Regola di Vita: ogni parte è ordinata al tutto come imperfetto a perfetto

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La Regola di Vita è legge umana nella quale confluiscono due elementi inseparabili; da un lato, è qualcosa di ordinato ad uno scopo, dall’altro, è esattamente questo, una regola, misura regolata e misurata da una misura superiore che, a sua volta, è duplice: le legge divina e la legge naturale. Il fine della legge umana è l’utile degli uomini secondo queste tre cose: che sia in armonia con la religione, dato che deve adattarsi alla legge divina; che sia di aiuto alla disciplina, dato che deve accordarsi, per principio, con la legge naturale; e che promuova la salute pubblica, dato che deve essere ordinata all’utilità umana. (P. Erasmo Norberto Bautista Lucas, mccj)

OGNI PARTE È ORDINATA AL TUTTO
COME IMPERFETTO A PERFETTO
[1]

Considerazioni sulla Regola di Vita

Introduzione

La Regola di Vita è legge umana nella quale confluiscono due elementi inseparabili; da un lato, è qualcosa di ordinato ad uno scopo, dall’altro, è esattamente questo, una regola, misura regolata e misurata da una misura superiore che, a sua volta, è duplice: le legge divina e la legge naturale. Il fine della legge umana è l’utile degli uomini secondo queste tre cose: che sia in armonia con la religione, dato che deve adattarsi alla legge divina; che sia di aiuto alla disciplina, dato che deve accordarsi, per principio, con la legge naturale; e che promuova la salute pubblica, dato che deve essere ordinata all’utilità umana.

Dall’armonia della legge con la religione consegue la sua onestà; la legge deve essere onesta. Dal suo rapporto con la disciplina deriva la sua possibilità; la legge deve essere possibile secondo la natura e le consuetudini del paese. La legge deve essere adeguata ai luoghi e ai tempi; la legge deve essere, quindi, opportuna per la disciplina; ciò vuol dire che deve essere adeguata alle circostanze: E siccome la legge umana è un concetto della ragione pratica, che guida gli atti umani, per cambiarla e modificarla, i motivi devono essere due: uno, che dipende dalla ragione, e l’altro, dagli uomini, i cui atti sono regolati da questa legge. Nel nostro caso la Regola di Vita guida il nostro lavoro missionario, determina il nostro modo di procedere, regola la nostra organizzazione.

Da parte della ragione, la Regola può essere cambiata o modificata, essendo connaturato nella ragione umana avanzare gradualmente da ciò che è imperfetto a ciò che è perfetto; vediamo infatti che, nel progresso umano, i primi ricercatori giunsero solo a scoperte imperfette che sono state poi perfezionate dai loro successori.

La stessa cosa succede anche nell’ordine pratico, cioè sul terreno dell’azione. Infatti, i primi che cercarono di scoprire qualcosa di utile per la costruzione della società umana, non potendo da soli tener conto di tutto, fissarono delle norme imperfette e piene di lacune, che furono poi modificate e sostituite da altre con meno carenze nel servizio al bene comune. Da parte degli uomini, ovvero da parte nostra in questo momento, la Regola può essere cambiata o modificata dato il cambiamento delle condizioni umane, che nelle loro differenze richiedono trattamenti differenti[2] in quanto ogni parte è ordinata al tutto, come imperfetto a perfetto, e l’individuo è parte della comunità...[3] Lasciandomi guidare da questi orientamenti di fondo, vi propongo le seguenti considerazioni.

0. La nostra organizzazione

La parte quarta della Regola di Vita ha questo titolo: Il servizio dell’autorità nell’Istituto. Dal punto di vista formale, comprende sei sezioni; la prima riguarda la concezione di Governo e Autorità; la seconda tratta della Comunità Locale; la terza si occupa della Provincia; la quarta parla della Direzione Generale; la quinta è sul Capitolo Generale; la sesta stabilisce la procedura concernente Assenza e Separazione dall’Istituto. Dal punto di vista dei contenuti, è suddivisa in 59 articoli, dal n. 102 al 161. Questa parte quarta può essere quindi interpretata come discorso collettivo, ancora oggi convincente, innovativo e trasformante, per la convivenza in cammino, per la convivialità come elemento distintivo delle sue componenti, di certo sempre perfettibile. Da quanto detto, quindi, si evince che l’organizzazione che abbiamo adottato per compiere la missione è “cordiale” ma complessa, a motivo delle presenze, opere e servizi. Le presenze sono le comunità, riunite in delegazioni o province. Le opere sono le istituzioni educative, sanitarie, parrocchiali, opere sociali, ecc., che le comunità, o le delegazioni o le province, gestiscono, e i servizi sono le attività, sia proprie che di altri, che le persone svolgono all’interno dell’Istituto.

0.1 Per principio affratellati da Cristo per continuare la sua missione nel solco di san Daniele Comboni

La parte quarta nasce da questo principio: noi Missionari Comboniani del Cuore di Gesù siamo uomini comuni e normali, affratellati da Cristo mediante l’ispirazione originaria di san Daniele Comboni per continuare la sua missione; attraverso la nostra organizzazione ci siamo sforzati di consolidare i legami di comunione, fraternità e amicizia, con azione e partecipazione. Fra noi, l’unione e la comunione sono vitali, dato che siamo un corpo che si organizza in comunità che vogliono vivere il Vangelo e realizzare l’invio. E non c’è niente che sia di maggiore aiuto a questa nostra unione se non l’obbedienza al Superiore Generale e ai superiori che lo coadiuvano, cosa che dobbiamo comprendere alla luce della vita del Gesù obbediente al Padre fino alla croce. Allora l’esercizio dell’autorità aiuta a vivere la comunione non come principio intessuto di norme, ma come uno stile etico di esistenza condivisa e realizzata e per questo ha bisogno di uomini-guida che, con pazienza, cordialità e speranza, ricordino che la cosa importante è l’urgenza evangelica di commuovere, risvegliare ed evocare il Regno in tutte le società, creare processi di Regno anche in ambiti apparentemente soddisfatti, disorientati o lontani da Dio; uomini con un’autorevolezza evangelica che persuade, motiva e stimola ad una conversione identitaria dell’Istituto verso questo presente. Tutto questo implica il formarsi in umanità, cordialità e gratuità, valori che esigono una predisposizione antropologica che nasce dalla virtù e soprattutto dal calore della fede per la grazia soprannaturale, per aprire vie alla presenza del Bene, della Verità, della Giustizia, abbracciando con l’amore di Gesù Cristo quanti sono afflitti dalla debolezza umana[4].

0.2 Modalità di approccio

L’albero trae nutrimento dalla terra umida, attraverso le radici, e le sue foglie ricevono luce e colore dall’atmosfera circostante. Dall’alto della sua chioma si vede un ampio orizzonte. Le sue radici profonde ne garantiscono la vita. Respiro e radicamento, altezza e profondità, sono queste le due prospettive caratteristiche della lettura e rilettura di un testo, nel nostro caso del testo della Regola di Vita. Da questo punto di vista, chi si accinge a questa lettura e rilettura deve cercare di evitare due eccessi: il primo, una lettura e rilettura apparentemente pia e devota ma che è fatta con un atteggiamento individualistico, sentimentale e fondamentalmente debole; il secondo, una lettura molto studiata, che pretende di essere molto obiettiva ma non è accompagnata da un vissuto profondo di spiritualità, di umanità, di missione. Si tratta di due modi parziali di leggere e rileggere. Per evitare questi estremi, chi si avvicina al testo, dovrà cercare di farne una lettura e rilettura fedele e creativa, ampia e profonda. A questi due orientamenti fondamentali, che riguardano l’autore e il lettore, bisogna aggiungerne altri due: la prospettiva del testo nel suo insieme e nella sua profondità. Questi quattro orientamenti basilari vengono indicati con quattro parole-chiave: davanti al testo, ossia la lettura attuale; dietro al testo, cioè l’autore o gli autori; all’interno del testo, e nell’insieme del testo, ovvero, ciò che il testo stesso dice; al di sotto del testo, in altre parole, il significato profondo di questo messaggio per la comunità dei membri che si riuniscono per leggerlo, rileggerlo e trasmetterlo come un prezioso album di famiglia, come succede durante la fase del postulato, del noviziato, dello scolasticato e successivamente.

0.3 Il patrimonio spirituale perennemente valido dell’umanità

Si consideri che un popolo è innanzitutto un repertorio di segreti che richiedono uno sforzo per essere scoperti e compresi, diceva Ortega all’inizio del XX secolo nella sua opera La ribellione delle masse[5]. Attualmente diversi popoli compongono l’Istituto e quindi, in esso, vi sono diversi repertori di segreti che intervengono nella lettura, comprensione, interpretazione ed esecuzione di quanto legiferato in un testo costituzionale da un popolo, in una certa epoca, secondo una tradizione, in questo caso, principalmente quella occidentale. Ecco allora che la revisione e la rivisitazione – questo tornare a visitare con spirito critico – della Regola di Vita esigono il coniugarsi armonioso del repertorio di segreti apportati dalle persone provenienti da popoli diversi ma sostenuti da una sorta di principi generali e indimostrabili, di per sé ovvi ed evidenti per chiunque, e che costituiscono il patrimonio spirituale dell’umanità: riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene; si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell'umanità[6]. Si tratta, dunque, di una specie di grammatica naturale secondo Benedetto XVI, sulla quale poggiano le disposizioni più particolareggiate, che devono essere imposte alla gente in sintonia con le sue condizioni, motivo per il quale, da parte degli uomini i cui atti sono da essa regolati, la legge può essere legittimamente modificata dato il cambiamento delle condizioni umane che, essendo differenti, esigono trattamenti differenti[7]. Quindi, è legittimo cambiare una legge se, cambiandola, si contribuisce al bene comune[8].

1. Recuperare fraternità

Oggi il diritto si occupa soprattutto di definire i limiti e le condizioni dell’esercizio dell’autorità, ma non viene fatta una riflessione sul suo significato e sui suoi fondamenti. Tuttavia, questa riflessione è necessaria perché l’autorità è entrata in crisi, sia nella famiglia che nella scuola e, quindi, in più di un’istituzione. Questa crisi si percepisce in modi diversi: da un lato, si osserva il passaggio da un’idea di autorità legata al sacro, ossia intoccabile, a un’idea di autorità che rientra nell’ambito della negoziazione; dall’altro, questa idea è stata trasformata anche dall’affermarsi dell’uguaglianza di tutti gli uomini, a prescindere dalla loro condizione, sesso, età, e dall’affermarsi della spontaneità delle persone che devono pensare da sé. Si è denunciato – a ragione – l’autoritarismo, legato ad un tipo di manipolazione e all’esercizio di una violenza reale, ma, in questo modo, si apre la porta al pericolo e al rischio di soccombere ad un altro tipo di eccesso che è quello del lassismo o libertinaggio.

1.1 Modello relazionale e dialogico dell’esercizio dell’autorità

Nel documento della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica – CIVCSVA – “Per vino nuovo, otri nuovi”, troviamo questa proposta che è radicale e, allo stesso tempo, semplice: recuperiamo fraternità. Nella più ampia visione sulla vita consacrata elaborata dal Concilio, si è passati dalla centralità del ruolo dell'autorità alla centralità della dinamica della fraternità. Per questo l'autorità non può che essere al servizio della comunione: un vero ministero per accompagnare i fratelli e le sorelle verso una fedeltà consapevole e responsabile[9]. Ne deriva che il confronto tra fratelli [...]  e l’ascolto delle singole persone diventano un luogo imprescindibile per un servizio dell'autorità che sia evangelico[10].

Tuttavia, nella vita consacrata, è in qualche modo troppo a lungo perdurata una mentalità verticistica dell’autorità, caratterizzata in questi termini: “Il ricorso a tecniche manageriali, o all'applicazione spiritualeggiante e paternalistica di modalità ritenute espressione di "volontà di Dio", sono riduttivi rispetto a un ministero chiamato a confrontarsi con le aspettative altrui, con la realtà quotidiana e con i valori vissuti e condivisi in comunità[11]. Infatti, non può non preoccupare, sottolinea il documento, la permanenza di stili e prassi di governo che si allontanano o contraddicono lo spirito di servizio, fino a degenerare in forme di autoritarismo[12].

A differenza di questo genere di comprensione, di fatto preoccupante, gli inviti del documento citato sono in linea con questo desiderio di maggiore orizzontalità; incoraggiano a prendere coscienza del fatto che la missione del nostro Istituto è un progetto comune, che necessita di collaborazione: Va quindi incoraggiato un servizio di autorità che chiami alla collaborazione e a una visione comune nello stile della fraternità [13] per convincerci che l’autorità è, di per sé, un servizio e non un mezzo per l’autoaffermazione di chi la riceve[14]; per resistere alla tentazione di ricorrere, nell’esercizio del governo, a soluzioni autoritarie[15]; per praticare maggiormente la rotazione degli incarichi[16]; e per promuovere i rapporti intergenerazionali all’interno dell’Istituto[17]. Alla luce di questi orientamenti, qui di seguito faccio alcune considerazioni su come attualizzare il servizio dell’autorità, tratte dalla mia esperienza nella vita consacrata e in altri ambiti di responsabilità collegiale, presentandole entro questo orizzonte di “fraternità” che il citato documento sostiene.

1.2 La mentalità dell’epoca

La presentazione delle considerazioni qui proposte presuppone che le interpretazioni attuali delle strutture organizzative dietro alle quali c’è la vita consacrata, rientrino nella mentalità dell’epoca e siano dunque soggette ai dubbi della cultura ambientale odierna sull’autorità. Una forte relativizzazione dell’autorità coesiste paradossalmente con la richiesta che questa venga esercitata senza titubanze. Chi governa, da una parte, deve confrontarsi con una palpabile nostalgia per un’autorità paternalistica che torni a rispondere alle necessità individuali e si contrapponga così all’anonimato che sommerge le ristrutturazioni fatte dall’Istituto. Dall’altra, deve dare ascolto alla richiesta insistente di potenziare strutture di governo più partecipative.

Fra l’autoritarismo e il lassismo bisogna cercare, senza alcun dubbio, un termine intermedio, o più concretamente, bisogna precisare il senso, la legittimità e il fondamento dell’autorità, che è un aspetto dell’educazione, della formazione permanente. Così la lettura, comprensione e attualizzazione del contenuto della quarta parte della Regola di Vita, dedicato all’autorità e al suo esercizio, esige oggi una riconsiderazione all’altezza dei tempi ma soprattutto alla luce della crescente multiculturalità dell’Istituto in quanto un popolo è prima di tutto un repertorio di segreti che richiedono qualche sforzo per essere scoperti e compresi[18].

E come le strutture della comunione – il servizio dell’autorità nell’Istituto – possono essere considerate nella prospettiva canonica e nella prospettiva teologico-spirituale – due possibili prospettive ugualmente importanti – è inevitabile tenerne conto in maniera equilibrata al momento della revisione e rivisitazione della Regola di Vita, anche se la prospettiva canonica è la più difficile in quanto richiede molta fatica, ore di lavoro paziente e di dialogo per poter raccogliere nella tradizione canonica le novità che lo Spirito Santo suscita nell’Istituto, e le strutture di governo costituiscono, nella comunione o visione teologico-spirituale, una dimensione prettamente canonica. Entrambe le prospettive rappresentano il filo conduttore del tessuto del nostro testo costituzionale attuale. A tale proposito, sono molto illuminanti queste considerazioni: Dobbiamo ricomporre una spiritualità del servizio dell’autorità che lotti contro il discredito che sta subendo, la critica a cui è sottoposto per difetto, le aspettative esagerate di competenza che si esigono da essa, l’inerzia verso l’individualismo che mina la coscienza del bene comune e l’ingenuità dei modelli eccessivamente orizzontalisti dell’autorità. Questa spiritualità verrebbe da una grazia: quella di riconoscere il valore di missione che il servizio dell’autorità ha dentro di sé e il potenziale di vita per gli altri che questa missione comporta[19].

1.3 Governo e autorità

Il contenuto della quarta parte della Regola di Vita affonda le proprie radici in questa convinzione fondamentale: l’azione – nel caso dell’Istituto, l’azione missionaria – non è mai possibile nell’isolamento; essere isolati è come non avere la capacità per agire. L’azione e il discorso hanno bisogno della presenza di altri. A sostegno di questo, vale la pena ricordare che il greco e il latino, a differenza delle lingue moderne, hanno due parole diverse e tuttavia legate fra loro per indicare il verbo “agire”. Ai verbi greci archein (cominciare, guidare e infine governare) e prattein (attraversare, realizzare, portare a termine) corrispondono i verbi latini agere (far muovere, guidare) e gerere (il cui significato originario è “portare”). È come se ogni azione fosse divisa in due parti, l’inizio, compiuto da una sola persona, e la fine, dove molte si uniscono per “portare” e “portare a termine” l’azione dando il proprio contributo. Non sono solo le parole ad essere legate fra loro in modo simile, ma molto simile è anche la storia dell’uso di queste parole. In entrambi i casi, la parola che originariamente designava solo la seconda parte dell’azione, la conclusione – prattein e gerere – è diventata la parola accettata per l’azione in generale, mentre quelle che designavano l’inizio dell’azione hanno assunto un significato preciso, almeno nel linguaggio politico. Archein è passata a indicare principalmente governare e guidare, se usati in maniera specifica, mentre agere ha assunto il significato di “guidare” per dire “far muovere”.

Così, il ruolo di iniziatore e guida, che era il primus inter pares, è diventato quello del governante.

L’autorità si presenta sotto forme distinte. Innanzitutto come un carisma o un ascendente naturale, di chi sa per natura dirigere. In secondo luogo, come una competenza, per esempio, quella dell’esperto, dello specialista, del sapiente, secondo le immagini platoniche che rappresentano l’autorità politica. Terzo, come la gestione e la leadership legate a uno statuto. In tutti e tre i casi, il concetto di autorità implica una relazione verticale o quanto meno una certa gerarchia. La prima forma di autorità, il carisma, può apparire ambigua nella misura in cui, sia nell’educazione e formazione che nella politica, può essere esercitata per il meglio o per il peggio. La seconda, la competenza, è facilmente giustificabile nella misura in cui si controlla l’oggetto e gli altri ne ammettono l’esercizio. La terza, lo statuto, è spesso criticata come arbitraria e artificiosa, nella misura in cui non è giustificata da una competenza reale al servizio degli altri. Tuttavia, è proprio sul terreno della competenza che si osserva uno scivolamento del concetto di autorità fra giovani e adulti, una differenza di luogo, di posizione nel tempo.

È in questo contesto, riteniamo, che diventa imprescindibile una leadership che nasca dall’ascolto dello Spirito Santo in comunità. Che indichi, con la propria vita, un cammino possibile e reale, senza perdere la dipendenza-trascendenza, che mostra in maniera inconfondibile la luce della vicinanza di Dio.

Si tratta, prima di tutto, di una leadership che sappia dove va. Che abbia un itinerario e sappia mostrarlo, comunicare e contagiare. Per questo deve immedesimarsi con le contingenze reali dell’Istituto che serve. Deve saper semplificare, generare cambiamenti per poter ridare vita alla comunità; deve dare slancio, sostenere e vegliare sui cambiamenti affinché non deviino dalla forza carismatica; deve essere leader e coniugarlo con un volerlo essere che sia evangelico, perché non ha senso esserlo per forza o perché non c’è altro rimedio o perché è l’unico; deve essere idoneo a costruire la comunione plurale che è l’istituto nel quale, grazie alla mediazione di una leadership corale e profetica, coesistano le iniziative e le possibilità, la complementarietà e la novità. Sapendo che la missione è l’anima della comunità, l’autorità deve essere esercitata da uomini che scoprano la felicità nel guidare un popolo che cammina nel deserto con illusioni e promesse, con lamenti e ricordi, con tendenze di efficienza e di eccellenza, e anche con segni di morte. Così, dunque, le questioni attorno al governo e all’autorità vanno a colpire lo stile della leadership dal punto di vista della sua assunzione e messa in atto: l’autorità si gioca molto della propria giustificazione nel modo in cui la si assume e la si esercita. Oggi non basta uno stile qualsiasi[20].

Nel trattare l’esercizio del ministero dell’autorità è necessario riflettere attorno alla responsabilità verso terzi, anche se solo in modo simbolico e in vista di una regolamentazione. I terzi possono essere i confratelli. Tre elementi costitutivi confluiscono qui, ossia, il concetto di governare ed essere governati, di governo e potere, e dell’ordine regolamentato che lo accompagna, e qui rientrano la personalizzazione e il discernimento: Per il Vangelo, le persone sono imprescindibili. Non propone comandamenti astratti, validi in sé, senza alcun rapporto con chi li propone e con chi li comunica. Il Vangelo opera con dei richiami, con esortazioni alle persone affinché portino avanti iniziative di vita a favore degli altri. Perché è nelle persone che la missione trova fonti sorprendenti di gratuità, di eroismo nel dono di sé, di creazione di relazioni fraterne, di disponibilità alla solidarietà, di adattabilità nel servizio al di sopra e al di là delle tradizioni. [...] La leadership [...] deve essere convinta della priorità che ha la [...] cura personalis[21]. Questo richiede, allora, di andare oltre, alla radice, alla ricerca di un’istanza di fronte alla quale si possa dar conto dell’esercizio dell’autorità, poiché si tratta di pensare l’unica cosa su cui si può veramente fondare, nella sua radicalità, il senso della vita umana e di una vita personale; caratterizzata cioè allo stesso tempo dalla singolarità e dal valore incondizionato che ne deriva.

In ogni caso, chi governa ed esercita l’autorità dovrà essere ricco di umanità e di rispettosa sensibilità nelle relazioni interpersonali perché la volontà e la ragione dell’uomo, da una parte, si esprimono con le parole e, dall’altra, anche con i fatti, dato che ciascuno fa capire che preferisce ciò che realizza con l’azione[22]. A tale proposito, è molto chiarificatore questo testo di un uomo che è vissuto in tempi molto difficili e che dà questo consiglio: i buoni agricoltori […] non coltivano solo gli alberi dritti e alti, ma applicano anche a quegli alberi la cui crescita è stata deformata da una qualche causa dei sostegni per mezzo dei quali si raddrizzino; ad altri tagliano i rami tutt’intorno, perché essi non ne ostacolino la crescita in altezza; altri, deboli per l’aridità del terreno, li concimano; ad altri, sofferenti per l’ombra di piante estranee, dischiudono il cielo[23]. Di buoni lavoratori ha bisogno oggi il nostro Istituto, cioè di persone che curino gli alberi dritti e alti; raddrizzino quelli storti, potino quelli frondosi, concimino quelli deboli, schiudano il cielo a quelli che soffrono nella crescita per un’ombra estranea che li priva della luce.

Conclusione

L’esercizio dell’autorità richiede, in chi è chiamato a questo ministero, innanzitutto umanità integrale, salute spirituale e stile intraprendente affinché l’Istituto sia luogo di misericordia, meno verticista e più sinodale; esige fedeltà e prudenza, perché l’ira è il principio della rovina del buon governo. L’organizzazione che abbiamo adottato per compiere la missione, esposta nella quarta parte della Regola di Vita, è cordiale, impregnata di fede, ma anche complessa. In questa prospettiva, il contenuto della quarta parte della Regola di Vita può essere interpretato come l’espressione di un Istituto sempre in costruzione, dove ognuno si senta accompagnato dallo Spirito Santo e nella fraternità. Chi esercita il servizio dell’autorità chieda al Signore di concedergli l’audacia del profeta, la fortezza del testimone, la chiaroveggenza del maestro, la sicurezza della guida, la mansuetudine del padre e la vicinanza del fratello per iniziare, in quelli affidati alle sue cure, fondandosi sullo Spirito Santo e lasciandosi guidare dai saggi consigli dei suoi simili, il compimento dell’umile desiderio di partecipare all’opera redentrice di Cristo[24]. Governare è, per principio e in fin dei conti, un atto di amore, è dare la vita. E l’amore è esigente, richiede l’uso delle risorse migliori, per risvegliare la passione e mettersi in cammino con pazienza assieme ai fratelli. Nell’Istituto, chi esercita il ministero dell’autorità dovrà essere certamente competente e qualificato, ma soprattutto e innanzitutto ricco di umanità, evitando, in tutto e con tutti, di essere scorretto nel parlare e nell’agire, avendo cura dell’unità nella diversità, dell’identità nella differenza, e della carità in tutto, essendo gli uni per gli altri amici nel mandato di diffondere “il profumo del Vangelo” (EG 39) e custodendo, con gioia e creatività, ciò che abbiamo ereditato da san Daniele Comboni.
Città del Messico, 28 agosto 2018
Festa di Sant’Agostino
P. Erasmo Norberto Bautista Lucas, mccj

 

[1] Cf. Papa Francesco, Evangelii Gaudium, 234-237; Laudato Si’, 141.

[2] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Teologica I-II, qq. 90-97.

[3] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Teologica I-II, q. 90, a. 2.

[4] Cf. Lumen Gentium, 8.

[5] José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, p. 247.

[6] Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 4.

[7] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Teologica, I-II, q. 97, a. 1, soluzione.

[8] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Teologica, I-II, q. 97, a. 2, soluzione.

[9] CIVCSVA, Per vino nuovo, otri nuovi, 41.

[10] Ibidem.

[11] Cf. ib.

[12] Cf. ib. 43.

[13] Cf. ib. 43.

[14] Cf. ib. 44.

[15] Cf. ib. 45.

[16] Cf. ib. 46.

[17] Cf. ib. 47.

[18] José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas, p. 247.

[19] Francisco José Ruiz, Odres nuevos para el gobierno, in Vida Religiosa. Monografico. 122 (2017), 88 (536).

[20] Francisco José Ruiz, Odres nuevos para el gobierno, in Vida Religiosa. Monografico. 122 (2017), 75 (523).

[21] Francisco José Ruiz, Odres Nuevos para el gobierno, in Vida Religiosa. Monografico. 122 (2017), 75-76.

[22] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Teologica, I-II, q. 97, a. 3, soluzione.

[23] Seneca, De clementia, Parte II, cap. 5.

[24] Cf. LG 45.