IV Domenica di Pasqua – Anno B: Il Pastore Buono abbraccia il mondo intero nel suo Cuore

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Non esiste soltanto il gregge, e nemmeno solo il buon Pastore, ma anche il lupo, la belva che viene a disperdere e a rapire le pecore. Bestia rapace, scaltra e sanguinaria. Eppure animale bellissimo, potente, col muso appuntito come una freccia. La sfida dei primi pastori della storia fu allevare le pecore per ricavarne cibo e indumenti.

Il lupo e l’Agnello

Giovanni 10,11-18

Non esiste soltanto il gregge, e nemmeno solo il buon Pastore, ma anche il lupo, la belva che viene a disperdere e a rapire le pecore. Bestia rapace, scaltra e sanguinaria. Eppure animale bellissimo, potente, col muso appuntito come una freccia. La sfida dei primi pastori della storia fu allevare le pecore per ricavarne cibo e indumenti. Impararono ad averne cura, garantendo pascoli e difesa. Ma la loro più grande gloria fu addomesticare i lupi, rendendoli custodi gelosi, guardiani fedeli e instancabili delle pecore. Riuscirono a trasformare quelle macchine da guerra in scudo per gli indifesi, convertendo la loro vorace, selvaggia astuzia in guardia premurosa e infaticabile. Se i lupi non fossero stati così aggressivi e spietati, non sarebbero divenuti cani pastore energici, resistenti e intrepidi. Del resto, Isaia l’aveva preannunciato: il lupo abiterà con l’agnello (Is 11,6). Esattamente con quell’Agnello che è il pastore migliore (Ap 7,17).

Anche in questo san Francesco d’Assisi assomiglia al suo Signore: ha ammansito un lupo. Non l’ha scacciato, l’ha addomesticato, rendendolo fedele alleato delle persone che prima impauriva. In effetti, se leggiamo attentamente i Vangeli, il buon Pastore ha incontrato tanti lupi: gli arrivisti fratelli Giacomo e Giovanni, l’approfittatore Zaccheo, l’adultera, il delinquente che chiamiamo “buon Ladrone”, quel giovane intelligentissimo e arrogante di nome Saulo… Tutta gente che minacciava le sue pecore, le disperdeva e le rapiva. Non li ha cacciati a bastonate, ma ha convertito la loro violenza in forza.

Abbiamo quindi almeno due motivi per rinvigorire la nostra speranza: lì dove siamo animali indifesi, il buon Pastore ci proteggerà; lì dove siamo lupi, il buon Pastore sa come trasformarci in custodi.

Queste sue prerogative sono diventate anche le nostre, dal momento che generosamente ci ha donato il suo stesso Respiro.
[Giovanni Cesare Pagazzi - L'Osservatore Romano]

Un solo gregge guidato da Dio

Atti 4,8-12; Salmo 117; 1Giovanni 3,1-2; Giovanni 10,11-18

"Io sono il buon pastore". Questa espressione con la quale Gesù si presenta nel vangelo dà l'intonazione alla liturgia della parola di questa domenica. Con questa tematica si armonizza anche il brano del kèrygma sviluppato da Pietro, nella prima lettura, davanti ai capi del popolo e agli anziani di Gerusalemme. Si tratta di un annunzio: mediante la risurrezione dai morti, Dio Padre ha fatto di Gesù la "pietra angolare" dell'edificio della salvezza; in nessun altro c'è salvezza. In queste parole si intravedono due coordinate del disegno divino di salvezza: l'iniziativa di Dio e l'apertura universale della salvezza, offerta per mezzo di Cristo a tutti gli uomini.

Nel brano evangelico, in effetti, Gesù si identifica con il "buon pastore" e si contrappone al "mercenario", di fronte a un "gregge" che non è mai sicuro, perché continuamente minacciato. Il buon pastore è "per" le pecore, affronta il rischio per la difesa del gregge; instancabile, egli va alla ricerca della pecora smarrita, chiama i dispersi, gli sbanditi, gli emarginati, i rifiutati; accorre dove c'è uno che non ce la fa più, schiacciato sotto il peso del dolore, della solitudine, dell'incomprensione, ecc. Questo ritratto del pastore ideale è un modello del servizio e dell'impegno pastorale dei responsabili della comunità.

Invece, nell'ottica del mercenario, le pecore sono "per" il suo interesse, le sue comodità. È un calcolatore ("pastore") che vede il gregge in funzione dei propri conti, del proprio piedestallo, del proprio nome e vantaggio. Questa presentazione negativa e insistente della figura del mercenario ha un chiaro risvolto ecclesiale e riproduce i tratti tipici del "falso pastore" della tradizione biblica. Anche la minaccia del "lupo" richiama la situazione della comunità cristiana esposta alle tensioni interne e alle ostilità esterne.

«Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me...». Si tratta, nella tradizione biblica, di quella conoscenza che non ha niente da fare con la semplice intelligenza, ma è questione di amore e di un rapporto di profonda comunione. È in forza di questo legame di conoscenza e di amore che Gesù "buon pastore" dona ha sua vita "per" le pecore. Con un pastore di questo genere non è più possibile vergognarsi di appartenere alla chiesa, gregge di Cristo. Ognuno ha un valore unico ai suoi occhi. Egli è attento a ciascuna delle sue pecore.

Le "altre pecore" che non appartengono a "questo ovile" sono i pagani. Si tratta della prospettiva universale della salvezza, recata da Cristo, che abbraccia tutto il genere umano. Cioè Gesù è il Messia escatologico che ha ricevuto dal Padre il compito di condurre l'umanità intera per realizzare la promessa biblica di "un solo gregge e un solo pastore". Si coglie allora più facilmente lo spessore cristologico e soteriologico-universale della formula "io sono il buon pastore".
Don Joseph Ndoum

L’allegria della vita e della mente

«La mente si nutre soltanto di ciò che la rallegra», scrive Agostino. La mente può essere tante cose: acuta, tagliente, speculativa, vispa, teorica o pratica, empatica o analitica, stupida ed intelligente. Ma di cosa si nutre? Cosa la fa intuire, comprendere, accogliere la realtà di sé, dell’altro, di un pezzo di questo mondo? Forse solo ciò che la convince, conforta, che allarga i suoi orizzonti, che la fa respirare. In un tale clima rinascono e risorgono sia il soggetto che quella briciola del cosmo che viene illuminata da esso. È un momento di gioia, che può creare un habitus, un’allegria o letizia o serenità nell’intimo dell’uomo.

L’allegria è il titolo della prima raccolta di poesie di Giuseppe Ungaretti, di quella catena aurea, di quel rosario doloroso e gioioso di opere che marca le stagioni della Vita di un uomo: Il porto sepolto, Sentimento del tempo, Il Dolore (Giorno per giorno), Il taccuino del vecchio, La terra Promessa — col cantico di una piccola e potente risurrezione: Per sempre. Vi si conserva e rinnova il tono fresco, immediato, laconico e coinvolgente dei suoi esordi, di quelle splendide poesie che si devono alla illuminazione di un attimo e che da parte loro fanno brillare la sorte degli uomini, perfino nella stagione della Prima guerra mondiale. Una letizia malgrado tutto.

E Gesù, conosceva lui l’allegria della mente, il sorriso raggiante, ironico, irenico, confortante? La sua vita è impensabile senza la gioia dei pranzi condivisi, dell’ospitalità, della vicinanza sorprendente ai malati e depressi per via della sua gratia elevans, senza l’umorismo nascosto, leggiadro e leggero del Discorso sulla Montagna, dove fa passare in rassegna gli uccelli, i gigli, i capelli, i passeri, i pagani, la regina di Saba, solo per stuzzicare l’esperienza della libertà vangelica, per allargare i suoi spazi di manovra e di letizia. O prendiamo la domanda di Giovanni 8: «Chi di voi è senza peccato…»: non lo dice con tono perentorio, smascherante, cinico, ma forse con un lieve sorriso, sapiente, triste e confortante che rispecchia la verità della condizione umana, condividendola.

Nel vangelo come messaggio lieto ritroviamo il clima che Ungaretti sa cogliere nella poesia “Senza più peso”: «Per un Iddio che rida come un bimbo,/ Tanti gridi di passeri,/ Tante danze nei rami,/ Un’anima si fa senza più peso,/ I prati hanno una tale tenerezza,/ Tale pudore negli occhi rivive,/ La mani come foglie/ s’incantano nell’aria…/ Chi teme più, chi giudica?».

Un piccolo canto della risurrezione, che, forse, invera la promessa che Italo Calvino esprime all’inizio delle sue Lezioni americane: l’opera della poesia sarebbe quello di togliere i falsi pesi alla realtà. E se questo fosse anche l’operazione più intima e “graziosa” della religione?
[Elmar Salmann – L’Osservatore Romano]

Il Pastore Buono
abbraccia il mondo intero nel suo Cuore

Atti 4,8-12; Salmo 117; 1Giovanni 3,1-2; Giovanni 10,11-18

Riflessioni
La prima immagine che i cristiani usarono, fin dalle catacombe, per rappresentare Gesù Cristo, fu quella del Buon Pastore. molti secoli prima del crocifisso. «Il buon Pastore è la versione dolce del crocifisso. Dolce solo a livello figurativo, perché la sostanza è la stessa. Non per niente nel brano di Giovanni la frase “dare la vita” è quella che spiega cosa significa ‘buono’, e ricorre ben cinque volte” (D. Pezzini). Gesù ripete con insistenza (Vangelo) che “il buon pastore dà la propria vita per le pecore” (v. 11.15). Gesù si è identificato con l’immagine biblica del pastore (cfr. Esodo, Ezechiele, Salmi…), e l’evangelista Giovanni l’ha riletta in chiave messianica. Abbondano le espressioni che indicano la stretta relazione tra Gesù e le pecore: entrare-uscire, chiamare-ascoltare, camminare-seguire, aprire, condurre, guidare, conoscere, dare la vita… Fino a identificarsi pienamente con ‘il buon pastore che dà la vita per le pecore’ (v. 11.15). Da notare che il testo greco usa un sinonimo: il pastore ‘bello’ (v. 11.14), cioè buono, perfetto, che unisce in sé la perfezione etica ed estetica. Bella, cioè, buona, è una persona, un’anima, un raccolto, una coppia, ecc. È così, perché “la bellezza salverà il mondo”, come affermano vari autori moderni: F. M. Dostoevskij, card. Carlo M. Martini, B. Forte, G. Bregantini, O. Paz, L. Esquivel.

Gesù dà la sua vita per tutti, vicini e lontani; ha anche altre pecore da guidare, fino a formare un solo gregge con un solo pastore (v. 16). Egli non rinuncia a nessuna pecora, anche se sono lontane o non lo conoscono: tutte devono entrare per la porta che è Lui stesso (cfr. Gv 10,7.9), perché Egli è l’unico salvatore. La missione della Chiesa si muove su questi parametri di universalità: vita offerta per tutti, prospettiva dell’unico gregge, vita in abbondanza... Anche se il gregge è numeroso, nessuno è in più, nessuno si perde nell’anonimato; al contrario i rapporti sono personali: il pastore conosce le sue pecore e queste lo conoscono (v. 14), le chiama una per una, per nome (v. 3). Vi è una circolarità di vita e di rapporti fra il Padre, Gesù e le pecore, animati da una linfa comune di conoscenza e di amore (v. 15). Questa circolarità diventa un modello per la missione della Chiesa.

L’intenso amore con cui il Buon Pastore dà la propria vita per le pecore produce frutti meravigliosi: fa di noi dei figli di Dio (II lettura). Giovanni ci assicura che “lo siamo realmente!”. E che un giorno vedremo Dio “così come Egli è” (v. 1-2). Con il dono della sua vita, il Buon Pastore è divenuto il Salvatore unico e universale, di tutti. Lo afferma con decisione l’apostolo Pietro, parlando di Gesù Cristo davanti al Sinedrio (I lettura): “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (v. 12).

Seguire le orme di Gesù ‘il Buon Pastore’ è anche l’obiettivo che si propone quest’anno la 58° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, nella quale il Papa presenta San Giuseppe come modello e ispiratore per le vocazioni, poiché il padre legale di Gesù, «attraverso i sogni che Dio gli ha ispirato, ha fatto della sua esistenza un dono». (*) La vocazione di speciale consacrazione (sacerdozio, vita consacrata, vita missionaria, servizi laicali…) si radica e si rafforza nell’esperienza personale di sentirsi amato e chiamato da Qualcuno che esiste prima di te. Per qualunque tipo di vocazione, è determinante sentire come vera la parola di Gesù: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (v. 14). Si tratta di un’esperienza fondante: sentire che sei conosciuto e amato da Dio ti fa vivere, ti dà sicurezza, ti fa sentire figlio e fratello, fa di te un discepolo-missionario, che cammina sulle orme di Gesù-Buon Pastore.

Sapere che vivi nel cuore di Dio ti apre al mondo, ti rende pronto a condividere i progetti e le preoccupazioni del Pastore Buono, che ha “altre pecore” (v. 16) da radunare, guidare, salvare. La vicinanza e la contemplazione del Pastore Buono ti fa essere Chiesa missionaria, con orizzonti grandi come il mondo intero. A tale scopo occorre animare le parrocchie e le comunità a non essere dei recinti chiusi, dove ci si prende cura di chi è rimasto, ma piuttosto comunità in uscita, campi base dove si sperimenta l’incontro con il Risorto e da cui si parte per annunciare Gesù ai vicini e ai lontani. La sfida – grande e gioiosa sfida! - per tutti noi, preti-suore-laici, è prendersi cura dei bisognosi, come fece il buon samaritano. Detto in parole di oggi: far propria l’espressione inglese “I care”, cioè: mi importa, mi prendo cura, mi sta a cuore.  

Parola del Papa

(*) «Il Signore desidera plasmare cuori di padri, cuori di madri: cuori aperti, capaci di grandi slanci, generosi nel donarsi, compassionevoli nel consolare le angosce e saldi per rafforzare le speranze. Di questo hanno bisogno il sacerdozio e la vita consacrata, oggi in modo particolare, in tempi segnati da fragilità e sofferenze dovute anche alla pandemia... San Giuseppe ci suggerisce tre parole-chiave per la vocazione di ciascuno. La prima è sogno. Tutti nella vita sognano di realizzarsi. Ed è giusto nutrire grandi attese, aspettative alte che traguardi effimeri – come il successo, il denaro e il divertimento – non riescono ad appagare. In effetti, se chiedessimo alle persone di esprimere in una sola parola il sogno della vita, non sarebbe difficile immaginare la risposta: “amore”. È l’amore a dare senso alla vita, perché ne rivela il mistero. La vita, infatti, si ha solo se si , si possiede davvero solo se si dona pienamente. San Giuseppe ha molto da dirci in proposito, perché, attraverso i sogni che Dio gli ha ispirato, ha fatto della sua esistenza un dono».
Papa Francesco
Messaggio per la 58° Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, 2021

P. Romeo Ballan, MCCJ