Domenica 4 aprile 2021
La resilienza della festa pasquale nelle culture e religioni afrodiscendenti, anche nel mezzo del dolore della pandemia, spinge gli afrobrasiliani a valorizzare le loro origini all'interno di un percorso di fede. Per dare un volto nuovo, interculturale e "disoccidentalizzato" al cristianesimo.
[Marcelo Barros, monaco benedettino – Nigrizia]

In questi giorni, in Brasile, abbiamo raggiunto il traguardo di più di dodici milioni di persone infettate dal coronavirus e il numero di morti è già ben oltre le 325.000 persone. Queste cifre non corrispondono purtroppo alla realtà, perchè all’interno del paese la situazione è molto più grave e drammatica, e non viene contabilizzata. In un contesto come questo, dominato da un governo chiaramente genocida, non è facile parlare di speranza. Ancor meno sembra avere senso fare una festa.

Tuttavia, la celebrazione contiene in sé qualcosa di terapeutico e di profondamente umano che è nel cuore di tutte le culture. Anche in mezzo a tutta la sofferenza causata da questa pandemia nel mondo intero, da una settimana le comunità ebraiche stanno celebrando la Pasqua di quest’anno. A partire dalla fine di questa settimana, sono le Chiese cristiane d’Occidente che celebrano la Pasqua come un vaccino di resilienza.

In Brasile, tra tutti i popoli sommersi dal dolore e minacciati di morte, quelli che hanno più sofferto sono gli afrodiscendenti e più specificatamente le comunità tradizionali dei Quilombos (1). Oltre all’abbandono da parte del governo centrale e alla mancanza di aiuti di stato, soffrono ancora di più a causa di una situazione strutturale di povertà. Affrontano le sfide dell’igiene in alloggi precari e, in molti casi, senza poter avere accesso all’acqua potabile di qualità. Le religioni afrodiscendenti con i loro culti e le loro tradizioni sono state comunque segno e strumento di resilienza e di affermazione dell’identità culturale delle comunità.

Nel Brasile coloniale, i neri strappati all’Africa che arrivavano come schiavi nei porti del paese, erano costretti a ricevere il battesimo e così venivano considerati cristiani. Le religioni tradizionali erano quindi proibite. Chi le praticava veniva severamente punito ed escluso dalle comunità cristiane. È così che attraverso una lunga storia, sono nate varie forme di sincretismo tra le religioni di origine africana e il cristianesimo.

Il Candomblé è nato in mezzo a ogni tipo di persecuzione. È nato dalla resistenza dei discendenti neri degli schiavi nella diaspora. È servito a preservare il loro patrimonio culturale e spirituale. Rituali e culti, che in Africa erano praticati da culture molto diverse e quindi estranee tra di loro, vennero unificati e organizzati in un’unica religione, il Candomblé, nato a Bahia nei primi decenni del XIX secolo. Più tardi, all’inizio del XX secolo, nel contesto urbano della periferia povera di Rio de Janeiro, l’Umbanda nacque dal sincretismo tra i culti di matrice africana, lo spiritismo kardecista e il cattolicesimo popolare.

Tradizionalmente, la Chiesa cattolica ha sempre condannato qualunque pratica potesse assomigliare al sincretismo. Negli ultimi decenni la teologia cristiana nera ci ha insegnato a evitare il sincretismo della confusione ma apprezza il sincretismo come sintesi creativa. Oggi ancora siamo chiamati a un dialogo interculturale permanente con le culture nere e indigene.

In Brasile, per decenni, persone come dom José Maria Pires, per 30 anni arcivescovo nero di João Pessoa, hanno affermato: «Crediamo sempre più fortemente che è possibile a una persona nera essere discepolo di Cristo e vivere nella Chiesa senza smettere di essere una persona nera, senza rinunciare alla sua cultura, senza dover abbandonare la religione degli Orixàs, le divinità legate alla natura». «Sogno il giorno in cui potremo vedere rispettato il nostro modo di essere neri, la nostra maniera di celebrare, il nostro modello socioeconomico. E questo è quanto anche gli indios desiderano. È ciò che l’apostolo Paolo ha sostenuto per i “gentili” del suo tempo: per seguire Gesù non era necessario diventassero giudei, non era necessario cioè dover accettare la cultura e la religione giudaica. Allo stesso modo basterebbe conoscere un po’ la nuova cultura che si è radicata in Brasile, con gli schiavi portati dall’Africa, per capire che c’è un pizzico di Vangelo nelle cose del Nero».

Questo sguardo interculturale può aiutarci a capire come la data di Pasqua condizioni le celebrazioni proprie delle religioni nere in Brasile e in altri paesi del subcontinente. Certo, la Pasqua è una festa della tradizione giudaico-cristiana e le culture afrodiscendenti non avevano originariamente celebrazioni pasquali. Tuttavia, poiché la Pasqua è nata da una celebrazione della primavera, anche in un Brasile tropicale in cui, in molte regioni, ci sono quasi solo due stagioni (una secca e una piovosa), sia il Candomblé che l’Umbanda hanno celebrazioni che corrispondono all’inizio della primavera (nell’emisfero sud, a settembre).

In tutto il Brasile, all’inizio della Quaresima, nelle case del Candomblé e dell’Umbanda, è comune il rito del Lorogum. È un periodo in cui non si eseguono culti, non si suonano i tamburi sacri, perché secondo la tradizione, in questo periodo gli Orixás combattono una guerra contro il male. Il Lorogum corrisponde esattamente al periodo quaresimale. E si conclude il Sabato Santo con rituali che rivelano la vittoria contro il male.

Nella città di Goiás, da molti anni, l’Afoxé di Vila Esperança, un gruppo artistico legato alla valorizzazione delle culture afro, esce nella parata di Carnevale esattamente nel pomeriggio del Sabato Santo. In alcune case il sabato santo è come se fosse l’inizio dell’anno liturgico.

A Salvador (Bahia), a Opô Afonjá, uno dei templi più importanti del Candomblé, una delle celebrazioni più famose dell’anno si chiama Águas de Oxalá. Qualunque persona di cultura cristiana che abbia preso parte alla festa, la assocerà immediatamente a una veglia pasquale, celebrata ovviamente secondo la cultura nera e la tradizione degli Orixás. A Olinda e in altri luoghi, questa festa si celebra a gennaio e segna l’inizio dell’anno civile. Più tradizionalmente, in alcuni templi Candomblé e Umbanda, la festa era legata alla Pasqua e segnava l’inizio del calendario liturgico dell’anno.

Ancora oggi in alcune case di Candomblé di origine bantu si esegue un rito che veniva praticato a Luanda, in Africa. In Angola, questo rituale era chiamato Ndenshu. In Brasile ha preso il nome di Ritual da Kura (chiusura del corpo). Avviene sempre il Venerdì Santo. Consiste nel fare una piccola incisione nel corpo dell’iniziato per purificarlo e proteggerlo dalle malattie, dal male e da ogni sorte di negatività.

Nel mezzo della pandemia, questo rituale di chiusura del corpo sembra una protezione per coloro che non hanno accesso al vaccino che dovrebbe essere un diritto di tutti. 

Da parte cristiana, oggi come non mai, è diventato attuale quel vecchio articolo del Credo apostolico che recita: «Cristo fu crocifisso, morì e discese nella dimora dei morti». In passato lo si intendeva in modo mitico e spaziale. In questa Pasqua, ovunque nel mondo, viviamo intensamente la spiritualità del Sabato Santo. Si moltiplicano i cimiteri e le tombe in cui i morti vengono rapidamente sepolti. Come dice il Vangelo di Gesù:  «Perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato….e dato che il sepolcro era vicino, deposero Gesù» (Gv 19,31.42).

Di questi tempi, le famiglie delle vittime di Covid non possono nemmeno celebrare i riti funebri, tanto importanti per le culture afro e indigene. Non ci rimane che vivere questi giorni come le discepole che guardavano la tomba da lontano, addolorate per la partenza del Maestro e non sapendo ancora cosa aspettarsi. 

Per noi che lavoriamo con le comunità afro, è urgente pensare a una cristologia degli antenati. Questo comporterà una “disoccidentalizzazione” del cristianesimo, ancora troppo segnato dall’ellenismo. Abbiamo bisogno di una pneumatologia che riconosca il ruah (soffio) divino come l’Axé, l’energia vitale, di vita e risurrezione che riceviamo in comunione con la natura, nella relazione tra di noi e  gli antenati che ci parlano attraverso gli Orixás e ci rivelano Gesù come l’Orixá della Compassione.

Sia nella festa delle Acque di Oxalà, sia questo sabato notte o domenica all’alba, Pasqua, annunciamo insieme al mondo che l’Amore ha vinto la morte e trasforma la notte oscura in un giorno di gioia e di festa, anche in mezzo alla lotta: «Nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce» (Sal 139,12).

Nel mondo di oggi, è urgente che il buio dell’alba si trasformi nella luce del giorno. Desideriamo un’economia più equa e trasparente. Vogliamo un’organizzazione sociale e politica più partecipativa, abbiamo bisogno di un nuovo modo di relazionarci con la natura. Se sarà una giornata di sole o un mattino di pioggia non dipende da noi. L’alba sociale e umana, sì. Possiamo aiutare l’alba ancora buia della realtà a trasformarsi in un giorno di sole della giustizia. È questa la Pasqua. Lo facciamo partecipando allo sforzo sociale per un mondo più giusto, ma anche rendendo le nostre relazioni più amorevoli. «La nostra missione è seminare risurrezione», diceva il vescovo Pedro Casaldaliga.

(1) – I quilombos erano comunità formate da uomini e donne neri che scappavano dalle fattorie e dai mulini dove erano schiavi. Questi luoghi clandestini, che si trovavano in mezzo alla foresta o in regioni di difficile accesso, diventarono centri di resistenza e ancora oggi mantengono vive le culture afrodiscendenti e il progetto di proprietà collettiva e di comunità libere e più egualitarie.

[Marcelo Barros, monaco benedettino – Nigrizia]