Lunedì 1 febbraio 2021
“Abbiamo cercato, in queste pagine, di tracciare un percorso breve, comprensibile e aperto, che possa essere di aiuto per un’eventuale discussione sulla questione proposta: il radicamento, o il mancato radicamento, degli istituti missionari nelle Chiese locali d’Europa (in un momento propizio alla riflessione, come è la preparazione del 19º capitolo generale). Rileggendo il testo, mi accorgo che lo si potrebbe accusare di essere generico, unilaterale e/o eccessivamente negativo, e certamente anche limitato riguardo alla situazione degli altri istituti missionari, sui quali non abbiamo ancora raccolto sufficienti dati.” (P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, mccj)

ISTITUTI MISSIONARI IN EUROPA:
CHE FUTURO?

Introduzione

Il titolo che abbiamo adottato può portare qualche lettore ad una percezione affrettata, ancora prima di leggere il testo: che siamo preoccupati dalla sopravvivenza degli istituti missionari a causa della mancanza di vocazioni missionarie nell’Europa. Diciamo subito che non è questo il nostro punto di partenza, anche se, come vedremo, non si può evitare la questione della generalizzata mancanza di vocazioni missionarie in Europa, quando parliamo degli istituti missionari in questo continente.

Il nostro punto di partenza è un altro: la percezione di uno sradicamento degli Istituti missionari dalle Chiese locali d’Europa. Da una parte, sembra che le Chiese d’Europa non riconoscano più gli istituti missionari come loro espressione missionaria attualizzata e, dall’altra, sembra che gli istituti missionari si siano allontanati dalla sensibilità e dalla vita delle Chiese europee. Ovviamente, parliamo solo degli istituti missionari in Europa e non facciamo riferimento alla loro situazione in Africa, per esempio, dove la loro fecondità apostolica è evidente e l’inserzione nelle Chiese locali più facilitata e meno problematica.

Questo nostro punto di partenza può non essere condiviso e/o rifiutato. Ma è da questa constatazione che partiamo. Davanti ad una evidente mancanza di fecondità e creatività apostoliche (che va molto oltre la questione delle vocazioni), pensiamo che non si possa evitare la questione del radicamento, o della sua mancanza, degli istituti missionari nelle Chiese locali che li hanno visti nascere.

Scriviamo in prima persona plurale, perché si vuole captare la benevolenza del lettore e coinvolgerlo nella stesura della narrativa, magari costruendo la propria, adottando quella che qui si propone o integrandola con punti di vista differenti.

Esaurimento carismatico

Per cominciare, elaboriamo un po’ questo nostro punto di partenza.

Gli istituti missionari in Europa sembrano essere arrivati ad una situazione di esaurimento apostolico. Le vocazioni sono espressione del radicamento di un carisma nella Chiesa locale. Ma non sono l’unica… Gli istituti missionari in Europa, infatti, sembrano incerti anche per quanto riguarda l’identità del loro carisma nel contesto delle Chiese locali europee. Nei due ultimi decenni hanno sposato le pressanti cause del momento europeo (lobbying per la giustizia e la pace, migranti, lotta allo sfruttamento di persone, alla produzione di armi, difesa dell’ambiente ed ecologia…) ma non sono riusciti ad affermarsi come soggetti dell’evangelizzazione del continente, offrendo alle Chiese locali iniziative e percorsi di presenza e annuncio cristiano, di iniziazione e accompagnamento ecclesiale di persone e gruppi. Questo nostro riferimento all’esaurimento apostolico degli istituti missionari in Europa va anche collegato ad una perdita della spinta carismatica che caratterizza, secondo certe analisi storiche, la vita degli istituti dopo un certo tempo della loro fondazione. Alcune analisi parlano di cento anni e concludono che questa sarebbe la situazione degli istituti in Europa.

L’animazione missionaria e la promozione vocazionale sono rimaste l’ambito principale della presenza e attività dei missionari (anche dei comboniani) in Europa, negli ultimi vent’anni, portate avanti con un numero notevole di persone e una grande varietà di iniziative. Ma la sensazione crescente, in questo periodo, è che queste attività stiano perdendo terreno e il modello di presenza che incarnano non sia più aderente alla realtà ecclesiale. Da una parte, è evidente il contrasto tra mezzi impegnati e frutti apostolici e carismatici ottenuti; dall’altra, soprattutto per quanto riguarda la promozione vocazionale, sembra evidente che il modello seguito abbia perso capacità di motivazione. Il percorso di questi anni ha evidenziato che i giovani candidati non solo sono pochi ma che questi pochi non riescono a sentirsi motivati per un cammino di formazione che arrivi alla consacrazione per la missione, e abbandonano facilmente il cammino intrapreso.

Non mancherà chi chieda prove di quello che si afferma sopra. Ma, per quanto ci riguarda, non occorrono altre prove per quello che è evidente. Perciò, questa situazione è il punto di partenza che adottiamo quando parliamo di esaurimento apostolico e carismatico. È nostro desiderio, però, che il testo, con la dose di provocazione che ha, possa aiutare all’approfondimento della questione e spingere alla riflessione di quanti desiderano capire quello che sta accadendo agli istituti missionari nelle Chiese d’Europa.

Ritengo che, con il lettore, abbiamo una prospettiva comune: questa riflessione, anche se urgente e doverosa, non è la cosa da cui dipende il futuro degli istituti missionari in Europa. Questo futuro dipende da Dio e dalla storia che sta scrivendo nelle Chiese del continente, nella vita degli istituti stessi e da come rispondiamo ad essa; a Dio, dunque, ci affidiamo, in questo tentativo d’interpretazione, con la fiducia che hanno avuto i grandi missionari fondatori. Per san Daniele Comboni, come ben sappiamo noi comboniani/e, le difficoltà, le croci, erano segno evidente di un agire nascosto di Dio, della Sua ora, perché “le opere di Dio nascono e crescono ai piedi della Croce” ([1]) in mezzo alle difficoltà. Invochiamo, così, la sua fiducia in Dio e il suo “coraggio, per il presente e, soprattutto per il futuro” ([2]).

L’ora del ritorno

Sotto molti aspetti, per gli istituti missionari in Europa, più che l’ora della partenza (dell’uscita), è l’ora del ritorno. Gran parte, infatti, delle attuali risorse, di persone e mezzi, degli istituti missionari in Europa va all’accoglienza dei missionari che ritornano nei loro paesi e Chiese d’origine, per ragione di età e/o di salute. Questa accoglienza è ammirevole e va riconosciuta e apprezzata, come una risposta positiva e molto bella da parte degli istituti alla sfida del proprio invecchiamento.

Negli ultimi due decenni, lo sradicamento degli istituti missionari in Europa è stato accentuato da due fattori: l’inadeguatezza delle strutture d’inserimento ereditate dal passato e l’invecchiamento dei membri. Mentre per il primo fattore si sono trovate delle risposte, non c’è stato modo di arginare il secondo.

Infatti, l’invecchiamento dei membri degli istituti missionari in Europa è precipitato inesorabilmente. Se guardiamo ai missionari comboniani in Europa, possiamo affermare che l’attuale situazione della provincia italiana e di quella di lingua tedesca è emblematica di quanto sta succedendo alle altre, fatte salve le dovute differenze di proporzione. Uno sguardo alla provincia italiana, per esempio, rivela che i 254 comboniani italiani attualmente presenti nella loro provincia d’origine hanno un’età media di 75,78 anni così distribuiti: 30, sopra i 90 anni; 89, tra 80 e 89 anni; 59, tra 70 e 79; 46, tra 60 e 69; 21, tra 50 e 59; 5, tra 40 e 49; 4, tra 30 e 39 e nessuno sotto i 30 anni ([3]).

L’invecchiamento è un coltello a due lame: da una parte si invecchia e dall’altra diminuiscono i membri in età da poter operare una svolta apostolica e dar corpo a nuove iniziative carismatiche.

Quest’ora del ritorno può eventualmente essere anche l’ora di un nuovo ripartire, se le risorse umane e materiali non vengono esaurite nell’accoglienza, ma dirette anche alla ricerca di iniziative nuove di radicamento nelle Chiese locali, in vista di una rinnovata fecondità carismatica e apostolica. Alcune province comboniane però, come ad esempio la Spagna e il Portogallo, sembrano godere di una situazione migliore di quella italiana e tedesca perché, se è vero che hanno un numero minore di membri (45 il Portogallo e 43 la Spagna) dispongono però di un più significativo numero di confratelli nella fascia che va dai 30 ai 60 anni e vivono in un contesto ecclesiale ancora favorevole. Il Portogallo, per esempio, ha ancora 8 persone sotto i 50 anni, su un totale di 45, mentre Italia ne ha appena 9, su un totale di 254. Anche l’età media dei comboniani in Portogallo (69,2 per i fratelli e 68,3 per i sacerdoti) è inferiore – anche se non di molto – a quella italiana (75,78 per fratelli e sacerdoti). E i 43 comboniani presenti in Spagna hanno una media di 66,7 anni d’età, e tra questi, 4 hanno meno di 50 anni. Dobbiamo registrare, comunque, che il fatto che le province del Portogallo e della Spagna abbiano avuto nel passato recente una media di confratelli più giovani non le abbia agevolate per la ricerca di nuovi cammini d’inserzione.

Un contesto sfidante

Il contesto sociale ed ecclesiale europeo in cui ci troviamo, cioè l’eventuale scenario per questa auspicabile svolta, è particolare: da una parte offre delle possibilità insite nella crisi, dall’altra, ridisegna il quadro dell’inserimento in modo nuovo. In questo senso, quattro sono i processi in corso, che contraddistinguono il contesto che gli istituti missionari vivono in Europa.

Il primo processo è ambivalente: l’inarrestabile processo di secolarizzazione che sta decostruendo la società europea e rinchiudendo la dimensione religiosa nella sfera individuale; l’allargarsi della “società liquida” ([4]), che segna l’ambiente postcristiano che se respira in Europa, soprattutto tra i giovani. Un processo di cui tutti sembriamo consapevoli, ma al quale non si vede risposta, per quanto riguarda l’evangelizzazione ([5]). L’iniziativa della nuova evangelizzazione [l’idea della nuova evangelizzazione fu lanciata da Giovanni Paolo II ([6]), pensando soprattutto all’evangelizzazione dell’Europa], con la creazione del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione ([7]), non ha decollato come risposta alla sfida: il Consiglio ha lasciato fuori gli istituti missionari, le sue iniziative presto hanno perso vigore, riducendosi ad una sponda burocratica di approdo per un nuovo gruppo di curiali.

Con il pontificato di Papa Francesco, ha preso iniziativa e protagonismo il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ([8]) che, in pieno anno della pandemia, è riuscito a farsi approvare dal Papa un’intensa agenda di attività e incontri, facendola passare come risposta del momento alla sfida dell’evangelizzazione. Stavolta, gli istituti missionari sembra riescano ad agganciarsi a queste iniziative, data la sintonia con le dimensioni della missione da essi sottolineate in Europa [come dimostra l’iniziativa lanciata dalla famiglia comboniana in Italia, nel mese di ottobre 2020 ([9]), ispirata ai tre più recenti documenti di Papa Francesco: Laudato Si’, Querida Amazonia e Fratelli Tutti. Curiosamente la Evangelii Gaudium è lasciata fuori, non viene menzionata, in un’iniziativa presentata come “cantiere per la nuova missione” nel mese missionario. E, presentando la finalità di quest’ iniziativa, non si parla di un’evangelizzazione che assuma un’ecologia integrale, ma di promuovere “una conversione ecologica, sociale, culturale ed economica” nella “speranza che da questo cantiere possa nascere un movimento popolare” ([10])].

L’altra iniziativa, lanciata sempre da Giovanni Paolo II, pensando all’evangelizzazione dei giovani (le Giornate Mondiali della Gioventù) e che ha visto il coinvolgimento di parrocchie, movimenti, nuove comunità, non è riuscita a interessare gli istituti missionari in Europa. Questi, in generale, si sono tenuti ai margini di queste iniziative e non hanno investito nella loro realizzazione né capitalizzato nei dinamismi che esse hanno generato tra i giovani cristiani del continente.

Il secondo processo del contesto europeo è negativo: si tratta della crisi economica iniziata nel 2008, che ha innescato una bomba a orologeria nella questione delle risorse e della sostenibilità degli istituti missionari e delle loro iniziative missionarie, con l’inizio di una diminuzione molto significativa del supporto materiale da parte di benefattori individuali e istituzionali in Europa.

Il terzo processo, chiaramente positivo, è il pontificato di Papa Francesco, che ha offerto agli istituti missionari un magistero favorevole, rinnovato e attraente, sull’attualità del carisma missionario, con la sua proposta di una configurazione missionaria di tutta la Chiesa ([11]). L’azione e il magistero di Francesco hanno una doppia valenza: di de-costruzione di un modello di Chiesa e di missione in crisi e di proposta di un modello alternativo ([12]). E, anche se l’attuale pontefice appare più efficace nel lavoro di “picconatore” che di “propositore” effettivo ([13]), la sua azione e il suo magistero costituiscono una promessa per tutti nella Chiesa, in particolare per gli istituti missionari. Naturalmente, sta a loro esplorare e appropriarsi, secondo il proprio carisma e le proprie possibilità, della proposta e della narrativa missionaria del Papa.

Quarto processo, difficile (ancora) da caratterizzare, è la pandemia che si è abbattuta sull’Europa, come sugli altri continenti. Con modi, tempi e ritmi differenti, la pandemia ha capovolto la vita di tutti e messo in sospeso il futuro. In particolare, ha intaccato il paradigma di inserzione degli istituti missionari nelle Chiese d’Europa, inserimento che faceva leva sulla mobilità dei missionari e sulla convocazione di persone e raccolta di aiuti. Gli istituti, come d’altronde le chiese nel continente, si sono rivelati piuttosto incapaci di andare oltre quello che tutti dicono e dire quella Parola di Vita che aiuti a trovare senso a quello che viviamo e a dare risposte alle incertezze che ci sono covate dentro di noi. Questa parola è la parola che porta il Vangelo del Regno e la sua testimonianza e annuncio sono stati sempre chiamati evangelizzazione.

La pandemia è ancora in atto e, naturalmente, è difficile prevedere, nel momento in cui scriviamo, come andranno le cose e che cosa lascerà, la presente tempesta, sulle sponde della vita della Chiesa e degli istituti missionari ([14]). Ma molti concordano nel profetizzare che le cose non ritorneranno come prima e che il cambiamento d’epoca, che già vivevamo all’inizio del secolo XXI, sarà definitivamente segnato da questa pandemia e dai risvegli spirituali, culturali e politici che essa provocherà e ci lascerà. Questo non vuole dire che le cose saranno facilitate per il Cristianesimo in Europa e che la pandemia dia una spinta all’evangelizzazione del continente, come si poteva sperare in un primo momento: anzi, “ci sono anche autori che convergono nel dire che con la pandemia la laicizzazione in Europa sia avanzata di dieci anni” ([15]).

Considerare le origini

Papa Francesco, in varie occasioni, ci ha invitato a guardare alla storia per far luce sul presente. Vorrei riprendere il suo ultimo richiamo ([16]): “Solo dalla verità storica dei fatti potranno nascere lo sforzo permanente e duraturo di comprendersi a vicenda e di tentare una nuova sintesi per il bene di tutti”.

Nati nell’Ottocento, in particolare nelle Chiese del centro Europa (nord Italia, Francia, Austria e Germania…), con un inquadramento canonico diversificato (Società di Vita Apostolica e Congregazioni Religiose di voti semplici…), gli Istituti Missionari ad Gentes hanno operato su tre postulati fondamentali: 1º, l’urgenza dell’annuncio cristiano e la necessità del Battesimo, in obbedienza al mandato missionario di Cristo; 2º, l’avviamento e accompagnamento delle comunità cristiane, le Chiese locali, nei vari continenti; 3º, l’azione a favore dello sviluppo umano e la trasformazione sociale, politica ed economica dei popoli.

Dietro la fioritura degli istituti missionari troviamo una molteplicità di fattori, già studiati da storici della Chiesa ([17]).

Primo fattore, l’ampio movimento missionario dell’Ottocento, che incarnò l’apertura più significativa della Chiesa del tempo. Non si trattò di una fuga in avanti, ma di un vero “andare alle periferie”, di un “vivere i dinamismi di una Chiesa in uscita”, per usare le parole che papa Francesco usa oggi ([18]). I fondatori missionari – e quanti li hanno seguiti nell’avventura di andare oltre e cercare un nuovo rapporto con i popoli, con le loro culture e religioni – si sono rifiutati di restare prigionieri delle tensioni della Chiesa del loro tempo e del loro spazio geografico e si sono lanciati in iniziative missionarie innovatrici. Nel loro amore e nella loro adesione alla Chiesa, hanno intuito che i tempi stavano cambiando, ma i cammini nuovi per la nuova uscita ecclesiale non si conoscevano, bisognava scoprirli per dare loro concretezza storica. Cioè, sfondare per fondare qualcosa di nuovo…

Secondo fattore, il supporto spirituale e materiale dei gruppi di rinnovamento nella Chiesa dell’Ottocento. L’Ottocento ha visto fiorire in Europa una galassia di gruppi e movimenti di preghiera e vita cristiana, a cui i fondatori hanno attinto ispirazione e nutrimento spirituale, trovando i modi di inserirsi in questo tessuto delle Chiese locali irrigato da forte lievito di rinnovamento.

Terzo fattore, l’idealismo della trasformazione sociale ispirata al Vangelo. Nell’Ottocento, si partiva dall’esperienza cristiana, dalla liturgia e della vita sacramentale, per portare il Vangelo alla società e innescare la trasformazione sociale e culturale ad esso ispirata. Oggi, la prospettiva è differente e si parte dalla realtà per arrivare al Vangelo, da calare in essa come lievito. Ma la sfida è la stessa e nell’Ottocento è stata una prospettiva vincente, se guardiamo all’ottimismo che ha spinto tanti cristiani in Europa ad appassionarsi alla trasformazione sociale ispirata al Vangelo e a portare il Vangelo del Regno in Africa e Asia. Alcuni pensatori collocano in questa visione le radici del cristianesimo segnato da una forte dimensione sociale che ha caratterizzato la Chiesa dell’Europa (Francia, Italia del nord, Germania, Austria…) dalla fine del secolo XIX agli anni ’70 del secolo XX ([19]) e che ha avuto nell’Azione Cattolica (con il suo metodo del vedere, giudicare ed agire proposto da Joseph-Leon Cardijn) la sua espressione più strutturata.

Quarto fattore, l’alleanza tra clero (molti protagonisti di iniziative missionarie venivano dal clero diocesano) e laici (artigiani e così chiamati “maestri di uffici”…), un’alleanza dove i laici erano talvolta i più numerosi nelle spedizioni missionarie, in un tempo e in una Chiesa che non era ancora arrivata alla teologia ministeriale e alla definizione della missione del laicato.

Quinto fattore, ultimo in quest’ordine, ma forse primo per la novità e l’importanza: l’alleanza con le donne e il coinvolgimento delle donne nell’iniziativa missionaria e nella promozione dell’iniziative missionarie della Chiesa e degli istituti nascenti. Per la prima volta, nell’Ottocento, troviamo le donne in prima linea nella missione cristiana nel mondo e nell’animazione missionaria della Chiesa ([20]).

Contributo fondamentale

La brevità di questo saggio non permette di soffermarci su altri fattori, del contesto sociale, politico e culturale, che hanno influito sulla rinascita missionaria dell’Ottocento in Europa. Ricordiamo solo che la condizione della Chiesa nella società europea del tempo era molto difficile (le conseguenze della Rivoluzione francese, le lotte per l’unificazione dell’Italia, la caduta di Roma e la fine dello stato pontificio, il liberalismo europeo, ecc.), situazione che può richiamare quella attuale, in particolare la deriva della secolarizzazione, il liberalismo economico e la globalizzazione.

Ricordiamo anche che gli istituti missionari hanno avuto il loro tempo di espansione e di feconda attività soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento fino al Concilio Vaticano II, e anche dopo, fino agli anni Ottanta del secolo scorso. In questo periodo, di cento anni, hanno dato un contributo fondamentale al radicamento della Chiesa cattolica tra i popoli dei vari continenti, soprattutto in Africa e Asia, contributo che gli storici della Chiesa riconoscono.

Possiamo concludere questo sguardo storico dicendo che gli istituti missionari, liberi da vecchi inquadramenti canonici e dal peso di tradizioni che appesantivano l’azione missionaria dei grandi ordini religiosi, hanno rappresentato novità di approccio e di metodologie missionarie e hanno dato una notevole spinta all’azione missionaria della Chiesa cattolica, fino a diventare la manifestazione più significativa  della sua apertura al mondo, dall’Ottocento fino al Vaticano II, spingendo verso la costituzione delle Chiese locali e la promozione e liberazione dei popoli.

Il capovolgimento

La fine del secolo XX e il passaggio al XXI hanno accentuato un capovolgimento nella situazione degli istituti missionari in Europa, mettendo in evidenza la crisi del loro inquadramento nelle Chiese locali in cui erano nati. I fattori fondamentali che preannunciavano una situazione nuova si possono ridurre anche qui a quattro.

Primo fattore, al quale abbiamo già accennato, l’invecchiamento dei membri degli istituti e l’accentuata, prima, e poi, totale mancanza di vocazioni missionarie, sia femminili che maschili, in Europa. Le province comboniane europee sono arrivate alla fine della seconda decade del secolo senza nessun candidato nelle varie fasi della formazione. Di fronte a questa sorprendente mancanza di vocazioni, tutti abbiamo sentito la risposta che abitualmente ci diamo: “non abbiamo vocazioni, perché non ci sono più vocazioni in Europa”. Ma questa risposta contiene solo una mezza verità: non ci sono vocazioni in Europa per gli istituti missionari, per noi, ma ci sono per le nuove comunità e movimenti; non ci sono i numeri di una volta, ma ci sono i numeri significativi e incoraggianti per movimenti, diocesi, istituti che hanno intrapreso un cammino di ricerca di vie nuove di radicamento carismatico nel tessuto ecclesiale e sociale europeo.

Secondo fattore, l’avvento di una nuova coscienza ecclesiale che (per ragioni varie che hanno a che vedere col dialogo ecumenico e interreligioso) non ritiene più urgenti né il battesimo né l’entrata nella Chiesa di persone e popoli. La necessità del battesimo e della Chiesa per la salvezza si è affievolita ed essi non costituiscono più parte determinante delle motivazioni per l’evangelizzazione. I modelli dell’ecclesiologia che si sono affermati, dopo il Concilio Vaticano II, non sono riusciti ad assicurare alla missione cristiana il supporto offerto dal modello istituzionale, prevalente nella ecclesiologia dalla metà del secolo XIX alla metà del secolo XX, cioè dal Vaticano I al Vaticano II, che dava “un forte sostegno allo sforzo missionario con il quale la chiesa va verso quelli che non sono suoi membri” ([21]). Al contrario dell’ecclesiologia istituzionale, che dominò nell’Ottocento, la ecclesiologia di comunione che si sviluppò dopo il Vaticano II “manca nel dare ai cristiani un senso molto chiaro della loro identità o missione (…), la motivazione per la missione cristiana è lasciata nell’ombra” ([22]). E l’ecclesiologia sacramentale postconciliare è un modello di chiesa che “dà ampio spazio all’agire della grazia divina al di là dei confini della chiesa istituzionale.”

Terzo, l’emergenza della società civile e dei suoi dinamismi umanitari, che hanno fatto sorgere forme nuove d’intervento a favore dello sviluppo e della promozione umana. Nei vari continenti, anche in Africa, sono sorte un’infinità di organizzazioni non governative (ONG) che rispondono alle sfide dello sviluppo e delle nuove cause umanitarie. Questo fenomeno ha reso ridondante l’impegno delle Chiese e ridotto di molto lo spazio e le opportunità di coinvolgimento degli istituti missionari nel campo sociale: per iniziativa propria, o forzati da politiche governative, gli istituti missionari hanno abbandonato le strutture del loro impegno (ospedali, scuole…) nella promozione della salute e dell’educazione.

Quarto fattore, anch’esso già menzionato, la mancanza di radicamento degli istituti nelle Chiese d’Europa. Per ironia del destino e della storia, all’inizio del secolo XXI gli istituti missionari si trovano agli antipodi della situazione che li ha visti nascere, sprovvisti, cioè, dell’appoggio delle Chiese locali e dei principali gruppi e comunità di rinnovamento ecclesiale. I cristiani europei e la gente in generale apprezzano il nostro protagonismo sociale e la nostra dimensione profetica [la ministerialità sociale, con il termine usato oggi ([23])], ci danno (ancora) i loro soldi per appoggiare le nostre iniziative ma non ci seguono più né ci vedono come incarnazione dell’impegno cristiano e missionario che occorre vivere ed emulare oggi in Europa.

Come mai qui?

Siamo arrivati qui, per due vie. Da una parte, Chiese locali e movimenti di rinnovamento hanno richiamato a sé stessi la missione, in linea con la visione del Vaticano II che vede le Chiese locali come soggetto e protagoniste della missione cristiana nel mondo. Dall’altra, gli istituti missionari hanno perso per strada la capacità di radicarsi nelle Chiese locali, nei gruppi e movimenti, attratti da visioni e pratiche missionarie proprie, in linea con la sensibilità sociale e politica del momento, ma lontane dal cammino delle Chiese locali.

La ricezione del Vaticano II ha favorito, negli anni 70 del secolo scorso, un intercambio di spiritualità ed esperienze apostoliche tra i vari istituti missionari e tra questi e i nuovi movimenti ecclesiali (Focolari, Neocatecumenali, Rinnovamento nello Spirito, Comunione e Liberazione…). Come ha favorito un arricchimento vicendevole di personalità e testimonianze (Roger Schutz a Taizé, Abbé Pierre in Francia, Mani Tese in Italia…) che hanno ispirato l’immaginario dei cristiani di quegli anni.

La conoscenza della propria storia e l’approfondimento del proprio carisma ([24]) rendeva sicuri di questa esposizione ai carismi altrui. Ma c’era il rischio che l’esposizione al carisma degli altri facesse sbandare, piuttosto che arricchire. Per quanto riguarda noi, questo è successo con i Neocatecumenali e un gruppo significativo di comboniani che, negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, hanno abbandonato l’Istituto per seguire il Cammino Neocatecumenale.

Nel XIII Capitolo Generale dei missionari Comboniani, del 1985, si è presa la decisione di porre fine a questo scambio e frequentazione carismatica reciproca ([25]). Da una parte, si è salvata l’identità del carisma missionario comboniano ma, dall’altra, ci si è privati della ricchezza altrui e si è imboccato un percorso missionario più solitario. A dire il vero, la frequentazione spirituale è continuata (soprattutto con i Focolari e Comunione e Liberazione…), ma in forma individuale e “sotterranea”. Allora, ci sembrava di essere sufficientemente forti per andare avanti da soli, sicuri del nostro carisma e della sua attualità; oggi vediamo i limiti, se non del percorso fatto, della situazione in cui siamo venuti a trovarci.

Altri due elementi hanno contribuito a farci arrivare dove siamo, e vanno ricordati, anche se brevemente.

Primo, il senso di appartenenza formale all’Istituto e la crescente mancanza di una forte coscienza di missione condivisa. Per molti aspetti, è cresciuto un senso di appartenenza formale che tende a vedere l’Istituto come mezzo per realizzare una vocazione intesa come progetto personale. L’accento della vocazione missionaria si è spostato sulla persona, sui suoi doni e carismi personali, con la conseguente riduzione della coscienza di una missione comune, realizzata in fraternità e nella condivisione di vedute e mezzi.

Secondo, le ambiguità delle scelte fatte in vista di un rinnovato inserimento in Europa. Le opzioni fatte (parrocchie, impegni coi migranti, giustizia e pace…), nonostante il loro valore di presenza e di testimonianza, non si sono affermate come eclatanti forme di radicamento carismatico, capaci di ottenere riconoscimento ecclesiale e forza di attrazione carismatica. Da questa ricerca non è uscito, per esempio, un movimento missionario significativo nelle Chiese d’Europa, sostenuto dagli istituti missionari; ogni Istituto si è adattato da sé, con dinamiche di sopravvivenza immediata.

Tra noi comboniani, questa ricerca di forme nuove d’inserzione nelle Chiese locali ha portato all’assunzione di parrocchie: pensiamo a Castel Volturno a Napoli e a Santa Lucia, a Palermo; a Camarate e Apelação, a Lisbona; a Palas del Rey y Granada, in Spagna; a Roehampton Road, a Londra [queste iniziative e presenze, accumunate dal coinvolgimento coi migranti, si svolgono nel contesto di parrocchie, ad eccezione della presenza a Roma con l’ACSE ([26]). [Nella DSP (Deutschprachige provinz) i comboniani hanno avuto un’esperienza d’inserzione, nell’este della Germania, a Hahle, per 10 anni senza parrocchia e 3 con la parrocchia. L’esperienza si è conclusa e oggi la provincia ha la responsabilità di una parrocchia a Gratz; si è aperto, invece, il cammino ad un impegno dei comboniani nelle parrocchie come collaboratori rimunerati. Va ricordato che al presente è in atto nella Chiesa in Germania un profondo processo di ristrutturazione delle parrocchie]. In Italia, la CIMI ha cercato un’iniziativa di coinvolgimento con i migranti portata avanti da una comunità intercongregazionale ([27]), senza l’impegno della parrocchia, ma i comboniani/e non si sono coinvolti, fino a oggi]. L’assunzione di parrocchie, però, non sembra essersi rivelata come forma di inserzione che sprigiona il dinamismo evangelizzatore del carisma. Vista e accettata come unica forma d’inserzione possibile (soprattutto da parte di alcuni vescovi locali), non siamo stati capaci di operare una svolta e farla diventare emblematica forma d’inserzione che rivela la vitalità del carisma comboniano in una Chiesa locale d’Europa. La ricerca di questa svolta continua (nei raduni dei comboniani impegnati in parrocchie in Europa) ed è da incoraggiare, per ridare giustizia carismatica a questa forma d’inserzione.

Uno sguardo ai numeri, anche se questo non spiega come siamo arrivati qui, può dare un’idea più precisa della situazione. Nel 1996, i missionari comboniani hanno raggiunto il numero più alto, 1839; da allora hanno iniziato un percorso di diminuzione che li ha portati, alla fine del 2020, a 1510. I comboniani di appartenenza d’origine alle province europee, nel 1996 erano 1422 e avevamo 43 candidati in teologia; oggi sono 758, la metà, non abbiamo nessun candidato nella teologia e il noviziato europeo è sospeso. I comboniani di appartenenza giuridica alle province d’Europa (cioè, quelli che attualmente sono presenti nel continente) nel 1996 erano 461; alla fine del 2020 sono 412. Il numero delle loro presenze nel continente ha tenuto, ma la situazione si è capovolta, per quanto riguarda l’età: mentre nel 1996 la maggioranza era ancora su una fascia di età attiva, nel 2020 la maggioranza si trova nella fascia dai 70 ai 90 anni.

Un carisma nella storia ([28])

Una riflessione sul carisma comboniano nella storia ci rivela che il nostro è un carisma nato nella crisi ([29]) e che nelle difficoltà mostra la sua vitalità. Gli eventi dolorosi della nostra storia ci hanno fatto approdare a nuove configurazioni del carisma: la morte prematura del Fondatore ci ha portati alla trasformazione in congregazione religiosa; da questa trasformazione si è avuta la configurazione nelle due congregazioni; dall’espulsione massiva dal Sudan (1964) siamo arrivati all’apertura a una Africa più ampia e inclusiva di popoli e culture; dall’Africa, quale missione primigenia dell’Istituto, ci siamo aperti all’America e poi all’Asia; dalla riscoperta del Fondatore e dal rinnovamento conciliare siamo arrivati alla congregazione riunificata e abbiamo ritrovato unità e vitalità apostolica.

La brevità di questo articolo non ci permette di esplorare questo dinamismo della nostra storia per rafforzare la speranza di un nuovo approdo carismatico per l’Istituto in Europa. Ma, comunque, possiamo intuirlo, accogliendo la possibilità di una nuova configurazione del carisma, partendo proprio dall’Europa, dove l’Istituto è nato e dal contesto interculturale in cui si trova (con la crescita e il radicamento nelle Chiese locali d’Africa). Il lettore attento l’avrà già percepito nei riferimenti ai movimenti e alle nuove comunità. Richiamiamo, riguardo a questo futuribile e senza pretesa di rispondere, l’interrogativo di un autore, agli inizi del secolo XXI ([30]): “Può un istituto religioso evolvere in una maniera, senza trauma e lacerazioni, verso la forma ecclesiologica degli attuali movimenti ecclesiali?”.

Davanti alle difficoltà attuali, possiamo rinchiuderci nel modello di configurazione religiosa che conosciamo e che ci ha portati dove siamo… oppure, senza rinnegare la nostra consacrazione, aprirci ai dinamismi che caratterizzano le nuove forme di fraternità e ministerialità per la missione. Una tale riflessione ci porterebbe lontano, al di là delle possibilità di questa breve ricerca, ma rimane come cammino da esplorare e orizzonte da considerare.

Proposte per un nuovo percorso

A questo punto, però, sarà il caso, forse, di offrire, almeno per la discussione e tenendo presente il prossimo futuro, alcune proposte per un eventuale percorso che cerchi un nuovo radicamento dei comboniani in Europa e un rinnovamento del loro carisma e della loro fecondità apostolica.

Prima proposta: realizzare, in ogni provincia, un’assemblea-dibattito sul futuro dell’Istituto nella propria Chiesa locale e paese, aperta a chiunque voglia partecipare e senta il problema. L’assemblea è da farsi nel contesto della propria provincia, per mantenere la riflessione aderente alla vita della Chiesa e società locale, portandoci a riflettere sulla qualità della nostra testimonianza e dell’attuale inserzione e aprendoci alla ricerca di nuove forme di radicamento nella Chiesa e società locale. Un’eventuale assemblea, a livello delle province d’Europa, può avere luogo in seguito, per portare avanti la riflessione su una piattaforma comune, cioè, per individuare eventuali punti di contatto e differenze.

Seconda proposta: promuovere il senso dell’appartenenza, all’Istituto e alla Chiesa locale, dei membri dell’Istituto, cercando uno statuto di doppia appartenenza canonica al presbiterio diocesano, per i membri sacerdoti, in ogni Chiesa locale in cui siamo presenti. Questo favorirebbe la crescita della conoscenza reciproca e della comunione apostolica con la Chiesa locale, come pure il coinvolgimento dei missionari nelle iniziative di evangelizzazione della Chiesa locale, apportando la particolarità del proprio carisma.

Terza proposta: nella ricerca di una spiritualità e di una visione missionaria rinnovate, aprirsi ad una condivisione di esperienze carismatiche, oltre che con gli istituti religiosi a noi tradizionalmente collegati (come i Gesuiti…), con le nuove comunità e movimenti. Davanti alla secolarizzazione del continente, una messa in comune e un arricchimento reciproco delle spiritualità potrà solo arricchire la capacità di risposta di ogni carisma, come è successo nell’immediato post Concilio Vaticano II.

Questa ricerca di condivisione carismatica va fatta con spirito critico, nel senso che anche i movimenti si possono venire a trovare in una situazione di perdita di spinta carismatica, tale come gli istituti missionari. Alcuni studi allertano per quello che sta accadendo con il passare del tempo e la scomparsa dei fondatori carismatici, e il cambiamento delle condizioni socioculturali che li hanno visto nascere, tenendo conto che nuove comunità e movimenti tendono a non accompagnare l’evoluzione culturale. Questa situazione può compromettere la vitalità apostolica, di istituti e movimenti, e per questo, alcuni parlano della necessità di una conversione (di “rifondazione”) periodica, cioè nei momenti di forte mutamento socioculturale ([31]).

Quarta proposta: studiare la creazione, in ogni provincia, di una comunità di accoglienza (sul modello dei centri di spiritualità e iniziazione cristiana dei movimenti, Focolari, Taizé, Comunità dell’Emmanuele, Schoenstatt…) che possa accogliere, per periodi di durata variabile, giovani e adulti interessati alla conoscenza e all’iniziazione al servizio missionario nella Chiesa e al carisma missionario comboniano. Questo implica una riflessione approfondita sui possibili percorsi d’iniziazione da offrire: dall’iniziazione alla vita cristiana (lectio divina, preghiera personale e liturgica, vita sacramentale e impegno cristiano), all’iniziazione al servizio missionario nella Chiesa oggi (nelle sue varie dimensioni) e al carisma missionario comboniano (nelle sue varie forme). Preparare persone capaci di offrire questi percorsi, e cercare persone, nell’ambito delle Chiese locali, che aiutino a sostenere una tale iniziativa (sinergia con altri istituti missionari).

Quinta proposta: costruire un percorso formativo rinnovato, impostato su una linea mistagogica ([32]) di iniziazione alla vita cristiana, alla vita fraterna per la missione, alla missione condivisa e alle varie dimensioni della missione oggi, come forma di iniziazione al carisma comboniano e alla missione delle persone e dei giovani attratti dal nostro carisma. In questa visione, promotori vocazionali e formatori si assumono come iniziatori di altri/e alla vita cristiana e all’impegno missionario nella Chiesa e nell’Istituto; e le comunità missionarie come fraternità che vivono, testimoniano e annunciano il Vangelo, secondo il loro carisma e tradizione spirituale, e in comunione con le chiese del loro tempo e luogo.

Sesta proposta: costituire un gruppo di studio, a livello degli Istituti della famiglia comboniana, per interessare i membri alla questione del futuro in Europa e del nostro radicamento nelle Chiese locali europee. Facciamo questa proposta con un sentimento di incertezza sulla sua opportunità e viabilità, pensando all’esperienza e al percorso fatto dal Gert (Gruppo Europeo di Riflessione Teologica). Il Gert ha proceduto su una via teologica, teorica e ideologica, e si è arenato sulla questione dell’evangelizzazione in Europa. Nonostante il valore della riflessione promossa, non è riuscito a interessare i membri delle nostre province europee a percorsi nuovi d’inserimento nelle Chiese locali. Neanche l’interessante iniziativa dei Simposi di Limone ([33]) è approdata a qualcosa di nuovo nell’ambito del radicamento carismatico dei nostri istituti nelle Chiese d’Europa, oltre all’accompagnamento di riflessione sulle esperienze in corso.

Altri elementi da includere

Cercando di avviare la nostra riflessione verso una conclusione, vediamo che ci sono ancora altri elementi da includere, anche solo menzionandoli.

Primo, la questione della spiritualità missionaria e la qualità della testimonianza, personale e comunitaria, che i membri degli istituti missionari danno nelle Chiese d’Europa. Alcuni di noi pensano che la causa del presente esaurimento carismatico e apostolico sia da ricercare nella mancanza di spiritualità e nella debolezza della testimonianza.

Conveniamo che, se è difficile verificare e misurare questi due aspetti della nostra vita, è possibile, comunque, affermare che queste due dimensioni stanno alla radice di ogni fecondità apostolica e di ogni radicamento ecclesiale, come d’altronde dimostra la storia degli istituti missionari (aspetto sul quale ci siamo già soffermati).

Daniele Comboni cercava, per i missionari e le missionarie dei suoi Istituti, una spiritualità elevata, robusta, all’altezza delle difficoltà della missione africana; l’ha trovata nella contemplazione del Cuore trafitto di Cristo e nella mistica del cenacolo di apostoli e l’ha proposta ai suoi missionari/e come fonte inesauribile di fecondità personale e apostolica. Gli istituti comboniani sono nati da questo filone di spiritualità dell’Ottocento e, per decenni, fino alla prima parte del Novecento, hanno alimentato a questo torrente spirituale la loro vita fraterna e apostolica.

Poi, c’è stato un allontanamento crescente da questa spiritualità, che non possiamo spiegare qui, ma solo indicare come fatto. Sotto questo aspetto, abbiamo fatto un po’ come tutta la Chiesa, che dopo il Concilio si è allontanata da questa spiritualità e sensibilità religiosa. Uno spostamento naturale, alla luce delle nuove sensibilità della seconda metà del Novecento ma comunque sorprendente, soprattutto trattandosi di una spiritualità molto diffusa, che ha segnato in modo fecondo la vita e la missione della Chiesa per oltre un secolo.

In questo senso, con molti nella Chiesa, dobbiamo domandarci quale sia il futuro della spiritualità del Sacro Cuore ([34]). E domandarci anche se il nostro futuro e il nostro radicamento nelle Chiese locali d’Europa non dipendano proprio dalla nostra spiritualità – del Cuore trafitto – dovutamente integrata nelle sensibilità odierne. Forse l’abbiamo scartata troppo in fretta, considerandola inadeguata a costituire l’humus spirituale di una nuova stagione carismatica. Ricordiamo che in Europa abbiamo almeno una situazione in cui la spiritualità del Cuore di Cristo si è rivelata feconda apostolicamente: ci riferiamo al movimento e alla Communauté de l’Emmanuel, nata in Francia, che ha trovato e alimenta la sua fecondità carismatica e apostolica precisamente a Paray-Le-Monial.

Il nostro Istituto ha appena preso l’iniziativa di proporre la Croce comboniana, come richiamo alla nostra spiritualità; occorrerà continuare a cercare in questa direzione l’integrazione tra la spiritualità che ci ha fatto nascere e quelle che viviamo oggi nella Chiesa (supposto che ne viviamo una); a cercare, comunque, l’humus spirituale senza il quale non può esserci radicamento carismatico e apostolico fecondo né entusiasmo per il futuro.

Il secondo elemento da considerare è l’attuale contesto interculturale degli istituti missionari, nel caso dei comboniani assai evidente e accentuato dal passaggio del secolo. Oggi l’Istituto è multiculturale, si è aperto a una varietà di anime (prima latino-americana, adesso africana e asiatica) che l’hanno molto arricchito. Il radicamento dell’Istituto comboniano nelle Chiese d’Europa non può prescindere da questo contesto né essere pensato senza questo riferimento che porta a interrogarsi sul ruolo e sul contributo dei comboniani non europei alla vita dell’Istituto nel vecchio continente. E a chiedersi come preparare i comboniani di altri continenti all’evangelizzazione in Europa, ammettendo che non basta più destinarli per mantenere nelle circoscrizioni europee i modelli di presenza ereditati dal passato [come non serve più fare quello che hanno fatto i vescovi europei per assicurare presbiteri alle comunità del continente, cioè, ricorrere al clero di altre Chiese e continenti, per mantenere in vita un modello di ministero ordinato e di presenza di Chiesa che, secondo gli osservatori, andrebbe rivisto]. L’apertura, ormai in corso, delle province europee all’interculturalità va accompagnata dalla riflessione sull’evangelizzazione e sul radicamento degli istituti missionari nelle Chiese d’Europa, in modo da individuare criteri e profili per la destinazione a questo continente (ed evitare le difficoltà e i fallimenti verificatisi in alcuni tentativi fatti nel passato recente).

Conclusione

Abbiamo cercato, in queste pagine, di tracciare un percorso breve (… a questo punto, già un po’ lungo!), comprensibile e aperto, che possa essere di aiuto per un’eventuale discussione sulla questione proposta: il radicamento, o il mancato radicamento, degli istituti missionari nelle Chiese locali d’Europa (in un momento propizio alla riflessione, come è la preparazione del 19º capitolo generale). Rileggendo il testo, mi accorgo che lo si potrebbe accusare di essere generico, unilaterale e/o eccessivamente negativo, e certamente anche limitato riguardo alla situazione degli altri istituti missionari, sui quali non abbiamo ancora raccolto sufficienti dati.

C’è però, in queste righe, un elemento di provocazione teso a favorire la discussione. Non ignoriamo le cose belle della nostra storia in Europa e di certo non si vuole “spegnere la fiamma smorta” ([35]). Vogliamo, invece, ravvivarla, soffiare sul fuoco del carisma, nascosto e sepolto sotto le ceneri della nostra storia recente e dalle nevicate che si abbattono sul cristianesimo europeo, tra crisi e sbandamenti di vario genere.

Nella celebrazione della festività del nostro Santo Fondatore qualcuno ci ha ricordato che “la cosa più necessaria nella vita della Chiesa è tenere vivo il fuoco, non adorare le ceneri… È bello sentire la paternità di un cristiano come Daniele Comboni, che aveva il cuore ardente e non era, in nessun modo, prigioniero della cenere, che ha saputo accendere profeticamente il fuoco del Vangelo attraversando confini, zone di conforto, incomprensioni, visioni limitanti, concretizzando una visione missionaria innovativa. Cosa significa oggi celebrare la sua memoria? Come ci collochiamo oggi nella strada da lui inaugurata? La tentazione di adorare le ceneri, di percorrere solo le strade già segnate o di aprire solo le porte già aperte è una tentazione di tutti i tempi, più insidiosa di quanto pensiamo. (…) Allora ci domandiamo: cos’è rimanere nella fedeltà? Sicuramente è la capacità di credere nella forza del fuoco, soprattutto quando questa sembra impotente e fragile per vincere... Le ceneri tendono solo a immobilizzarci in un’immagine rassegnata e conformista. Al contrario, lo Spirito, lo Spirito che discende su di noi, è dinamismo, è una chiamata ad andare oltre, è una manifestazione concreta dell’amore che Dio riserva ai dimenticati, a coloro che così spesso vengono scartati. Lo Spirito scende su di noi per farci diventare coraggiosi frequentatori del futuro” ([36]).

Manuel Augusto Lopes Ferreira, mccj

 

[1] Daniele Comboni, Scritti 6085, 6337, 6956, 7225.

[2] Annali del Buon Pastore 27, gennaio 1882.

[3] La situazione nelle altre province è la seguente. Polonia: i comboniani polacchi sono 7, con un’età media di 41,85 anni. I comboniani presenti in Portogallo sono 45, con un’età media di 68,6, così distribuiti: 8 sotto i 50 anni, 6 dai 50 ai 59, 10 dai 60 ai 69; 11 dai 70 ai 79, 8 dagli 80 agli 89, 2 sopra i 90. Nella provincia di lingua tedesca (Germania, Austria, Sud Tirolo) ci sono 45 comboniani con una media di età di 74,75, così distribuiti: 20 sopra gli 80 anni, 14 dai 70 agli 80, 6 dai 60 ai 70, 3 dai 50 ai 60, 2 sotto i 50 anni. Nella provincia inglese (London Province) i comboniani sono 22, con una media di età di 70 anni; i 12 missionari provenienti da altre province, hanno una media di 65 anni di età, mentre i 10 membri originari della LP hanno una media di 75 anni d’età. I comboniani nella provincia di Spagna sono 43, con una media di 66,67 anni d’età, così distribuiti: 5 con più di 80 anni; 17 tra i 70 e i 79 anni; 10 tra i 60 e i 69; 7, tra i 50 e i 59; 4 sotto i 50 anni. Per quanto riguarda la provincia italiana va ricordato che i comboniani italiani, 511 in totale alla data in cui scriviamo, dei quali 241 a lavorare in altre province, hanno media di età più giovani (79 sono tra i 50 e 70 anni) e sono una speranza per la provincia all’ora della rotazione, se non ritornano anziani.

[4] Le espressioni “modernità solida” e “modernità liquida” sono di Zigmunt Baumann (1925-2017).

[5] Fratel Enzo Biemmi, L’Evangelizzazione alla prova della secolarizzazione, Roma, conferenza del 19 ottobre 2020.

[6] Giovanni Paolo II, omelia a Mogila, il 9 giugno 1979.

[7] Istituito da Benedetto XVI il 21 settembre 2010.

[8] Creato da Papa Francesco, il 1º gennaio del 2017, unificando vari consigli e uffici pontifici già esistenti.

[9] Nigrizia, Dossier Cantiere Casa Comune, ottobre 2020, pp. 41-55.

[10] Giovanni Zavatta, Casa Comune, il cantiere dei comboniani per una nuova missione, in Osservatore Roma, 28 ottobre 2020. E il sito Comboni.org, post del 29 ottobre 2020. Nigrizia, pp. 43 e 46.

[11] Una terna di documenti dà corpo a questa visione del Papa: Evangelii Gaudium, del 24 novembre 2013; Laudato Si’, del 24 maggio 2015; Fratelli Tutti, del 3 ottobre 2020.

[12] Per approfondire “quello che non è e quello che è” la missione, secondo Francesco, vedere: Messaggio del Papa alle Pontificie Opere Missionarie, 21 maggio 2020; Senza di Lui non possiamo far nulla, essere missionari oggi nel mondo, testo di un’intervista del giornalista Gianni Valente, pubblicata come volume da Libreria Editrice Vaticana e Editrice San Paolo, Roma 2019.

[13] Massimo Franco, L’Enigma Bergoglio, la parabola di un papato, Solferino, Milano 2020.

[14] Fratel Enzo Biemmi, La Missione alla prova di due sfide: la secolarizzazione e la pandemia, Roma 19 ottobre 2020.

[15] Manuel João Pereira Correia, corrispondenza particolare, Castel D’Azzano 2020.

[16] Papa Francesco, Fratelli Tutti, nº 226, Roma 2020.

[17] Vedere, per esempio, Manuale di Storia della Chiesa, Vol. 4, Epoca Contemporanea, p. 63. E Daniele Comboni e la Rigenerazione dell’Africa, di Fidel González Fernández, Roma, 2003.

[18] Papa Francesco, Evangelii Gaudium, numeri 20-24.

[19] Christoph Theobald, Il Vangelo della nuova fratellanza, intervista concessa a Lorenzo Fazzini, Avvenire del 27 aprile 2016.

[20] L’Opera della Propagazione delle Fede ha, alla sua origine, una donna: Paulina Jericot (1799-1862). Daniele Comboni avvia un istituto missionario femminile, le Pie Madri della Nigrizia (1872), e porta le donne missionarie in Africa centrale.

[21] Avery Dules, Modelli di Chiesa, pagina 50-51, Edizioni Messagero, Padova, 2005. L’edizione originale Models of the Church è del 1974.

[22] Avery Dules, Operata cittata, pagina 73 e 89.

[23] A cura di Fernando Zolli e Daniele Moschetti, Noi siamo missione: Testimoni di ministerialità sociale nella Famiglia Comboniana, edito dalla Commissione Ministerialità della Famiglia Comboniana, Roma, giugno 2020.

[24] I missionari comboniani hanno riorganizzato, in questi anni, l’Archivio Generale e lo Studium Combonianum per ispirare il loro rinnovamento alla vicenda missionaria del Fondatore e alla storia dell’Istituto.

[25] Fidel González, I Capitoli Generali dell’Istituto Missionario Comboniano, Roma 1998, p. 425.

[26] Associazione Comboniana Servizio Emigranti e Profughi, iniziata da P. Renato Bresciani, già nel 1964. Il Capitolo Generale del 1969, nel quale era presente P. Renato, prende la decisione di un impegno per i migranti e la data del 1969 resta come data ufficiale della fondazione dell’ACSE.

[27] Comunità intercongregazionale di Modica, organizzata dalla Conferenza degli Istituti Missionari Italiani, in collaborazione con la Caritas, nella diocesi di Noto, in Sicilia, come risposta all’emergenza migranti. L’idea, nata in seguito al Convegno CIMI 2013, a Trevi, si è concretizzata il 17 marzo del 2016, con la comunità formata da un missionario d’Africa (Padri Bianchi), da una missionaria della Consolata e da una missionaria Saveriana.

[28] J.J.V. da Cruz, Tra Fedeltà e alienazione: il Carisma Comboniano nella Storia. In Archivio Comboniano 46, 2008, p. 111 e seguenti.

[29] David Glenday, Dialogando con San Daniele in tempo di crisi, Roma, 7 ottobre 2020.

[30] Antonio Maria Sicari, Gli Antichi Carismi nella Chiesa. Per una Nuova collocazione, Jaca Book, Milano 2002, p. 7.

[31] Manuel João Pereira Correia, corrispondenza particolare, Castel D’Azzano, 2020.

[32] Enzo Biemmi, Una nuova spiritualità: rabdomanti e mistagoghi, Roma, ottobre 2020. Il termine di chiesa rabdomante (come comunità capace di intercettare e dare risposta alla sete spirituale del tempo) è stato lanciato ultimamente da Christoph Theobald nel volumetto Fraternità, pubblicato da Edizioni Qqajon, della Comunità di Bose, nel 2016.

[33] Preceduti da un simposio esplorativo, realizzato nel luglio del 2006, i Simposi di Limone sono iniziati nel 2007, 9-12 luglio. Il Gert ha raccolto l’esperienza dei simposi nei Quaderni di Limone. Particolarmente interessanti per la problematica di cui ci stiamo occupando sono: il n. 1, Comboni e l’Europa, del luglio 2007; il n. 5, La Missione Comboniana nelle Chiese d’Europa, quale struttura di Governo?; e il n. 6, La Missione Comboniana in Europa, Quali ministeri?

[34] Charles André Bernard, La Spiritualità del Cuore di Cristo, Edizioni San Paolo, Milano 2015, p. 134.

[35] Isaia 42, 3 e Matteo 12, 20.

[36] Cardinale José Tolentino de Mendonça, omelia nella memoria di san Daniele Comboni, Roma 10 ottobre 2020.