di De Marchi Benito

Il Gruppo Europeo di Riflessione Teologica (GERT) ha preparato, in vista del prossimo Capitolo Generale, alcune schede di riflessione destinate ai capitolari europei. Ecco la terza.

Roma, 17.04.2009
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Il rischio che corriamo e il senso di una liberazione del carisma

Come fa notare Donal Dorr, c’è oggi il pericolo reale che una Congregazione missionaria riconosca sì in linea di principio le nuove frontiere della missione, ma in pratica continui a vivere, pensare ed operare entro il “mondo missionario” tradizionale, appellandosi come giustificazione al “proprio carisma”. Facendo così si riduce il carisma a tradizione e l’appello a esso finisce per bloccare o inibire ogni creatività e cambiamento.
Di fatto, in questi ultimi decenni, alle prese con trasformazioni sociali, culturali ed ecclesiali di carattere epocale con tutti i loro risvolti “critici” di “messa in discussione” sia ministeriale che esistenziale, il richiamo al carisma “codificato” del Fondatore e dell’Istituto si é fatto sempre più insistente. Ma paradossalmente proprio questo aggrapparsi al carisma-tradizione per salvaguardare il nostro distinto carattere missionario, concepito sul vecchio modello di “missioni estere” per la conversione dei non-cristiani, corre il rischio di provocare quella stessa crisi che si vorrebbe evitare. Per di più, rimanendo vincolati al quel modo tradizionale di essere missionari, potremmo ritrovarci fuori delle attuali frontiere missionarie della Chiesa.
E’ allora necessaria una rivisitazione teologica del significato di un carisma nella Chiesa. Si deve avere il coraggio di porre sotto scrutinio quell’appello massiccio al Fondatore e alla sua metodologia missionaria, perché esso non diventi un “blocco”, ma siano piuttosto liberate potenzialità latenti nell’evento carismatico di cui l’Istituto vive, la memoria del carisma si traduca in una capacità creativa nell’incontro con le realta’ missionarie di oggi ed alimenti una nuova, inedita immaginazione missionaria.
Queste poche pagine vogliono essere un contributo a questo processo di discernimento e liberazione del carisma, nella forma di alcune tesi provocatorie, da non prendere separatamente ma piuttosto nella loro reciprocità e interazione.

1. Il Carisma è ‘empowerment’: “capacità” di operare nella forza dello Spirito che “rinnova la faccia della terra”

Nel Nuovo Testamento la comunità dei discepoli del Signore è arricchita, in ciascuno dei suoi membri, di doni di grazia (charisma/charismata dall’altra parola greca charis, grazia) attraverso cui si manifesta la vitalità creatrice e rinnovatrice (energeia, energia – altro nome per il carisma) dello Spirito che è il “dono escatologico” stesso (pneumatika, ancora una designazione per il carisma, da Pneuma).
Questo dato neotestamentario contiene importanti indicazioni per una rilettura teologica del carisma.

Viene innanzitutto sottolineato che carisma significa irruzione dello Spirito Santo, vento che “soffia dove vuole”. In quanto tale, il carisma parla di evento e movimento: il linguaggio, cioè, dell’attualità, che resiste una facile traduzione in termini di istituzione e tradizione a cui conformarsi. Costitutivo di ogni carisma è piuttosto un aspetto di “sorpresa” , come impronta del Dio che nel suo donarsi continua a rimanere ‘altro’ e ‘nascosto’ – non addomasticabile –, e che edifica la comunità del suo Regno come “comunità aperta”, sacramento di un “futuro non pianificabile”, dal momento che i contorni ultimi del sogno di Dio per il mondo rimangono noti solo a Lui.

Come manifestatione della forza dello Spirito, il carisma rappresenta inoltre una realtà dinamica e performativa: prima ancora di designare un compito assegnato o un ambito di lavoro, esso è “grazia” che “abilita” , nel senso che rende capaci di tradurre in realtà il sogno di Dio per il mondo. L’appropriazione di questo senso positivo del carisma come “potenzialità donata”, dotazione divina, è decisiva per quell’economia dell’Utopia della Promessa che caratterizza l’esperienza cristiana, per sperare cioè in qualcosa che è “fuori luogo ( topos)” nell’ordine presente delle cose: “Manda, Signore, il tuo Spirito e sarà una nuova creazione. E rinnoverai la faccia della terra”.

Come espressione dello Spirito, Dono degli ultimi tempi, il carisma immette nel flusso della donazione che Dio fa di se stesso al mondo. Esso è allora un evento personale e relazionale. Il carisma, anche se condiviso da un gruppo, coinvolge sempre il discepolo del Signore in prima persona, la cui storia è chiamata a farsi mediazione del dono di Dio al mondo, in una duplice e costitutiva relazione con lo Spirito di Dio, da un lato, e con la realtà contestuale del mondo e della comunità cristiana, dall’altro. Ultimamente, il carisma esiste solo come personalizzato nel soggetto credente stesso, che così nella sua concretezza storica, con tutti i suoi limiti e condizionamenti, diventa sacramento del Dio che si dona perchè il mondo viva.

2. Il Carisma è partecipazione all’unzione messianica di Gesù

Ogni dono dello Spirito fa riferimento alla pienezza dello Spirito di cui Gesù fu colmato:

“Dio ha consacrato in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, che passò facendo del bene e sanando tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo” (Atti 10:38).

“Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato e mi ha inviato a portare ai poveri il lieto annunzio, ad annunziare ai prigionieri la liberazione e il dono della vista ai ciechi; per liberare coloro che sono oppressi, e inaugurare l'anno di grazia del Signore... Oggi si è adempiuta questa scrittura per voi che mi ascoltate” (Lc 4:18-19)

La letteratura lucana collega tra loro l’evento del battesimo di Gesù al Giordano e l’evento della Pentecoste, la missione di Gesù con la missione dei discepoli. Ogni carisma è una partecipazione alla unzione di Gesù, il Messia, abilitato ad inaugurare la festa del Regno di Dio come evento di guarigione, liberazione ed abbondanza di vita.
Il confronto con la storia di Gesù-Messia costituisce un altro criterio fondamentale per una rilettura teologica del carisima. Due aspetti vanno sottolineati.

Posti in relazione con l’unzione spirituale di Gesù, i carismi, in tutta la loro varietà, appaiono come un rendere presente e visibile la “novità” dell’evento di Cristo dentro la particolarità storica dell’oggi degli uomini, delle loro culture e società. Se si da una “tradizione” del carisma, paradossalmente essa non potrà essere altro che una memoria che attualizza e dispiega la novità di Gesù-il Messia. E dato che Gesù è ora il Risorto che vive per sempre, il carisma nè guarda indietro nè agisce in nome di un assente: nei diversi carismi è il Signore stesso che opera ed è la sua “exousia” (potere, autorità) di salvezza che si manifesta.

Conseguentemete, in quanto partecipano all’unzione messianica di Gesù, tutti i carismi nella Chiesa sono qualificati in modo missionario. Più ancora, la verità di ogni carisma, a cominciare da quelli che dichiaratamente si definiscono come ‘missionari’ e dai carismi stessi di ‘fondazione’, rimane legata ad un costante processo di discernimento, in un confronto con la vicenda storica di Gesù e l’integrità della missione come egli l’ha vissuta, e in relazione alle sempre nuove situazioni storiche. Così, il riferimento all’ ‘annuncio del Regno di Dio ai poveri’, come espressione del sogno messianico di Gesù, e al suo carattere profetico/provocatorio e prolettico/anticipatore, è di una importanza decisiva perchè il carisma liberi tutta la sua ‘potenzialità spirituale’ (= potere dello Spirito), al di là della sua particolare determinazione storica. Come pure segno di autenticità carismatica è la capacità di dare forma concreta a quella ‘com-passione’ di Dio che, nel suo duplice senso di dolore condiviso e di azione liberatrice, costituisce il cuore stesso del ministero messianico di Gesù e del suo testamento spirituale (cf. Mt 25:31-46) .

3. Il Carisma è evento ecclesiale: La Chiesa come costellazione di carismi e l’identità carismatica come identità di partecipazione e comunione

Come partecipazione all’unzione messianica di Gesù ad opera dello Spirito, i carismi manifestano ed edificano il “corpo crismato” di Cristo: tutti affondano le loro radici nella comune unzione battesimale. Invece di contraddirsi, la dimensione ‘personale’ ed ‘ecclesiale’ del carsima convergono, redifinendo la persona del discepolo del Signore in termini relazionali e la Chiesa come comunione di persone.
Qui troviamo altre importanti indicazioni per uscire dall’impasse che il richiamo alla specificità del proprio carisma può determinare, e lasciare che il carisma sprigioni tutta la sua ‘inedita’ potenzialità.

Innanzitutto, i carismi disegnano la Chiesa stessa come un evento di relazioni personali, più che come istituzione: come una costellazione di discepoli-portatori di carismi che interagiscono tra loro e si rispecchiano l’uno nell’altro, mediante la reciproca testimonianza ed accoglienza, condividendo ciascuno secondo la grazia ricevuta l’unica missione di Gesù, vale a dire lo stesso sogno e preoccupazione di Dio per il mondo. Come una cometa, ciascun carisma sprigiona un alone di luce che va la di là di colui che lo impersona e nel quale altri discepoli del Signore possono riconoscersi e collocarsi, facendolo a loro volta brillare di nuove intensità e colori. Non una costellazione fissa, ma una figura “cinetica”: una Chiesa-movimento sotto la spinta dello Spirito, quel soffio di Dio che ha mosso Gesù nella sua vita e missione.

In secondo luogo, in questa prospettiva, l’identità di un carisma è una identità aperta: essa non si definisce per via di esclusione, quanto invece di ‘inclusione’, e cioè attraverso la partecipazione e la comunione. Inoltre, è un’identità che, in quanto condivisa e ripresa da altri soggetti, è capace di nuovi sviluppi. In altre parole, il carisma di un cristiano non è qualcosa che gli altri nella Chiesa non hanno; piuttosto, il carisma di ciascuno manifesta e promuove un tratto carismatico della Chiesa, corpo crismato di Cristo: una circolarità si stabilisce tra i singoli membri e il corpo nel suo insieme. Così, si danno nella Chiesa profeti e missionari, perchè la Chiesa nel suo insieme è per natura profetica e missionaria; mentre, d’altra parte, la Chiesa in quanto tale rimane profetica e missionaria per la presenza in essa di profeti e missionari. Allora non sorprende che, per fare un esempio, “essere per i più poveri ed abbandonati” si ritrovi come elemento specifico del carisma di molti gruppi ecclesiali. In realtà, la scelta dei poveri è una qualificazione di fondo della Chiesa stessa nella sua identità e missione messianica. Non è infatti la proclamazione in parole ed opere del Regno di Dio ai poveri e agli ultimi, fatta in mezzo ai poveri come tra gli stessi ricchi, l’evento messianico della Buona Notizia, beatitude liberatrice per i primi e misericordia redentrice per i secondi?
A questo punto ci sarebbe anche da domandarsi se il continuo interrogarsi di questi ultimi anni sulla nostra identità comboniana non rappresenti un equivoco più che un desiderio di autenticità carismatica, quasi un “guardarsi di continuo il proprio ombelico”, e non rifletta un tratto patologico del nostro tempo ripiegato su stesso, quasi una reazione di difesa di fronte al fatto nuovo rappresentato dall’emergere delle ‘differenze’. Non potrebbe essere che l’ossessione della propria identità finisca per riprodurre quelle “fraterie” da cui il Comboni rifuggiva? Dove sta effettivamente la fedeltà al carisma comboniano?

3. Un carisma di “fondazione” è una realtà viva con una sua storia: la prassi storica come luogo di discernimento del carisma e l’inedito dell’evento carismatico originario

Quanto è stato detto finora introduce una dimensione di “souplesse” nella considerazione di un carisma ‘corporativo’ quale quello di un Istituto, nella fattispecie l’Istituto Comboniano.

Diventa innazitutto necessario distinguere tra il carisma personale del Fondatore e il carisma - per così dire - di “fondazione”, quale viene vissuto ed articolato nelle vita dei suoi seguaci; nel caso dell’Istituto comboniano, tra il carisma del Comboni e il carisma comboniano. Ritornando alla simbologia della costellazione, si può dire che entro la grande costellazione della Chiesa come comunione di carismi, si formano altre costellazioni minori attorno ad alcune particolari figure carismatiche, dove tra la figura principale del ‘Fondatore’ e coloro che lo seguono, come anche tra quest’ultimi, si rinnova la stessa dinamica di reciprocità che esiste nella grande costellazione ecclesiale. Il che significa che il carisma di fondazione è una realtà dinamica e storica con un su sviluppo: un evento che viene tramandato nel tempo in quanto continua a compiersi nell’oggi, in modi diversi e nuovi.
E’ nella storia della comunità che a lui s’ispira e nella storia personale di ciascun suo membro che la memoria del Fondatore si compie, secondo quel modello ecclesiale tipificato nella memoria liturgica, e cioè come parte della più comprensiva memoria di Cristo e in virtù dell’azione ri-creatrice dello Spirito. La continuità tra l’evento del Fondatore e l’evento della sua comunità nei vari tempi e luoghi è di ordine storico-salvifico: l’identità del carisma di fondazione non è determinabile semplicemente in base alla ricostruzione storica del suo momento originario; piuttosto, continuità ed identità ‘avvengono’ come una reinvenzione da parte dello Spirito, la quale è da discernere in una storia in divenire. Si può sapere come quella storia è incominciata ma non come si svilupperà. La trasmissione di un carisma è essa stessa di natura carismatica.

La riappropriazione vera del Fondatore resiste ogni tentattivo di esumere il suo”corpo morto” per aggraparsi a esso. Ciò farebbe di lui un oggeto del passato, un “morto”, ed egli finirebbe di essere invece un “vivente” nel Signore. Come egli è stato un’interpretazione vivente del Signore e della sua missione messianica, così solo in quanto è a sua volta reinterpretato nell’oggi della Chiesa e della missione, come anche nella vita di ogni suo seguace, può egli continuare ad essere fonte di ispirazione e significare il carisma di fondazione. In vista di un tale processo interpretativo, lo studio storico-critico del Fondatore rappresenta una condizione indispensabile, come esso è altrettanto necessario per alimentare una concreta comunione tra lui e la comunità attraverso il tempo. Tuttavia, decisivo e conclusivo rimane sempre come lo Spirito, che ha animato il Fondatore facendolo simbolo di vita per altri, ne faccia rileggere ed attualizzare l’eredità spirituale dentro i nuovi contesti storici. Significativo a questo riguardo è il fatto che è parte della memoria liturgica di un Fondatore l’affermazione della sua morte: morte fisica e simbolica ad un tempo, come necessario momento di distacco, per lasciare lo Spirito libero e la discendenza del Fondatore crescere. Del resto, Gesù stesso poteva dire di sé: “È meglio per voi che io parta; perché, se non parto, il Paraclito non verrà a voi. Se invece me ne vado, lo manderò a voi” (Gv 16:7).

E’ necessario pertanto leggere il carisma di un Istituto in chiave storica e in prospettiva dinamica. Non solo il Fondatore va letto entro il suo contesto storico, in modo da coglierne le indicazioni profetiche e precisarne gli immancabili condizionamenti, ma è altrettanto necessario scrutinare il susseguente cammino dell’Istituto, nelle sue scelte comunitarie come nella vita e lavoro dei suoi membri, per poter individuare quali spazi nuovi lo Spirito apra al carisma di fondazione e di quali nuovi significati l’arricchisca. Il carisma di fondazione, come realtà ‘peumatico-ecclesiale’, è altrettanto definito sia dal passato del Fondatore che dal futuro di coloro che si pongono sulla sua scia: partendo magari da contesti totalmente nuovi, questi ultimi sono essi stessi, nella concretezza della loro vocazione e della grazia che è stata loro donata, la continua interpretazione del carisma. L’incorporazione ed integrazione in un Istituto è un movimento a doppio senso, o meglio uno scambio misterioso: non solo ogni membro cresce nell’immagine del Fondatore, ma il Fondatore stesso cresce nell’immagine sempre nuova e diversa di coloro che lo seguono; scambio misterioso perchè una tale reciprocità articola la libertà dello Spirito che guida la Chiesa nella missione. Così lo Spirito Santo, come Divino Artista, non solo ricrea la figura del Fondatore, ma più ancora svela tratti nuovi del volto di Cristo, ed apre cammini inesplorati per la realizzazione della sua missione messianica.
Tutto ciò viene a dire che la prassi storica stessa costituisce un luogo privilegiato per un continuo discernimento del carisma di fondazione: il che domanda un approccio “dinamico-induttivo” che lasci l’avvenimento storico sfidare il testo della tradizione del Fondatore e dell’Istituto, più “statico-deduttivo” che cerchi di ‘mettere ordine’ nell’avvenimento.

In fondo, c’è dell’inedito in ogni evento carismatico, a cominciare dall’evento stesso di Cristo. Il momento originario di quell’evento continua ad avere un significato normativo per la storia che ne segue. Ma d’altra parte, è proprio la successiva prassi storica a dispiegare la ricchezza nascosta dell’evento originario e a liberare le sue interne potenzialità. Per cogliere queste nuove frontiere del carisma, un valore particolare vengono ad avere quelle esperienze di avanguadia che magari appaiono come marginali alla vita codificata di un Istituto. Un discernimento carismatico, intento a scoprire l’azione dello Spirito, non può limitarsi a vedere se tali esperienze rientrino negli schemi abituali dell’Istituto, anche se canonizzati dalla Regola di vita; si dovrà piuttosto avere il coraggio di “prendere il largo e gettare le reti per la pesca”( Lc 5:4). Sì, prendere il largo, perchè il carisma vive sempre immerso nella storia, il luogo dell’inatteso più che dell’inevitabile, dove tra tante contraddizioni e guasti, lo Spirito di Dio prepara il futuro del Regno. Dentro questa storia , il carisma è continua traduzione della “ispirazione primigenia” del Fondatore, egli stesso una mediazione del Regno. Ogni mediazione e traduzione ha i suoi rischi; ma il carisma è pur sempre il dono di riuscire a pescare la novità del Regno di Dio nelle acque più impossibili. Come dice la parbola del Signore, il talento dato è da rischiare.

In ultima analisi, la storia del Fondatore ha un intrinseco carattere provvisorio. Essa rimane legata ad un tempo particolare ed è sempre relativa a Cristo e alla sua missione: “Egli deve crescere, io invece diminuire” (Gv 3:30). Nello stesso tempo, questo carattere provvisorio ha anche il senso forte ed etimologico di ‘pro-visio’: la storia del Fondatore, nella sua relativa particolarità, racchiude una promessa e tratteggia la visione di una realtà la cui realizzazione ‘trabocca’ nel futuro, al di là di quanto egli stesso abbia potuto pensare e vivere. È come se le sue parole e il suo vissuto puntassero verso qualcosa di ‘altro’ che esse contengono solo “sub specie futuri”. La sua eredità spirituale è appunto ispiratrice perchè in essa ci sono come delle ‘pietre di attesa’ che come tali aspettano di essere ‘scoperte’ nel loro valore in relazione ad un tempo nuovo e alla nuova comprensione del mistero di Cristo e della sua missione che lo Spirito fa crescere.
Così, riferendoci al Comboni, alcuni elementi del suo testamento, quali “Cuore trafitto del Buon Pastore”, “i più poveri ed abbandonati”, la “missione cattolica”, la “rigenerazione della Nigrizia”, la “perla bruna” ..., nell’incontro con le tanto diverse situazioni di oggi, con nuove esperienze ecclesiali e con la percezione del Vangelo che la comunità è venuta frattanto maturando, possono risultare riccamente evocative di nuovi orizzonti e frontiere missionarie.

4. Interrogativi circa il “carisma comboniano” dall’interno del mondo d’oggi e della nuova mappa missionaria.

Ciò che siamo venuti delineando è solo una ermeneutica – una griglia interpretativa- del carisma; non certo la risposta a come si configuri oggi il carisma comboniano.
Il carisma ci è apparso coinvolto in un continuo processo, nel quale la storia del Fondatore e dell’Istituto nella reciprocità dei suoi membri, la storia e il mistero di Gesù il Cristo/Messia, e il contesto storico con le sue problematiche e le sue sfide interagiscono. Il carisma così non è nè statico nè autoreferenziale, viene piuttosto rimodellato di continuo dal quel movimento di salvezza che va dal “cuore del Mistero” al “cuore del mondo”, inteso quest’ultimo come esperienza storica , e dal “cuore del mondo” al “cuore del Mistero”.
Allora, più che risposte, sono “interrogativi” che sono offerti alla nostra “riflessione”, nel senso etimologico della parola, di una ricerca cioè che rispecchi e lasci rispecchiarsi l’uno nell’altro il mistero di Cristo e il il mondo di oggi.

Il mondo di oggi è quanto mai complesso; anzi, è un mondo ‘plurale’, dai tanti contesti. Alcuni tratti comuni possono essere tuttavia individuati e menzionati.

Più che mai il nostro tempo si presenta come una storia di dolore ed oppressione. Ogni lettura della realtà d’oggi che non articoli il rischio, il pericolo e la violenza sia subita che inflitta non solo è fortemente parziale, ma è soprattutto falsificante ed alienante, tant’ è che un numero crescente di studi di varia ispirazione ed interesse ricorrono alla categoria scioccante ed inquietante del “campo di concentramento”, nel senso che uomini e donne come anche intere comunità possono in ogni momento essere “spogliati” del proprio “sé”, privati della propria identità culturale e giuridica, resi in qualche modo “superflui” proprio in quanto essere umani. Si introduce così una uguaglianza di vulnerabilità e si va creando un universo chiuso in cui la dignità umana non esiste più. Come nel caso del mercato globale, ciò che conta è innazitutto la logica e sicurezza del sistema, per il quale si distrugge l’ambiente che permette la vita e si sacrifica la gente, e di fronte al quale le persone sono rese totalmente vulnerabili e ultimamente un di più: l’ altro è considerato non in se stesso ma semplicemente come ‘competitore’ da sconfiggere, o come un ‘consumatore’ da ammaliare ma ultimamentecome qualcosa da usare per poi abbandonare al suo destino. Coloro poi che non sono in grado di partecipare al gioco del mercato diventano esuberi, inutili al sistema, rischiano addirittura di essere criminalizzati e alla fine sono lasciati cadere nelle crepe del sistema stesso. Essi comprendono i senza lavoro e senza tetto, e gli immigranti delle società occidentali, e le moltitudini affamate e decimate del Sud del mondo, la massa senza volto dei ‘rifugiati’: tutta gente gettata “al di fuori di quello spazio sociale in cui l’identità viene cercata, scelta, costruita, valutata, confermata o rifiutata” (Zygmunt Bauman); spesso confinata negli “slums” o in quei ‘non luoghi’ appositamente concepiti, chiamati campi per profughi o eufemisticamente “centri di permanenza temporanea” per distinguerli dallo spazio in cui la gente ‘normale’ vive e si muove. È soprattutto qui che la figura del ‘campo di concentramento’ ritorna ad essere realta’ concreta, nel senso piu’ letterale del termine., dove coloro che vi arrivano “diventano autentici rifiuti umani”.
Nel villaggio globale dallo spazio compresso masse intere di poveri sono spinte sulla strada dell’emigrazione e dell’esilio, e uomini e donne di diversa cultura, religione e tradizione vengono a trovarsi gomito a gomito ma secondo dinamiche di competizione, intolleranza, abuso e rigetto. Siamo entrati nel terzo millennio con il peso di un secolo di tale violenza da essere chiamato “il secolo dei genocidi”, e ci troviamo più che mai impigliati nella sua rete. Così, l’Occidente, di cui pure si vuol rivendicare la matrice cristiana, si trova coinvolto in una sfida, drammatica e piuttosto inedita, con altre aree e culture del pianeta. Così ancora, nuove “ondate di religiosità, e i contemporanei flussi di secolarizzazione, hanno portato con sé anche scorie e veleni, intolleranze e fanatismi, non di rado sfruttando il nome di Dio per incitare alla violenza e all’odio” (Sergio Zavoli).
Certo ci sono anche realtà di senso opposto: questo cumulo di violenza è anche lo spazio in cui si da il “martirio”, come testimonianza di un bene supremo che risponde al male radicale. Ma ciò non toglie che solo una lettura dall’interno di questa profondità negativa di un mondo senza l’altro, costruito su processi di esclusione ed espulsione, può farci toccare in modo realistico i contorni del nostro mondo in cui l’esperienza della forma moderna del male costituisce quella “differenza demonica”, come la chiama Oliver Davies, che non solo è distruttiva dell’alterità umana ma di fronte alla quale Dio stesso come “Colui che è buono” rimane più nascosto che mai.. Un’eclissi di Dio sembra avvolgere il mondo, non solo perchè sembra scomparso dalla coscienza di molti, particolarmente nell’Occidente postcristiano, ma anche perchè il suo silenzio pesa così tanto da sembrare “un essere lontano di libri e incenso” (Philippe Claudel), mentre il male è sentito così vicino e concreto: “Dio non si rivela più, sembra anscondersi nel suo cielo. Quasi disgustato dalle azioni dell’umanità” (Benedetto XVI).
Proprio la perdita di un “orizzonte di significato” , rappresentata dal fatto che la fiducia in un Dio vivente e in una finalità della storia diventa sempre più insostenibile per molti, rende oggi estremamente tragica l’esperienza del dolore e del male.

E così siamo all’altro aspetto del nostro tempo: la storia di dolore ed oppressione si coniuga con una crisi sistemica globale. Non si tratta solo dell’implosione del sistema economico mondiale resa manifesta in modo drammatico dal recente crollo finanziario; piuttosto, la crisi del sistema economico-finanziario è essa stessa parte di un ben più profondo malessere che riguarda la generale frammentazione dei paradigmi di vita e la caduta di valori di riferimento nelle società postmoderne e postcoloniali: una crisi globale di legittimizzazione e un esteso processo di detradizionalizzazione. Mentre le ‘grandi narrazioni’ tradizionali, secolari e religiose, sono state esposte nel loro sostrato ideologico e di potere, come equivoci esercizi di fondazione di ‘assoluti’ spesso oppressivi, ironicamente, una nuova ‘grande narrazione’ è venuta affermandosi: quella ‘globalizzazione’ fondata sul mercato, che se da un lato ha reso come non mai tra loro dipendenti realtà sociali, culturali, economiche e politiche, ha d’altro lato condotto al declino dei legami sociali e ha minato il ‘capitale’ sociale della reciproca responsabilità e della solidarietà. In questo contesto la nuova visibilità della pluralità e della differenza, conquistata con tanta fatica, rischia di tradursi in una pluralità e differenza allo sbando, vittima o di una sottocultura individualista di stampo consumistico o di una manipolazione confittuale ed egemonica in un continuo riprodursi di sempre nuovi processi di esclusione ed espulsione.

Questa duplice realtà di dolore e di crisi sistemica costituisce la crisi stessa della Chiesa e della missione oggi: essa sfida la proclamazione di Dio e ridisegna la mappa missionaria.

Non solo la mobilità globale sconvolge la geografia missionaria dal momento che i cosidetti “non credenti” (le Gentes) della missione tradizionale si trovano ora nel mezzo stesso del supposto mondo critiano, mentre il baricentro della cristianità, per il successo stesso di quell’azione missionaria, si è nel frattempo spostato in quel Sud del mondo una volta privilegiato come il luogo della missione, tanto che ora il mappa mondiale è punteggiata da una rete di Chiese locali (“Chiesa nei sei continenti”). Ma anche gli sconvolgimenti culturali e gli eccessi di barbarie che hanno coinvolto il Nord del Mondo negli ultimi secoli e la responsabilità che esso ha nei processi e mali dell’attuale villaggio globale hanno sovvertito il mito di un Occidente/Nord cristiano.
Al di là di tutto questo, poi, nel contesto della profonda crisi sistemica che il mondo oggi attraversa, l’annuncio della Buona Notizia del Regno di Dio non può certo esaurisi nel fare nuovi cristiani. Esso è piuttosto sfidato nella sua capacità di rigenerare una speranza collettiva e di ri-creare la società secondo un nuovo modello di cittadinanza fondato sulla reciproca responsabilità e sulla solidarietà, sul dono e sul senso della comune appartenenza, dove la giustizia diventa il nome pubblico della ‘carità’: una società come “casa che costruiamo insieme” (Jonathan Sachs), ciascuno col suo distinto dono, nella quale, per il fatto stesso che tutti benchè diversi si sentono a casa propria, Dio può tornare ad essere egli stesso di casa. Una simile istanza missionaria, lungi dall’essere un tentativo di ritorno ad un passato ormai deligittimato – una illusione perseguita da molti movimenti attuali sia secolari che ecclesiali, sollecita i carismi in ciò stesso che li definisce, e cioè nell’essere una “abilitazione” dello Spirito a tirar fuori dal caos presente il futuro di Dio.
Nello stesso tempo, la presa di coscienza dell’immane carico di sofferenza di questo mondo in crisi riporta al centro della comunità cristiana e della sua testimonianza lo scandalo del Crocifisso. La ricostruzione della società non può partire che dalle sue vittime: l’annuncio di Dio sembra oggi aver senso solo se esso raggiunge l’uomo disumanizzato, che diventa così l’interlocutore privilegiato della missione, e se ritorna a parlare il linguaggio paolino della kenosi di Dio: Dio che in Gesù-vittima condivide la passione del mondo e soffre la sua passione d’amore per i più piccoli e gli ultimi, per rivendicarseli come suoi figli e figlie diletti, dare al loro sogno e alla loro fatica di liberazione una possibilità reale di compimento e far sì che anch’essi abbiano pienezza di vita.
Proclamando, in parole ed opere, l’evento di Dio-dono che fa dell’altro, al pari di me, una immagine di sé e che ci unisce come membri l’uno dell’altro, la missione risponde alla crisi della modernità liberale, secondo la quale invece l’altro è, al pari di me, un individuo interessato a se stessso, e la società un accordo in vista ancora del proprio interesse. Alla luce del Crocifisso, la reazione missionaria all’attuale crisi sistemica globale e la conseguente ricostruzione di un orizzonte di significato e di un quadro morale si configura come prassi liberatrice ed ecumenica che sprigiona dal “carisma più grande” della “carità” come “capacità a farsi dono”. La circolarità del dono diventa l’alternativa missionaria alla logica del profitto.

Lasciando allora che la realtà del mondo d’oggi e della nuova mappa missionaria, con la sua nuova intelligenza del mistero e ministero messianico di Cristo, sfidi la storia del Comboni e dell’Istituto comboniano, ci possiamo allora chiedere cosa significhi essere missionari comboniani oggi.

1) Non si potrebbe forse dire che, al di là degli schemi culturali, religiosi e teologici del suo tempo, il carisma che attraverso Comboni è passato ai suoi seguaci è la capacità di condividere la com-passione attiva e messianica di Gesù per la liberazione e pienezza di vita di coloro che sono ultimi ed emarginati? Nella nuova situazione storica, quando non solo i confini tradizionali tra ‘credenti’ e ‘non-credenti’ passono un pò ovunque all’interno del mondo globalizzato, ma più ancora quando eclissi di Dio e fondamentalismi religiosi si trovano a competere per lo stesso spazio, non potrebbe l’annuncio missionario di Dio, costitutivo del carisma comboniano, configurarsi come il dono di saper testimoniare il Dio crocifisso, che vive al centro del dolore del mondo e si rivela “sub forma contraria”, come gratuità autoespropriatrice, nell’alterità di chi soffre? Non potrebbe questa ricomprensione del carisma comboniano riqualificare la spiritualità stessa del “Cuore del Buon Pastore” in modo che il “dono di sé” da dimensione spirituale personale diventi pardigma di prassi missionaria liberatrice e profezia di un mondo nuovo?

2) Al suo tempo il Comboni aveva visto negli Africani gli “ultimi ed esclusi”, che Dio riabilitava come protagonisti della propria rigenerazione e soggetti della propria storia a prendere il loro posto di “nigra margarita” nella Chiesa di Dio-pegno di una nuova umanità. Oggi, gli ultimi ed esclusi popolano le strade del mondo tanto che si parla di una ‘globalizzazione della povertà’, mentre d’altra parte il mondo Africano, nella sua grande maggioranza, continua a trovarsi in una situazione infraumana. In simili condizioni, la scelta prioritaria del’Africa non rappresenterebbe ancora un indicativo del carisma comboniano, non già in senso esclusivo, ma come segno performativo della missione nella sua dimensione di cammino con gli ultimi e gli esclusi in vista di una liberazione dai dèmoni che tormentano la società attuale? Allo stesso tempo, nelle attuali circostanze della nuova diaspora africana e dell’interdipendenza propria del mondo globalizzato, non richiederebbe una missione “africana” di essere fatta contemporaneamente anche nel Nord post-cristiano, dove di fatto affondano le loro radici tanti dei mali che affliggono il Sud?

3) A prescindere dalla questione storica di come il Comboni immaginasse il futuro dell’istituto da lui iniziato, appare comunque evidente che egli era innazitutto interessato a che la la Chiesa del suo tempo fossa attraversata da un vento missionario di coinvolgimento per “i più poveri ed abbandonati”. In una ermeneutica del carisma in cui l’avvenimento sfida il testo della tradizione, non potrebbe questa intenzionalità primigenia del Fondatore esprimersi oggi nel fatto che l’Istituto comboniano da gruppo incaricato della missione si trasformi sempre più in “movimento” che trascina le Chiese locali, ciascuna nel suo luogo e tutte insieme nella loro reciprocità e apertura universale, a vivere la com-passione di Dio per gli ultimi e il suo sogno di un mondo come festa di fraternità? In questa prospettiva, non si richiederebbe che i vari Istituti missionari, che già nella loro fondazione hanno molto in comune, nel contesto di un mondo e di una missione globali vengano a formare un “network” missionario, come espressione e mediazione di una Chiesa-in-missione?

4) In un mondo che diventa sempre più plurale ma che rimane più che mai costruito “senza l’altro”, quando non “contro l’atro”, non è che il tradizionale “attraversare i confini” del carisma missionario vada trasformato? Non solo pare necessario passare da confini geografici a confini antropologici, nel senso di una uscita fuori si se stessi - verso gli altri, che nelle loro differenze, con la loro storia personale, la loro cultura e la loro esperienza religiosa diventano i soggetti stessi della missione e gli interlocutori nel discorso dell’evangelizzazione. Ma più ancora, quando tali confini attraversano oggi tutti i luoghi e si presentano come strutture di esclusione, non diventa forse l’imperativo del nostro carisma abitare questi nuovi confini e viverli, inserendosi nella loro stessa trama con una volontà di incontro e quotidiana comunicazione, per trasformali da barriere di chiusura in spazi di una nuova immaginazione del mondo e in laboratori di una nuova umanità dai molti volti, e rinnovare così la prassi di Gesù che si sedeva a tavola con tutti, privilegiando coloro con cui nessuno voleva mangiare? Non diventano allora una priorità missionaria comunità di inserzione là dove i confini sono più sofferti, nelle quali la scelta degli impoveriti e marginalizzati diventa vita quotidiana assieme a loro e cammino condiviso di liberazione e trasformazione della realtà?

di De Marchi Benito

Provocazioni per una ermeneutica del “Carisma”