Roma, lunedì 30 luglio 2012
L’Abbazia Santa Maria del Monte, costruita sul Colle Spaziano, periferia di Cesena (nelle vicinanze di Rimini/Italia), ha una storia millenaria. Prima come piccola chiesa, poi come basilica e, finalmente, come monastero benedettino. Per parlare della vita odierna dentro il monastero siamo andati a incontrare Dom Gabriele dell’Ara, l’attuale superiore. Padre Gabriele è stato sacerdote diocesano per 25 anni e da 20 anni è monaco benedettino.

Ricuperare il silenzio e la preghiera

Intervista a Dom Gabriele dell’Ara priore dell’Abbazia Santa Maria del Monte

L’Abbazia Santa Maria del Monte, costruita sul Colle Spaziano, nelle vicinanze di Cesena, ha una storia millenaria. Prima come piccola chiesa, poi come basilica e, finalmente come monastero benedettino. Del monastero, che occupa un posto centrale nella storia della Chiesa di questa zona, si potrebbe scrivere tanto. Il primo dato storico proviene da un testimone d'eccezione: San Pier Damiani. Il santo, nella "Vita Beati Mauri”, testo scritto tra il 1042 e il 1053, narra che San Mauro, vescovo di Cesena, scelse il "Monte" che sovrasta la città quale luogo per condurre una vita di preghiera e meditazione. Si sa pure che alla sua morte, San Mauro fu sepolto in un sarcofago di pietra, oggi custodito nella cripta.
Da allora il monastero ha avuto un po’ di tutto: invasori e ospiti illustri. Nel 1986, per esempio, Giovanni Paolo II è stato ospite per due serate. Nell’Abbazia ci sono stati pure dei momenti gloriosi e altri drammatici. Uno di essi ebbe luogo durante la Seconda Guerra Mondiale. Dom Placido Zucal racconta i fatti nel suo libro “Clausura violata”.

Nel testo si dice che in quel difficile momento della storia, il monastero diventa rifugio per tanti cesenati impauriti dai bombardamenti. Ma questo non è tutto perché già prima che la guerra infuriasse, i monaci erano coinvolti nell’aiutare delle famiglie ebre. Dom Odo Contestabile, membro della comunità monastica accompagnò due famiglie ebree in Svizzera per due volte nel 1942.
Due anni dopo, nel 1944, i sotterranei del monastero ospiteranno molte famiglie cesenati che cercano di scampare ai bombardamenti degli alleati e alle deportazioni in Germania. In esso troveranno rifugio anche giovani e uomini per scappare all’arruolamento forzato.
Per poter nascondere le persona al momento dell’arrivo dei soldati tedeschi e fascisti, nel monastero si organizza un piano ben strutturato. I monaci si danno da fare per tentare un dialogo con i militari tedeschi che occupano l’Abbazia e convivono con i profughi. Decisiva sarà la capacità di mediazione dei religiosi per impedire che i partigiani, anch'essi rifugiati nel monastero, organizzino un attentato contro i tedeschi. Le conseguenze sarebbero state funeste.
Nel mezzo della sciagura ci sono stati dei bei segni: nessuno de 700 rifugiati è morto. Quattro bambini sono nati e sono stati battezzati. In sintonia con il carisma di San Benedetto, nel monastero sono riusciti a vivere insieme soldati tedeschi, partigiani, ebrei e famiglie cesenati.
Il prezzo pagato dalla comunità monastica però è stato molto alto: le bombe cadute hanno distrutto buona parte dell’abbazia e della chiesa; ma i “padroni di casa” hanno dato una lezione sul valore della pace e la tolleranza che difficilmente sarà dimenticata.
Per parlare della vita odierna dentro il monastero siamo andati a incontrare Dom Gabriele dell’Ara, l’attuale superiore. Padre Gabriele è stato sacerdote diocesano per 25 anni e da 20 anni è monaco benedettino.

La prima domanda che gli rivolgiamo è come si svolge una giornata normale all’interno del monastero.

La giornata per noi è caratterizzata dalla preghiera (l’opus Dei di S. Benedetto). Inizia alle 5:30 del mattino in chiesa, in coro, e si conclude alla sera dopo le nove con la preghiera di compieta anche in chiesa. Durante il giorno ci sono molti momenti di preghiera personale e comunitaria. Al mattino diciamo insieme il mattutino, poi facciamo la lezio divina personale, le lodi, l’ora media e celebriamo l’Eucarestia. Viene poi, fino a mezzo giorno, il lavoro e l’accoglienza se ci sono ospiti. I sacerdoti ci dedichiamo di solito alle confessioni. C’è né sempre uno in confessionale. Noi siamo in pochi e allora altri religiosi ci danno una mano.
Nel pomeriggio, a partire dalle 3:00 o 3:30 torniamo in chiesa per la preghiera di nona e poi, fino alle 6:00, di nuovo a lavorare. Alle 6:00 diciamo i vespri, viene poi la cena, compieta alle 9:00 e dopo a riposare per ripartire il giorno seguente al mattino presto.
E’ evidente che il centro della nostra giornata è la preghiera, l’Opus Dei a cui San Benedetto ci tiene tanto. E questo che dovrebbe vigilare il padre maestro e la fedeltà alla preghiera e l’obrobria, cioè le situazioni di difficoltà che si possono trovare in comunità.
Anche se la preghiera è fondamentale, imprescindibile, la cosa più importante per un monaco; non siamo qui solo per pregare. Importanti sono pure il lavoro e la vita comunitaria. Nella Regola di S. Benedetto si dice che siamo una famiglia. E in ogni famiglia, si sa, il padre è il moderatore. Questo ministero fra di noi lo compie l’abate o il superiore.
Ricapitoliamo: la vita monastica si svolge tutta attorno alla chiesa, all’ oratorio come la chiamava S. Benedetto. L’altra parte, dicevamo, è il lavoro. Nel passato si lavoravano i campi, la terra. C’erano poi tante altre attività per sostenere l’economia del monastero. Ora, invece, dedichiamo buona parte del nostro tempo al ministero.
E’ ovvio che dobbiamo coniugare lavoro e preghiera. Così lo prevede il famoso principio benedettino: “Ora et lavora”. La preghiera è il fondamento di tutto. Vogliamo perciò che anche il nostro lavoro diventi preghiera, che abbiamo cioè la possibilità di elevare la nostra mente a Dio secondo la classi definizione di preghiera di San Tommaso.

Quali sono gli altri elementi nella vostra vita quotidiana?

Un altro, pure questo molto importante, è l’accoglienza di tutti, di chiunque viene. San Benedetto dice: chi viene a visitarci è immagine di Cristo. E’ come se lo stesso Cristo Gesù arrivassi in mezzo a noi. Quindi, se è possibile dovremmo rompere il digiuno per fare festa all’ospite. Ogni persona che viene in mezzo a noi dev’essere accolta molto bene; con grande carità.
A motivo di questo, il servizio in portineria è fondamentale. San Benedetto chiede che il portinaio non sia né troppo giovane né troppo anziano. Se è giovane si perde in giro di qua e di là e non sarebbe pronto ad aprire al ospite che viene. Non dovrebbe neanche essere molto anziano perché sarebbe tardo nel aprire. Di lui si dice che deve essere una persona molto fidata: pronta ad accoglie subito all’ospite perché si senta a suo agio nel monastero.
Un altro elemento importante della vita monastica è il maestro dei novizi. Dev’essere uno che sa indagare molto bene; che va in profondità per vedere se quello che viene al monastero cerca veramente Dio. Questo è necessario oggi più che mai perché ci sono tante persone che bussano alla nostra porta, ma non sempre hanno l’intenzione di rimanervi. Molti vogliono restare in monastero per risolvere i propri problemi, per motivi finanziari o di solitudine. Sono pensionati, tal volta uomini separati dalla moglie… San Benedetto dice che se uno bussa bisogna lasciarlo bussare. Se insiste, lo si prende dentro ma gli si deve chiedere con quale scopo è venuto, se veramente cerca Dio. Se ha vocazione. Per questo ci vuole un vero discernimento.
Se si vede che la persona cerca d’avvero il Signore, allora viene ammessa al noviziato. Perché impari a vivere la vita monastica, più volte gli viene letta la Regola di San Benedetto. Nella tappa formativa è molto importante la testimonianza degli altri monaci.
Se poi si vede che la persona no è atta, con molta carità gli si dice: vai altrove, questa non è la tua strada. Come si può immaginare, capita che delle persone vengono e chiedono di essere ammessi. Poi vedono che la vita monastica non è facile; che ha delle caratteristiche che la rendono impegnativa e allora vanno via.
C’è, per ultimo, un altro elemento che è molto importante: la stabilità. San Benedetto è molto chiaro su questo argomento. Dice che il monaco non deve uscire perché non ha bisogno. Dentro il monastero ha tutto quello di cui ha bisogno. Da noi non c’è clausura ma non si esce. Per uscire non s’intende andar fuori per un attimo, ma trovare dei motivi o delle scuse per essere spesso fuori dal monastero, per scappare.

Secondo lei, come viene percepito il vostro stile di vita dalle persone di fuori?

Io sono in contatto con molti sacerdoti perché do una mano in incontri di vicaria su certi temi che hanno a che fare con la fede o la formazione degli agenti di pastorale o di altri cristiani. Vedo che apprezzano il nostro stile di vita. I sacerdoti stessi ci dicono: tenete ferma la vostra presenza in monastero. Non venite in giro per le parrocchie ad aiutarci. In parrocchia noi cercheremo di arrangiarci. Per noi il vostro contributo più importante è la preghiera e l’accoglienza: elementi molto importanti per l’evangelizzazione e la vita spirituale delle nostre comunità parrocchiali.
In realtà, grazie a la preghiera noi diventiamo lievito per coloro che sono missionari o evangelizzatori in prima linea.
Lo stesso si può dire dell’accoglienza. Si può fare tanto bene per mezzo di essa. Molto apprezzato è anche il contributo che diamo con le confessioni e la direzione spirituale. Non ci sono le folle che vengono a cercarci, non c’è la fila; ma c’è sempre qualcuno che ci visita. Nella zona si è sparsa la voce che siamo sempre qui. Per tante persone, sia la confessione che l’ascolto o il colloquio spirituale rappresentano un grande aiuto.
Attualmente nel monastero siamo impegnati pure nell’accoglienza di altre espressioni di vita religiosa. Ora, per esempio, un gruppo di rumeni ortodossi si stanno preparando per celebrare la loro Pasqua nella nostra cripta. Anche questo è un modo per venire incontro alle necessità spirituali degli altri e di fare ecumenismo. C’è un bellissimo rapporto tra noi e il loro sacerdote che abita qua vicino. Ci aiutiamo gli uni gli altri. Lui viene su spesso a trovarci. Tutto lo facciamo d’accordo col vescovo: “nihil sine episcopo”.

Che cos’altro può offrire una vita come la vostra a questo mondo: sconvolto, ipercomunicato, distratto, a volte disperato…

Aiutiamo alle persone a scoprire il valore di stare con se stessi. Sono molti quelli che fuggono, hanno paura di incontrare se stessi. Talora ci sono individui arrabbiati col mondo, con gli altri, con sé stessi… Il monastero può diventare un’oasi: un luogo dove si trova pace, dove si può pregare o riflettere; dove si può trovare la forza per andare avanti. Se uno viene e si ferma qui qualche giorno riscopre il valore del silenzio, del dialogo, dell’interiorizzazione di qui ha tanto bisogno l’uomo dei nostri giorni.
In un mondo in cui si da tanto valore all’immagini (oggi l’immagine è tutto) noi cerchiamo d’insegnare quanto sia importante andare in profondità per portare l’uomo a Dio attraverso sé stesso. L’uomo che trova sé stesso trova Dio. Credo che questo sia un altro modo aiutare.
Tutto questo lo facciamo in sintonia con il nostro carisma, perché se lo abbandoniamo tanto vale che diventiamo missionari anche noi o parroci.

Siamo ormai alle porte del Sinodo dei Vescovi che, questa volta, ha per tema la nuova evangelizzazione. Lei cosa ne pensa?

Il tema della Nuova Evangelizzazione è molto importante. Giovanni Paolo II ne parlava spesso e volentieri. Nel momento che stiamo vivendo, la nuova evangelizzazione è molto necessaria, urgente, perché il Vangelo deve essere di nuovo annunziato. Abbiamo bisogno di andare oltre la devozione. Il Vangelo è vita e interessa tutte le dimensioni umane.
Io spero che il Sinodo non si riduca solo a un bel documento; a tante belle parole ma ci porti a una vera conversione. Anche in paesi di antica tradizione cristiana o nella nostra zona abbiamo bisogno di una nuova evangelizzazione. Il Sinodo darà delle linee generali che la Chiesa locale e tutti noi dobbiamo applicare alla realtà locale e alla vita di tutti i giorni.
In questo campo, penso che la testimonianza di pastori e laici cristiani abbia una importanza decisiva. Paolo VI diceva che “l’uomo del nostro tempo ha più bisogno di testimoni che di maestri”. La sua espressione è diventata proverbiale. Di parole se ne dicono tante, si scrive tanto. Ma a questo deve corrispondere una vera testimonianza. Ognuno al proprio posto deve vive il suo carisma: il laico nelle realtà di tutti i giorni e i sacerdoti e consacrati in quello che è suo. Per me il prete deve fare il prete; non può fare il sindacalista. Lo dico ancora: ognuno al suo posto. Ora io sono convinto che in tutto questo il silenzio, la preghiera, spere stare con sé stessi sono elementi imprescindibili. In questo campo credo che la vita monastica e la vita contemplativa in generale può dare un gran contributo.

Molte persone, soprattutto i giovani, si domandano perché rimanere chiusi in un monastero con tanti bisogni pastorali che ci sono fuori. Lei cosa risponde?

Ai giovani io direi: “venite e vedete”. Imparate a stare con voi stessi. Cercate di fare silenzio. Nel silenzio e nella preghiera si trovano risposte alle domande fondamentali. Il chiasso; essere sempre connessi con il mondo virtuale o digitale non è tutto. Ve lo dice uno che sa cosa significa tutto questo perché sono stato parroco. So che nemmeno a casa avete la possibilità di un po’ di silenzio. Vi alzate al mattino e la televisione è già accesa. Ho visto e vedo ancora giovani che ovunque vanno portano le cuffiette per ascoltare musica… Alcuni non riescono ad addormentarsi senza le cuffiette della musica.
Ricuperare il silenzio significa ricuperare la preghiera l’elevazione della mente a Dio. E nella preghiera si trova il vero senso della vita, dell’autentica umanizzazione.
Jorge Garcia Castillo, mccj