La solennità di tutti i santi celebra quei numerosi santi, non compresi nel calendario ufficiale della Chiesa. Siamo quindi invitati a far festa con questa moltitudine di uomini, donne, bambini, adulti e anziani, che vivono nella gioia e nella gloria del paradiso. In loro l’evento della salvezza è divenuto storia personale e il mistero pasquale si è reso quotidianità. Facendo memoria di loro, viene anzitutto celebrato l’amore misericordioso di Dio che li accoglie; e poi, è una festa di speranza per noi nella Chiesa pellegrinante e sofferente. (...)

La via della santità non conosce confini

Ap 7,2-4.9-14; Salmo 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12

La solennità di tutti i santi celebra quei numerosi santi, non compresi nel calendario ufficiale della Chiesa. Siamo quindi invitati a far festa con questa moltitudine di uomini, donne, bambini, adulti e anziani, che vivono nella gioia e nella gloria del paradiso. In loro l’evento della salvezza è divenuto storia personale e il mistero pasquale si è reso quotidianità. Facendo memoria di loro, viene anzitutto celebrato l’amore misericordioso di Dio che li accoglie; e poi, è una festa di speranza per noi nella Chiesa pellegrinante e sofferente.

I santi sono stati in mezzo a noi, si sono dedicati alle nostre stesse occupazioni ordinarie, e hanno avuto i nostri stessi problemi. Solo che hanno privilegiato la fede, il timore e l’amore di Dio, la carità e la preghiera. Essi hanno risposto all’amore di Dio facendosi imitatori di Cristo. La solennità di tutti i santi appare allora come una sfida, perché la santità è un affare che ci riguarda da vicino. Purtroppo le nostre strategie di base sono spesso la mediocrità, l’indifferenza e l’allontanamento. Immaginiamo la santità per gli altri, per alcuni privilegiati o predestinati; l’osserviamo da lontano come inarrivabile, inavvicinabile, in una dimensione che non è quasi del nostro mondo.

La solennità di tutti i santi ci invita a fare l’operazione inversa, di avvicinare la santità come vocazione e condizione normale del cristiano, a nostra portata. La santità è quindi l’affare di tutti e fa parte delle nostre possibilità. Queste affermazioni danno ragione a quell’autore che diceva che: “C’è una sola tristezza nel mondo, quella di non essere santi”. Ed un altro lodò il Signore perché aveva reso la santità così semplice, gioconda e bella. Infatti, il vangelo di questa solennità ci presenta una serie di beatitudini in quel senso, come percorso ideale per i chiamati al regno di Dio. Questo brano evangelico presenta l’orizzonte in cui si dispiega la regalità di Dio, fonte e garanzia di felicità per tutti noi.

A questo annuncio gioioso fa eco il brano della prima lettera di Giovanni, nella seconda lettura, che risale alla fonte di quel processo di assimilazione tra Dio e i suoi figli che si concluderà con una piena comunione finale, e noi lo vedremo così come egli è.

Lo stesso tema appare nella prima lettura con un linguaggio apocalittico. L’identificazione dei servi di Dio contrassegnati dal suo sigillo è data mediante una simbologia numerica:”144 mila da ogni tribù d’Israele” e “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua”. Il loro statuto di salvati viene espresso con la scena simbolica della liturgia celeste attorno al trono di Dio e dell’Agnello. Indossano vesti candide, segno di festa, con le palme in mano, simbolo della vittoria che hanno riportato sul male e sulla morte.

L’espressione “Beati”, che appare otto volte nel vangelo, è fin dall’Antico Testamento, una formula di congratulazioni, di felicitazione. Ma è anche l’annuncio di una gioia a venire. Le qualità celebrate qui non sembrano troppo diverse, e potrebbero essere ricondotte in due beatitudini: (il primo) “Beati i poveri in spirito” e (il secondo) “Beati i perseguitati per causa della giustizia”. Così gli altri sarebbero rispettivamente solo il loro sviluppo.

“Beati i poveri in spirito” (espressione usata soltanto da Matteo) riguarderebbe allora i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace e quelli che hanno fame e sete di giustizia. L’espressione di Matteo “poveri in spirito” sarebbe allora comprensiva di tutte queste categorie o attitudini spirituali. L’ottava o meglio la seconda importante beatitudine concerne “i perseguitati per causa della giustizia”. La giustizia è il termine evangelico più generico per designare la virtù, il bene, la religione.

La ricompensa della prima beatitudine, “di essi è il regno dei cieli”, riappare solo all’ottava (seconda importante beatitudine), nello stesso tempo indicativo, formando così un’inclusione poetica e una distinzione netta con le altre beatitudini intermediarie che sono nel futuro. L’apparente nona beatitudine è uno sviluppo dell’”ottava” per un’applicazione diretta sugli apostoli e auditori presenti. A chi segue fedelmente Gesù sulla strada delle beatitudini, Gesù assicura felicità piena e duratura.

Subito dopo la solennità di Tutti i santi, si celebra la Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Anche quando il 2 novembre è domenica, si la celebra. Tutte le letture, le orazioni e i canti delle tre messe della commemorazione sono caratterizzati dalla fede nel mistero pasquale e dall’invocazione che i defunti ne diventino partecipi. Quindi, commemoriamo i nostri fratelli defunti, non con la nostalgia di chi li pensa perduti per sempre, ma con la speranza di chi li crede viventi in Cristo e destinati alla risurrezione gloriosa con Lui. Dice il Signore: “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno” (Gv11, 25s).
Don Joseph Ndoum

La forza
dei poteri ricevuti o restituiti

Solennità di Tutti i Santi (Matteo 5, 1-12)

Non sono semplici promesse. Nemmeno netti comandi. Insomma, le beatitudini cosa sono? Più che doveri o premi, sono congratulazioni rivolte a chi detiene una forza palese, un’evidente capacità. In breve: non una lista di doveri, ma l’ammirazione suscitata da poteri. Nelle beatitudini, innanzitutto, Cristo non dice: “Sii povero!”, ma: “Complimenti a te che puoi essere povero. Congratulazioni a te che riesci ad essere mite”.

Si tratta della compiaciuta constatazione di una potenza, di un’abilità efficace, ormai a disposizione dei fratelli e delle sorelle di Cristo. Tutto possono, grazie a chi dà loro la forza. Possono perfino vivere da poveri, riescono addirittura a vivere da miti cioè disarmati; hanno l’energia per sostenere l’afflizione e il pianto; sono così possenti da resistere nella fame e nella sete di giustizia; talmente vitali da permettersi il lusso di un cuore puro, capace di guardare ogni cosa con giustizia; così potenti da non eliminare i nemici, cercando la pace; hanno la possanza di vivere da perseguitati, fino al martirio sanguinoso, o a quello causato dalle estenuanti pazienze d’ogni giorno, che fanno morire come un martire a gloria di Dio, ma senza la propria gloria.

Le beatitudini ricordano che dovremmo imparare a verificare la qualità della nostra fede non solo in base ai doveri onorati, ma anche in forza dei poteri ricevuti o restituiti. Se l’obbedienza non restituisce le potenze tipiche dei beati, a chi si sta obbedendo? Se la fede non dà forza (soprattutto l’energia della speranza, la possanza della carità) a chi si sta credendo?

Innanzitutto, al diavolo non interessa la nostra disobbedienza. Per lui è solo un mezzo per raggiungere il suo scopo, vale a dire la nostra impotenza, l’incapacità di stare all’altezza delle forze che lo Spirito di Cristo ci dà. Ci rende disobbedienti affinché diveniamo impotenti, rassegnati all’incapacità di vivere da poveri, miti, giusti.
[Giovanni Cesare Pagazzi – L’Osservatore Romano]