Oggi il Vangelo è un grido di vittoria, contro ogni tipo di scoraggiamento che possa nascere all'interno della Chiesa o di fronte ad ogni sfida e persecuzione che le possa venire dall'esterno: il Regno di Dio ha un suo sicuro successo finale nonostante l'apparente piccolezza di oggi; e questo per la potenza intrinseca di vitalità divina che lo anima.

Quella forza di crescita che è deposta in noi

Ez 17,22-24; Salmo 91; 2Cor 5,6-10; Mc 4, 26-34

Oggi il Vangelo è un grido di vittoria, contro ogni tipo di scoraggiamento che possa nascere all'interno della Chiesa o di fronte ad ogni sfida e persecuzione che le possa venire dall'esterno: il Regno di Dio ha un suo sicuro successo finale nonostante l'apparente piccolezza di oggi; e questo per la potenza intrinseca di vitalità divina che lo anima! Riflettiamo oggi i dinamismi interni del Regno di Dio, il mistero cioè del Vangelo e della Chiesa, opera divina nella storia dentro il vestito fragile della collaborazione e mediazione umana. Giungiamo al cuore del Cristianesimo, per scoprirne tutta la sorprendente vitalità e l'incrollabile speranza necessaria.

Il Regno di Dio è come un uomo che getta il seme sulla terra: Il contadino attento si stupisce della forza prorompente del suo chicco di grano, ma al tempo stesso si sente sicuro perché alla fine ne attende il frutto della mietitura. È stato lui a gettare il seme, ma questo poi ha una sua propria fecondità e una sua riuscita che va ben al di là dell'opera da lui prestata. E con fiducia ne accetta pure i ritmi di crescita: Sa di essere di fronte ad un'opera più grande, di cui si sente sostanzialmente solo fruitore. Ecco la prima verità del Regno di Dio: è opera sua, e cresce per la potenza divina che possiede, non per l'opera dell'uomo che vi collabora. È un lievito potente dall'efficacia sicura.

A noi appunto è richiesto di credere, cioè di stupirci dell'iniziativa di Dio, di accoglierla con cuore riconoscente e sincero, di aprirci alla collaborazione con docilità di chi si lascia lavorare da un educatore sapiente ed efficace che Gesù ha chiamato “Spirito Santo” Si tratta di credere all'efficacia in sé della Parola che non ha bisogno di puntelli umani per essere accolta e gustata da un cuore che sinceramente cerca Dio. La chiesa non è chiamata a conquistare, ma ad annunciare; non deve convincere nessuno, ma solo mettere in contatto con Cristo. Il resto...scatta “automaticamente”, come il seme che fruttifica da sé su un buon terreno! Sta qui tutta la forza e la certezza del vero missionario di Gesù.

Proprio perché opera di Dio, il Regno ha un domani di sicura riuscita, nonostante l'apparenza piccola e precaria di oggi. Se sa crescere senza l'efficienza umana, sa anche riuscire alla fine vincente su tutte le potenze mondane. Cresce, tuttavia, non secondo criteri mondani. Gesù ha espresso in forma drammatica la legge di sviluppo del suo Regno quando fece la grande scelta delle tentazioni del deserto: rifiutò il successo, la pubblicità, l'efficienza e la grandezza del potere e del prestigio, per accettare la strada difficile e rischiosa della croce, cioè della pura fede in Dio. Ed è questo il senso profondo della fragilità della Chiesa e del Vangelo nella storia: deve esprimere-personalmente e comunitariamente l'affidarsi all'agire di Dio, non l'efficienza delle possibilità umane quando tratta della salvezza, perché questa salvezza alla fine è dono non conquista: Naturalmente è una legge che sconcerta chi è abituato a pesare le cose, a numeri, a consenso di massa...! Del resto, il Regno ha la sua sede propria nel cuore e nella libertà dell'uomo; ed è appunto per essere discreto, non invadente, per rispettare i suoi ritmi di assenso consapevole e responsabile che l'opera di Dio prende la strada d'una pedagogia lunga e paziente, nascosta e faticosa. L’onnipotenza di Dio s’è adattata, con materna tenerezza ai piccoli e incerti passi di bene che l'uomo è chiamato a fare, perché, alla fine il Regno di Dio è il Regno degli uomini che hanno liberamente accettato di appartenervi!

Vite sotto il palcoscenico

(Marco 4, 26-34)

Ogni volta che mi capita di vedere la campagna con i suoi contadini o il mare con i suoi pescatori, ma anche le fabbriche piene di operai, le metropolitane affollate, sento forte un nuovo slancio verso la vita. Guardo e basta. Alcune volte prego. Sperimento sentimenti ed emozioni in modo intenso e discreto. Assaporo con tenerezza la vita della gente comune, vite dietro le quinte, sotto il palcoscenico, senza nessuna vetrina. Sono vite affascinanti, faticose. Hanno bisogno dell’albero del vangelo per ristorarsi alla sua ombra; hanno bisogno di una Chiesa che annuncia loro la Parola così come possono intendere, senza chiedere certificati di idoneità. Quando ci accorgiamo che, come testimoni del regno, non siamo accoglienti e non diamo ristoro, dobbiamo avere il coraggio di chiederci che cosa abbiamo seminato e che albero stiamo facendo crescere.

È dal seme della spiritualità e dell’interiorità che germogliano l’amore e la carità. Senza i piccoli semi della Parola di Dio, si fa fatica, non solo nel lavoro di ogni giorno, nel matrimonio e come genitori, ma anche nella vita consacrata. Si rischia di vivere una vocazione spesso senza più radici autentiche, più facilmente preda della ricerca del potere, dell’egoismo, della mondanità e del clericalismo, vivendo un laicato, oppure un celibato e un ministero sacerdotale non come dono della Grazia, ma come un vincolo senza felicità, senza amore e senza gioia.

Che il regno di Dio debba vivere in questo mondo, in prima linea, forte, potente, rilevante, ben inserito nei palazzi che contano, è una bestemmia di costantiniana memoria, una tentazione del demonio. Il Regno di Dio è invece un po’ di lievito, nella pasta, un piccolo seme, un solo bicchiere di acqua fresca dato a chi ha sete.

Non dobbiamo aver paura della nostra debolezza, e a volte anche impotenza, perché nel momento in cui facciamo esperienza di tutto questo, si manifesta la potenza di Dio che non ci lascia soli, e fa germogliare e crescere il seme.

Quando potremo gustare frutti maturi? La risposta più semplice e più vera è, ogni giorno. Ci vengono offerti in tanti modi diversi, dalle persone che incontriamo; per gustarli però bisogna fare un lavoro di rinuncia, eliminare tanti preconcetti, buttare via tanta zavorra, per restare quasi a mani vuote, cioè libere per accogliere il dono.

Gesù ce lo ha detto chiaramente: «Non portate borsa né sacca né sandali» (Lc 10, 4). Non lasciamoci mai condizionare dai mezzi che abbiamo in mano, non diventiamo gruppo di pressione, o gruppo di potere; andiamo prima di tutto con la forza della fede incontro al dolore di ogni uomo che attende una Parola di Speranza.

Certo non dobbiamo essere ingenui; siamo inviati come un agnello in mezzo ai lupi; è necessaria una profonda spiritualità per non essere sedotti dai lupi, che ti invitano nel loro regno, ti presentano ai loro amici, ti offrono i loro denari, ti espongono alle loro televisioni e così ti fanno prigioniero.

Ringraziamo il Signore per tutti gli annunciatori del Regno che nel corso della storia sono andati nel mondo, poveri, liberi da ogni condizionamento, pagando non poche volte un altissimo prezzo, ma già semi fecondi del vangelo.
[Francesco Pesce – L’Osservatore Romano]

Mc 4, 26-34
Il seme germoglia e cresce da solo
Commentario a Mc 4, 26-34

Finito il tempo di Pasqua (Quaresima, Pasqua, Pentecoste) e le grandi solennità della Santissima Trinità e del Corpus Domini, ritorniamo adesso al tempo ordinario, in cui seguiamo la lettura continuata di uno dei vangeli, in questo anno, quello di Marco. Siamo ormai alla undicesima domenica di questo tempo ordinario e, anche se nella liturgia si legge appena un piccolo brando del capitolo quarto, io v’invito a leggere tutto il capitolo, per cos’ cogliere l’dea di quello che l’evangelista ci vuole trasmettere.  Da mia parte, dopo aver fatto questa lettura, condivido con voi due riflessioni:

1. Una folla “lungo la riva” del lago Galilea
Come sappiamo, Gesù stabilì il suo centro d’azione per un po’ di tempo a Cafarnao, una piccola città costiera del lago di Galilea. Lì la sua presenza causò molto entusiasmo e la gente si stringeva per avvicinarsi a lui e ascoltarlo, poiché la sua parola era di una chiarezza, semplicità a rilevanza tali che “riscaldava il cuore”. Gesù, contadino tra contadini, pescatore tra pescatori, operaio tra operai, si sentiva al suo agio con quella gente umile, sottomessa a grandi sofferenze e difficoltà, affamate di verità e di senso, che non trovavano risposte in tradizioni religiose rutinarie, sclerotizzate, che dicevano niente alla loro vita concreta. Gesù, a partire da una vicinanza affettiva alle loro preoccupazioni e lotte e dalla esperienza contemplativa del deserto, entrava in comunione con loro e si “spandeva” in narrazioni paraboliche, che spiegavano i misteri del Regno di Dio in un linguaggio legato al lavoro de campo, del mare e della vita quotidiana.

Se me permettete un’esperienza personale, ricordo quando ho cominciato a predicare nel mio paese natale nella lingua locale. A quel tempo in chiesa si parlava la lingua ufficiale, la lingua delle autorità e della burocrazia statale. Alcune persone, con le lacrime agli occhi, mi dicevano: “Mi sembrava di ascoltare mio nonno conversare nella cucina”. Parlare la lingua del popolo in chiesa sembrava una rivoluzione teologica, perché a quel tempo succedeva una cosa strana: la gente s’avvicinava alla chiesa parlando nella sua lingua delle cose della vita, ma appena passavano la porta della chiesa, si cambiava dizionario e struttura mentale: il prete parlava in una lingua formalizzata e rigida, lontana dalla vita, che era rimasta fuori della porta… Invece, la verità del Vangelo ha da fare più con la vita che con i libri. Penso che tutti noi che abbiamo qualche responsabilità nella trasmissione del Vangelo (genitori, professori, suore, catechisti, preti…) dobbiamo contemplare bene questo modello del Maestro che parla in parabole, che esprime la grande Parola di Dio nelle parole e categorie della vita ordinaria della gente. E bisogna ricordare che la vita spirituale non consiste in usare parole raffinate e molto precise, ma in una vira di fede nelle faccende ordinarie della vita.

2. Il seme cresce “spontaneamente”
Scusatemi quest’ovvietà, ma mi sembra che qui risieda la chiave per capire il messaggio di Gesù oggi: “Il seme germoglia e cresce…il terreno produce spontaneamente prima lo stello, poi la spiga. Poi il chicco”.

Gesù ci dice che il Regno di Dio è come un seme che Dio semina nel nostro cuore, nella nostra comunità, nella nostra famiglia… a cresce da solo, nella misura in cui viene accolto dalla terra. Per il seme dare germogliare, crescere e dare frutto, non serve spingere lo stelo in alto, come se si volesse farlo crescere dal di fuori. Il seme ha la sua energia interiore e deve crescere per la fecondità che Dio a seminato nel suo interiore.

Non vi sembra che alcuni genitori sembrino a volte far crescere i suoi figli forzatamente, come chi vuole spingere la spiga a dare il grano o dare un frutto che non si corrisponde con la sua vocazione personale? Non vi pare che qualche volta, nella vita di famiglia o di comunità, vogliamo forzare le persone a diventare quello che non sono, secondo i doni che Dio ha dato loro? Non ci succede a noi stessi che vogliamo apparire come infallibili o perfetti in uno sforzo contro natura che ci fa diventare amareggiati, ipercritici e negativi?

Mi sembra che, con la parabola del seme che cresce da solo, Gesù ci invita, non certo a essere indifferenti, passivi o pigri, ma serene e fiduciosi; fiduciosi nel seme di Verità e di Amore che Dio ha seminato in noi e attorno a noi. Questa verità e Amore crescono e danno frutti di buone opere, anche se noi non sempre sappiamo come. Il nostro lavoro consiste in coltivare la terra e liberarla da spine e sporchizie che possano impedire il seme germogliare e crescere.
P. Antonio Villarino
Bogotà