raccoglievano i feriti. Nel pomeriggio di lunedì, la rete telefonica e internet vengono bloccati dal governo: misura fin troppo nota e praticata in questi casi. Il Ciad ha il triste primato di essere il quinto paese al mondo che pratica questa tattica repressiva.

Martedì, mercoledì e giovedì, tagliati fuori ma al sicuro, abbiamo atteso che ritornasse la calma. Abéché si è svuotata. Tra gente impaurita – soprattutto nei quartieri popolari – e chi piangeva i morti, la città si è fermata: mercati e negozi chiusi, esercito e gendarmeria in pattugliamento antisommossa. In comunità siamo sempre stati al sicuro. Al mattino eravamo solo noi in chiesa per l’eucaristia, attendendo gli sviluppi.

Il governo ha inviato una delegazione d’alto livello (4 ministri) che ha subito revocato l’ordine di insediamento del “chef de canton” e dello stesso sultano ed è entrata in trattative con le opposte fazioni. Finalmente è stato raggiunto un compromesso, giovedì scorso ci sono stati i funerali delle vittime. La calma ritornava, sebbene le tensioni intracomunitarie siano sotto la cenere, pronte – forse – ad esplodere di nuovo.

Il paradosso è che questi scontri hanno avuto luogo in una città – Abéché – che è sempre stata ritenuta un bastione fedele al governo centrale. Il Ouddai ha una grande importanza strategica, confinando col Sudan del Nord e la RCA. Non è un caso che, storicamente, i ribelli, che nel corso degli anni hanno combattuto contro N’djamena, venissero dal Nord. Quindi l’esercito ha avuto cura di sigillare le entrate/uscite e ha rastrellato i quartieri popolari. Chiaramente ciò non ha favorito un ritorno alla calma, anzi, la chiusura dei mercati e il taglio della rete telefonica e di internet hanno creato inquietudine. Sabato scorso, a N’djamena, si è svolta la «Giornata della Coabitazione Pacifica», con l’intervento del capo del CMTP (il figlio del defunto presidente Idris Deby Itno) e dei leader religiosi. Discorsi retorici per riaffermare il ruolo centrale dei militari nella vita del paese, scatenando sulla rete – finalmente ripristinata – una cacofonia di reazioni.

Al di là di tutto ciò, resta il fatto che il paese, non solo ad Abéché, sta vivendo una situazione estremamente complessa. La crisi economica va a braccetto con quella politica. Finora si è fatto un gran parlare di dialogo inclusivo ma poco – troppo poco – è stato fatto. Non si deve cadere nella trappola di colpevolizzare chi sa chi.

Il quotidiano qui è segnato da incertezza, insicurezza e c’è ben poco dialogo tra le varie parti. I Vescovi, nel loro messaggio di Natale, parlano di speranza, il che va bene ed è necessario infondere speranza ai ciadiani di fronte a situazioni estreme come quelle di Abéché. I fedeli sono sconcertati, hanno paura, rimanendo nell’incertezza di fronte a un governo che reprime senza pietà anche il minimo segno di dissenso, a maggior ragione quando emerge una sfida politica al regime, come si è visto nel conflitto tra autorità tradizionale (il sultano) e quella dell’amministrazione (il chef de canton).

Ora la situazione è calma, si gira per le strade, i mercati sono aperti, le scuole e l’università funzionano, telefono e internet sono stati ripristinati e l’esercito vigila, fino alla prossima volta…

Che dire? Trovarsi nel bel mezzo di una situazione di crisi acuta e violenta penso che interpelli il nostro modo di vivere la missione accanto alle persone, condividendo – nel nostro quotidiano e con tanta umiltà e pazienza – le paure e le gioie, le speranze, proponendo la pace, la riconciliazione, la fraternità. Utopia? Non credo, perché per le persone di buona volontà – al di là dell’appartenenza religiosa e politica – questo è quello che conta per un coinvolgimento personale al fine di concretizzare quella speranza per il bene di tutti di cui parlano i Vescovi.

Fr. Enrico Gonzales, mccj
Abéché – Ciad