Mercoledì 2 ottobre 2019
Quando si parla delle Chiese africane, noi occidentali rischiamo spesso di coltivare un atteggiamento paternalistico, sentendoci per così dire benefattori nei confronti di coloro che vivono nelle periferie del mondo. Sarebbe pertanto necessario promuovere sempre più una seria riflessione sulla cooperazione missionaria intesa nella logica della condivisione. (...)

La lezione della teologia africana
Dio, il male e la responsabilità umana

Quando si parla delle Chiese africane, noi occidentali rischiamo spesso di coltivare un atteggiamento paternalistico, sentendoci per così dire benefattori nei confronti di coloro che vivono nelle periferie del mondo. Sarebbe pertanto necessario promuovere sempre più una seria riflessione sulla cooperazione missionaria intesa nella logica della condivisione. Essa, infatti, è espressione fattiva, stando al Decreto conciliare Ad gentes (Capitolo VI), di un coinvolgimento di tutto il popolo di Dio, proteso alla comunione tra le Chiese. Non si tratta dunque di una partecipazione di sostegno, esterna, nella quale i beneficiari sono sempre coloro che vivono in una condizione d’indigenza. La cooperazione, infatti, è un’esperienza di vita missionaria in cui si è chiamati ad affermare la circolarità delle relazioni. Purtroppo, nell’immaginario nostrano la cooperazione è spesso incentrata sul soggetto che coopera donando; è lui il protagonista in quanto donatore, mentre colui che riceve è inteso come mero soggetto passivo. Forse mai come oggi, nella cornice del villaggio globale è fondamentale comprendere, con il cuore e con la mente, che le Chiese di antica tradizione, come anche le giovani Chiese, sono chiamate allo scambio dei doni, all’appuntamento condiviso del dare e del ricevere. In questa prospettiva, sarebbe auspicabile, ad esempio, promuovere iniziative protese alla conoscenza della teologia africana che, alla prova dei fatti, è sì relativamente giovane, ma comunque ricca di spunti e suggestioni anche per noi occidentali. A parte la riflessione impressa nei primi secoli del cristianesimo da personaggi della statura di Agostino, Cipriano, Tertulliano, il primo dibattito pubblico, in tempi moderni, sulla possibilità di una vera e propria inculturazione del messaggio evangelico si svolse a Kinshasa (ex Congo Belga) nel 1960, presso la Facoltà teologica dell’allora Università di Lovanium. Fu una sorta di primigenia ispiratio che nasceva dall’esigenza di africanizzare le Chiese locali dopo secoli di colonialismo. Un’istanza di cui si fece portavoce l’allora monsignor Joseph-Albert Malula, padre conciliare al Vaticano II, creato poi cardinale da san Paolo VI nel 1969. Un segno evidente che la teologia africana partiva col piede giusto grazie all’empatia tra un vescovo illuminato come Malula e gli agenti pastorali, soprattutto laici. Si trattò in ogni caso dell’inizio di un cammino che, da allora, partendo dall’esigenza di metabolizzare il messaggio evangelico in culture anni luce distanti da quella occidentale, si è aperto, gradualmente, ai temi dell’inculturazione, della ministerialità, della liberazione e dell’ecumenismo.

Esaminando, comunque, lo sviluppo della teologia africana, si rileva che fu proprio durante il Sinodo dei Vescovi del 1974 a Roma che i partecipanti africani avvertirono l’esigenza di una riflessione teologica sul mistero dell’incarnazione del cristianesimo nel continente africano, rigettando definitivamente la terminologia riduttiva di “adattamento” o “indigenizzazione” maturata nel corso dell’epopea coloniale. Ecco che allora l’inculturazione non poteva prescindere, per gli africani, dalla questione di conoscere chi è Gesù Cristo. A questa domanda, diversi teologi africani hanno trovato un elemento di risposta studiando il problema dei titoli attribuiti al Cristo. Ad esempio, rileva il teologo Bénézet Bujo, «Se nel canto eucaristico Adoro te devote, attribuito a san Tommaso d’Aquino, si è cantato per secoli: “Pie pellicane, Jesu Domine”, gli africani neri non potevano immaginarsi il simbolo soggiacente al pellicano, dato che si trattava di un elemento culturale proprio di un certo mondo occidentale». È dunque per il desiderio di una migliore comprensione della persona di Cristo che ha cominciato a svilupparsi una cristologia africana. Dato che in Africa tutto ruota attorno all’abbondanza di vita, era scontato che i teologi si rivolgessero al concetto di “antenato” che è centrale per la comprensione della vita, eccettuando naturalmente Dio Padre in quanto fondamento ultimo della vita e di tutta la creazione. Uno sforzo, questo, che rappresenta per certi versi una provocazione attuale, nel contesto della post modernità, dove i linguaggi e dunque le parole sono spesso estranei alla cultura della gente. Sta di fatto che mentre oggi in Europa il tentativo è quello di ridare, in tempi di crisi, un senso comprensibile alla nozione di cristianesimo come “Religio vera”, in Africa l’istanza viene espressa in termini certamente meno teoretici ma comunque pregnanti. Come rileva padre Francesco Pierli, ex superiore generale dei missionari comboniani, «se la Chiesa vuole essere un credibile agente di cambiamento nella società contemporanea deve saper offrire una migliore comprensione del rapporto che esiste tra il mistero di Dio, il male e la responsabilità umana». In effetti, il rischio di un sincretismo religioso tra elementi biblici e aspetti delle religioni tradizionali (animismo) è sempre in agguato, come peraltro riferito durante i due sinodi africani svoltisi a Roma. A questo riguardo, in molti circoli teologici africani si avverte il bisogno istintivo di coniugare “Spirito e Vita”, resistendo al tremendo mistero del male, con la grazia di Dio e un impegno fattivo, accettando le proprie responsabilità. «L’Africa ci può aiutare — sempre secondo padre Pierli — a riscoprire il senso del mistero per superare lo scientismo illuminista che uguaglia la religione a superstizione, e la secolarizzazione. Il mistero integra la dimensione visibile e quella invisibile». Non sorprende, pertanto, che nelle 57 “Propositiones” del Secondo Sinodo Africano, accanto a precise analisi sociali, denunce profetiche e proposte concrete di natura economica e politica, la parola “preghiera” ricorra ben 14 volte. Sta di fatto che oggi in un’istituzione cattolica prestigiosa del calibro dell’istituto di Social Ministry in Mission del Tangaza University College di Nairobi (che proprio quest’anno compie i suoi 25 anni dalla fondazione) si tende sempre più a fare dell’analisi sociale un aspetto costitutivo della riflessione teologica, mirando a una vera inculturazione anche della dottrina sociale della Chiesa, perfettamente in linea con il magistero di Papa Francesco. Una lezione di cui fare tesoro guardando anche alla necessità in Europa di una pastorale ordinaria capace di recepire le istanze della Laudato si’, quelle della “Casa Comune”.
[Giulio Albanese – L’Osservatore Romano]