P. Manuel Augusto: “Attualità di Daniele Comboni e della sua iniziativa missionaria”

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Venerdì 29 ottobre 2021
Prima che scada ottobre, il mese missionario, prendo l’iniziativa di mandarti il testo della condivisione che ho avuto con un gruppo di sacerdoti diocesani a Venegono, nella festa di San Daniele Comboni. É un modo per richiamare ancora “l’attualità di Daniele Comboni e della sua iniziativa missionaria”: questo è infatti il titolo della condivisione fatta e del testo che adesso condivido con te.

È un tentativo di vedere il nostro fondatore nel contesto del movimento missionario dell’Ottocento per favorire un confronto con nostro tempo e contesto, particolarmente in quattro ambiti dell’attualità del dibattito ecclesiale: la missione dei laici nella Chiesa e nella società, il coinvolgimento del clero nell’evangelizzazione, il luogo della donna nella Chiesa, e la ricerca di una metodologia missionaria adeguata. La condivisione sul nostro fondatore offre spunti che, spero, ci potranno aiutare a tutti a fare la nostra propria riflessione e accostamento del fondatore al nostro tempo. Che San Daniele ci aiuti e ispiri in questa testimonianza del suo carisma missionario.
Manuel Augusto

Attualità di Daniele Comboni e della sua iniziativa missionaria

1. Introduzione

1.1 Vorrei invitarvi a guardare alla figura di San Daniele Comboni (1831-1881) collocandola sullo sfondo del movimento missionario dell’Ottocento, il contesto nel quale dobbiamo collocare tutti i fondatori missionari di quel secolo…

1.2 Lo scopo di questo esercizio non è (solo) storico, teorico; è anche pratico e ha una dimensione di utilità immediata: favorire un confronto col nostro tempo, con la stagione di cambiamento epocale che viviamo nella Chiesa, all’inizio del secolo XXI.

1.3 In questo senso, l’esercizio che ci proponiamo avrebbe un doppio scopo:

1.3.1 da una parte, cogliere la testimonianza di san Daniele Comboni, dichiarato dalla Chiesa (con la sua canonizzazione all’inizio del secolo, 5 ottobre 2003) maestro di vita e di missione cristiana per il nostro tempo e per tutti, non solo per i comboniani e le comboniane;

1.3.2 dall’altra, favorire un’apertura, critica ma sempre generosa, alla proposta di una nuova configurazione missionaria della Chiesa, fatta da Papa Francesco e portata avanti come una linea di forza di questo pontificato, dal 2013 a oggi. Questa proposta ha avuto i momenti alti con la pubblicazione della Evangelii gaudium, della Laudato Si’ e della Fratelli tutti (assieme al sinodo sull’Amazonia) ma forse, secondo alcuni, è già in fase discendente, a giudicare dai sondaggi. Il pontificato continua e il Papa felicemente è in buona salute (come lui stesso ha confermato al ritorno dall’ultimo viaggio); ma forse, per noi, missionari e ministri della Chiesa, occorre superare la fase delle citazioni spontanee del Papa, alla giornata e per un consumo immediato, per entrare in una fase di valutazione e capire quello che resterà del pontificato e aprirci effettivamente alle proposte nuove, di fondo, come opportunità per riconfigurare la Chiesa di questo secolo. La sfida, soprattutto per gli istituti missionari, è fare tesoro dell’insegnamento di Papa Francesco e del suo pontificato e discernere cosa, di quello che il Papa dice per la Chiesa tutta, ci riguarda in prima persona e può essere determinante nella nostra configurazione missionaria. L’attuale percorso sinodale, che rilancia il pontificato con la proposta di un momento di ascolto ecclesiale reciproco, certamente ci aiuterà in questo ascolto e discernimento.

1.4 In questo senso, ancora, la proposta dell’attualità del Comboni, non deriva dalla mania dei comboniani di pensare che tra i missionari siamo i migliori (il monito sull’autoreferenzialità ci riguarda, eccome!). Deriva, invece, dall’apprezzamento di uno storico della Chiesa come il gesuita Giacomo Martina (1924-2012), docente di Storia della Chiesa all’Università Gregoriana (dal 1964 al 1974), che ai suoi studenti diceva che, tra i fondatori missionari dell’Ottocento, Comboni, anche se era il più polemico, era anche quello che avrebbe avuto più probabilità di essere canonizzato dalla Chiesa. Per una semplice ragione: mentre gli altri fondatori avevano incarichi e ruoli qui, in Europa, fondavano istituti e mandavano i loro in missione, Daniele Comboni era missionario in Africa, fondava istituti che affidava ad altri per ritornare in Africa e morire sulla frontiera della sua missione.

1.5 Aggiungo, a questa introduzione, che sta già diventando troppo lunga, una nota personale. Sono molto contento di essere qui con voi, Arcivescovo e presbiterio della diocesi di Milano, alla quale io e molti della mia generazione guardiamo come cantiere di fermento e di aperture pastorali e apostoliche. Ricordo che agli inizi della mia vita missionaria comboniana e di impegno nella comunicazione sociale (stampa missionaria) mi sono dato da fare (con un altro prete diocesano che lavorava per la televisione a Lisbona) per venire a Milano e partecipare ad un convegno sulla comunicazione nella Chiesa (inizio degli anni ‘80), in cui il relatore principale era l’allora arcivescovo Martini. Oggi, la dimensione del nostro incontro è più semplice e modesta, ma sempre piena di significato e portatrice di speranza per me.

2. Lo sguardo su Comboni e sul movimento missionario dell’Ottocento

Veniamo, adesso, al nostro sguardo su Comboni, nel contesto del movimento missionario dell’Ottocento (seconda metà di quel secolo). Ricordiamo un aspetto che forse già conosciamo da quanto sappiamo della storia. Dopo la Rivoluzione francese e, di conseguenza, dopo lo scioglimento degli ordini religiosi e l’incameramento delle loro proprietà da parte dello stato, la Chiesa arriva alla fine del Settecento in uno stato deplorevole, soprattutto per quanto riguarda l’impegno missionario nei continenti, con appena qualche centinaio di missionari (qualcuno parla di 300), prevalentemente membri di ordini religiosi, in Asia e America del Sud; e col modello della sua presenza missionaria in crisi (modello che si appoggia sul ius commissionis e sulla protezione delle potenze coloniali europee).

Mentre la Santa Sede e Propaganda Fide si ripensano e prendono tempo per riformulare il modello di missione (praticamente un secolo, con la Maximum Illud di Benedetto XV, del 30 novembre del 1919), un movimento missionario che nasce dal basso si afferma e fruttifica nella Chiesa (nord dell’Italia, centro Europa, Austria e Germania, Francia e Belgio); alla fine dell’Ottocento i missionari presenti in Africa, Asia e America sono decine di migliaia, inquadrati in nuove forme di vita fraterna per la missione, tra cui gli istituti missionari. Non possiamo qui trattenerci sulle ragioni che spiegano questa crescita; ci basta prendere nota di alcuni aspetti che possono essere illuminanti per noi oggi.

2.1 La presenza, il ruolo e l’iniziativa dei laici

Il primo aspetto, sorprendente, può essere la presenza dei laici. Quando cominciamo a leggere sulle iniziative missionarie dell’Ottocento (verso l’Africa centrale, per esempio…) restiamo impressionati dall’alto numero di laici che facevano parte delle spedizioni missionarie (artigiani, maestri di professioni…). In alcune delle spedizioni organizzate dal Comboni erano addirittura la maggioranza (tra laici e fratelli).

L’Ottocento comincia in Europa con un diffuso interesse per la conoscenza dell’Africa Centrale, ancora avvolta nel mistero per quanto riguardava i suoi popoli e la sua geografia (si cercavano le sorgenti del Nilo, si facevano spedizioni di esplorazione dei territori e delle tribù che li abitavano). Circolavano diari e resoconti di queste spedizioni, facendo aumentare l’interesse culturale, economico e politico, in un crescendo che avrà il suo momento decisivo nella Conferenza di Berlino, del 1885, che, purtroppo, sancì la spartizione dell’Africa tra le potenze europee del tempo.

Il movimento missionario sposò questo interesse per l’Africa. Gli storici parlano dell’idealismo che lo ha caratterizzato. I laici che partivano con le spedizioni avevano, infatti, questo forte sentimento di ottimismo riguardo alla trasformazione sociale e culturale dei popoli: credevano, soprattutto, nel valore, nella differenza che il Vangelo poteva fare in questo processo, come lievito di trasformazione; credevano nelle capacità delle persone e dei popoli africani, che volevano iniziare alle tecniche e alle arti trasformative.

Su questo presupposto, il Vangelo come lievito di trasformazione e le capacità delle persone come punto di partenza, Daniele Comboni ha anche costruito la sua visione e metodologia missionaria, che ha proposto nel Piano per la Rigenerazione dell’Africa, scritto in seguito a un tempo forte di discernimento sul da farsi, nel giugno del 1864. Comboni parla di rigenerazione, pensando ad una trasformazione integrale, innescata dal Vangelo, e vede gli africani come protagonisti, soggetti della propria trasformazione sociale, politica, economica, religiosa. In fedeltà a questa visione, a Khartoum ed El Obeid, accanto all’edificio della chiesa, vengono costruite rudimentali scuole di arti e uffici, per ragazzi e ragazze, uomini e donne.

Oggi, in Africa e altrove, abbiamo disinvestito nella formazione delle persone (noi comboniani abbiamo abbandonato collegi, scuole, politecnici con una grande tradizione…) e abbiamo promosso una trasformazione sociale non illuminata dal Vangelo (più tecnica e professionale) a base di piccoli progetti, più o meno indirizzati ai bisogni immediati delle persone e comunità (acqua, luce, salute…).

I laici, poi, in alcuni ambiti dell’Occidente, sembrano aver perso quell’ottimismo per vivere e calare il Vangelo negli ambiti decisivi della trasformazione sociale. Nel dopo Vaticano II c’è stata una ripresa di questa visione, si è raccolta questa sfida, in seguito al riconoscimento dell’autonomia del mondo secolare e all’appello del Concilio ai laici, a testimoniare la fede in questo ambito secolare come loro ambito specifico.

Oggi, però, sembra che viviamo un rifugiarsi dei laici nell’ambito interno della Chiesa, con la ricerca di un nuovo ruolo nella liturgia e nei ministeri ordinati e non ordinati, nell’amministrazione e nell’esercizio del potere nella Chiesa. Così, agli occhi di alcuni, invece che mirare alla trasformazione della società ispirata al Vangelo, i laici stanno diventano protagonisti di una trasformazione (giuridica e canonica) della Chiesa ispirata ai criteri della società in cui vivono (democrazia interna, uguaglianza di genere e quote nell’esercizio dell’autorità e nei ministeri, adozione di un concetto secolare di famiglia con la pretesa omologazione tra famiglie e unioni dello stesso sesso).

Lo sguardo sulla nostra situazione oggi ha molte letture che certamente si completeranno a vicenda. Dal confronto col movimento missionario dell’Ottocento ci viene una chiara sfida: recuperare l’ottimismo e la fede nella forza del Vangelo per la trasformazione sociale. Papa Francesco parla della “gioia del Vangelo” e affida ai laici questa sfida, con l’invito a non lasciarsi rubare la gioia del Vangelo e dell’incontro con gli altri, persone e popoli, negli ambiti concreti della loro vita.

2.2 Il protagonismo del clero diocesano

Il secondo elemento che ci colpisce nel movimento missionario dell’Ottocento è il ruolo e il protagonismo del clero di origine diocesana nelle varie iniziative missionarie. Nelle prime spedizioni verso l’Africa Centrale troviamo nomi di sacerdoti diocesani e i membri delle nuove fraternità apostoliche e istituti missionari provengono soprattutto dal clero diocesano (diocesi del nord Italia, Austria e Germania).

Le iniziative missionarie hanno una chiara matrice diocesana, alimentate dalle nuove forme di spiritualità (devozione al Cuore di Cristo: Caritas Christi urget nos!) che sta rinnovando la vita cristiana nelle parrocchie e diocesi. I fondatori appaiono molto radicati nelle loro Chiese locali, radicamento alimentato da ruoli che svolgono, amicizie, contatti, visite...

Le nuove fraternità appaiono istanze di ricerca di nuove vie apostoliche e attraggono il clero. Comboni e i primi comboniani vivono un forte radicamento nella Chiesa di Verona (come il Pime a Milano e i Saveriani a Parma, i missionari della Consolata a Torino…). E questa matrice di Chiesa locale si apre a un respiro più ampio verso altre Chiese locali e fa nascere un senso, una coscienza di missione come iniziativa ecclesiale, cattolica, da svolgersi in un contesto di comunione con altre Chiese e di collaborazione tra le forze ecclesiali.

Daniele Comboni respira questo contesto e abbraccia questa nuova visione, sia nel Piano per la Rigenerazione dell’Africa, a cui abbiamo già fatto riferimento, sia nel Postulatum a favore dei Neri dell’Africa Centrale, presentato ai Padri del Concilio Vaticano I (1870): propone un’iniziativa missionaria che coinvolga tutte le forze vive della Chiesa; parte con iniziative di collaborazione (con i Camilliani e i Francescani) e poi fonda il suo Istituto che vuole “sia un’opera cattolica e non italiana, tedesca o francese”. In questo, parte avvantaggiato, dato che Verona è sotto l’Austria e Comboni ha stabilito contatti con le diocesi del centro Europa e può contare subito su candidati austriaci, tedeschi e belgi, consacrando dall’inizio un’apertura internazionale che negli altri istituti arriverà solo più tardi.

Questi sacerdoti erano conosciuti come “missionari apostolici” e come tali erano riconosciuti da Propaganda Fide che li appoggiava, per due motivi; uno politico, riprendere il controllo delle missioni cattoliche sottraendole all’influenza politica degli Stati; e un altro ecclesiale, cioè, ritirare le iniziative missionarie dal controllo e dai costringimenti dei grandi ordini religiosi (francescani, domenicani, agostiniani, gesuiti…).

Se guardiamo al nostro tempo, il confronto fra questo protagonismo del clero di allora e il coinvolgimento del nostro clero nella missione universale della Chiesa evidenzia un passivo e un vuoto. Da una parte, si sono aperti cammini nuovi, come quelli dei sacerdoti Fidei Donum, in seguito all’omonima enciclica di papa Pio XII, ma anche questo modello d’inserimento del clero diocesano nella missione universale sembra essere entrato in una fase di esaurimento delle sue possibilità, per la mancanza generalizzata di vocazioni sacerdotali nelle diocesi e per l’invecchiamento del clero diocesano. Dall’altra, e questa sembra essere la conseguenza più significativa dell’attuale processo, il clero diocesano non si ritrova nelle iniziative degli istituti missionari, non si riconosce negli istituti missionari né li riconosce come espressione missionaria delle loro comunità parrocchiali e diocesane. È subentrata qui una scollatura, un distanziamento progressivo tra diocesi e istituti missionari, agli antipodi della situazione dell’Ottocento, e per il quale abbiamo tutti qualche responsabilità, anche le società di vita apostolica e noi degli istituti missionari che abbiamo cercato di promuovere un’inserzione nella Chiesa locale partendo sempre da noi stessi, dai nostri programmi e priorità, invece di metterci all’ascolto delle Chiese locali e cercare nuovi cammini d’inserimento del carisma missionario. Al di là delle eventuali responsabilità reciproche, che qui non è il momento di approfondire, resta il fatto che la presente situazione significa una perdita per la Chiesa e per il Vangelo di Cristo; il suo eventuale superamento potrà indicare una nuova stagione di fecondità apostolica.

2.3 La sintesi (integrazione) tra la visione (mistica) e metodologia missionaria

I missionari dell’Ottocento, i fondatori in particolare, erano convinti che bisognava avere un approccio nuovo all’evangelizzazione. Daniele Comboni, in particolare, aveva percepito questo a proprie spese, nell’esperienza fallimentare della prima spedizione missionaria in Africa Centrale, ancora come membro dell’istituto Mazza. Da allora, era in attesa del movimento dello Spirito, alla ricerca di una nuova visione e metodologia missionaria, poi proposta nelle varie edizioni del Piano, che mirava alla formazione di comunità cristiane e di un clero locale come obiettivi immediati dell’iniziativa missionaria.

Propaganda Fide vedeva di buon occhio questa ricerca di una metodologia missionaria da parte degli istituti missionari e delle altre fraternità apostoliche dell’Ottocento, cogliendovi un’opportunità nuova per la missione cristiana nel mondo. Con l’andare del tempo, si afferma una metodologia missionaria, passata poi al Novecento, con le seguenti caratteristiche:

- più leggera ed efficace, itinerante, che cerca un incontro con le persone e i popoli, attraverso lo studio e la conoscenza delle loro lingue e una presenza continuata nei villaggi e comunità;

- una metodologia che rimetteva al centro il primo annuncio, con il battesimo e l’organizzazione dei catecumenati e l’iniziazione alla vita cristiana di individui e comunità;

- una scommessa sulla formazione delle persone e dei ministeri (catechisti) e sulla preparazione del clero locale.

Nel caso dell’Africa, questa metodologia si è mostrata chiaramente vincente e ha permesso il radicamento del cristianesimo nel continente a sud del Sahara, di cui vediamo i benefici nel presente. Nel nostro tempo e in seguito al Vaticano II questa metodologia è entrata in un percorso di revisione, di arricchimento, per integrare elementi nuovi (come l’inculturazione, in Africa, e la trasformazione sociale e politica, in America Latina…).

Siamo arrivati all’oggi, in questo inizio del secolo XXI, con una grande ricchezza di proposte, a livello di visione, di idee, ma senza la capacità di fare la sintesi; anche qui sembra che viviamo una scollatura e facciamo fatica ad articolare una metodologia missionaria efficace, in Africa come negli altri continenti, che integri visione innovatrice e pratica sostenibile. Il rischio è di confondere le idee, gli ideali, con la realtà e di pensare che basti affermare un’idea per aver compiuto la trasformazione ecclesiale desiderata (anche qui Papa Francesco ci ricorda che la realtà ha il primato sull’ideologia, il terzo dei principi per il discernimento proposti nella Evangelii Gaudium); e che la sfida più esigente è quella di riuscire ad elaborare la sintesi e dare vita ad una metodologia missionaria, di evangelizzazione per il nostro tempo. Questa sfida diventa più difficile se teniamo conto del dilagare della “realtà” virtuale/digitale con l’affermarsi delle reti sociali; queste de-costruiscono, smontano, specie tra i giovani, i presupposti della vita cristiana come cammino assieme (l’incontro personale, la parola, la comunità, l’esperienza sacramentale, l’impegno di vita… che scompaiono nella fruizione individuale della rete sociale).

2.4 La presenza delle donne

A conclusione, riferiamo un altro elemento-sorpresa nel nostro sguardo sul movimento missionario dell’Ottocento: l’emergenza, la presenza delle donne nella missione della Chiesa. Ricordiamo, solo e brevemente, che in precedenza la missione era cosa da uomini; in Africa, senza dubbio.

Daniele Comboni appare qui come pioniere nel capire il ruolo fondamentale delle donne nei processi di trasformazione sociale e la conseguente importanza della presenza femminile nell’incontro del cristianesimo con i popoli africani. Nel Piano per la Rigenerazione dell’Africa prevede la formazione delle donne al pari di quella degli uomini. Nell’implementazione della sua metodologia missionaria, porta in Africa Centrale le donne missionarie (le donne del Vangelo, come le chiamava): prima, le Suore francesi di San Giuseppe dell’Apparizione e poi le Pie Madri della Nigrizia, da lui fondate. Ad animarlo a fare questi passi pionieristici e certamente pieni di rischi e di sfide (se guardiamo alle condizioni di vita in Africa Centrale a quel tempo), c’è una visione di missione condivisa, di una comune dignità umana e cristiana e di una decorrente collaborazione nella riconosciuta diversità di ruolo e funzione.

Sia tra le Suore della Apparizione come tra le Comboniane, Comboni ha trovato donne all’altezza di questo sogno di missione condivisa e di quest’audacia apostolica: dalle 22 suore missionarie che aveva ammesso nell’istituto ben 17, il vero nucleo fondazionale e carismatico delle Suore Missionarie Comboniane, lo seguono in Africa, a Khartoum e El Obeid, restando fedeli alla missione, lasciando una testimonianza martoriale inaudita nella prigionia che hanno vissuto, sotto i fondamentalisti islamici che prendono il potere in Sudan dopo la morte del Comboni.

Oggi viviamo una stagione di tumulto e di ricerca anche appassionata per quanto riguarda l’integrazione delle donne nella vita e missione della Chiesa. Le donne del nostro tempo hanno un genuino senso della comune dignità nella Chiesa e pretendono di viverlo anche nell’uguaglianza di ruoli e funzioni e si lasciano anche attrarre dall’esercizio dei ministeri ordinati. Viviamo così sotto la pressione delle esigenze della mentalità dominante, del politicamente corretto, in una società che esige parità di ruoli e di funzione in tutti gli ambiti (con l’esigenza di quote per le donne nell’esercizio della responsabilità nella Chiesa).

Il confronto con il movimento missionario dell’Ottocento, in questo campo, resta difficile da fare e la testimonianza delle missionarie di questo secolo – uguale dignità in una diversità di ruoli e funzioni – rimane oggi controversa. Ma nel confronto non possiamo evitare la sfida che la loro testimonianza ci lascia, quella di ritornare al Vangelo senza glossa, che ci ricorda che il dono prevale sul ruolo, che il dono della propria vita è la chiave del vero senso e fecondità di ogni ministero ed esercizio di responsabilità.

Conveniamo che è difficile per noi oggi predicare il Vangelo del servizio e del grembiule (uso l’espressione per ricordare uno di voi, Tonino Bello) e ricordare alle nostre sorelle il detto del Signore Gesù: “Chi tra voi vuole essere il primo, sia l’ultimo e servo di tutti” (Marco 10, 44). Conveniamo, soprattutto, che è una missione impossibile predicare questo vangelo alle nostre sorelle senza averlo predicato prima a noi stessi: in questo senso accogliamo con umiltà lo scomodo richiamo, il monito sul clericalismo che ci viene (in un modo che possiamo considerare ripetitivo e irritante per noi) da Papa Francesco; e accettiamo la sfida che ci fa di rivedere i nostri ruoli e funzioni nella Chiesa, per scoprire che la fecondità del nostro dono, la pienezza apostolica e la felicità personale, non stanno né nello spirito di classe (clericalismo) né nella parità e omologazione, ma nella creativa diversità di ministeri e funzioni, che si radicano nella comune dignità di battezzati e fanno crescere una comune coscienza di Chiesa come Corpo di Cristo e Popolo di Dio (per usare le espressioni di san Paolo).

Ci auguriamo che il nostro convenire assieme e la nostra riflessione, nella memoria di San Daniele Comboni e dei missionari e missionarie dell’Ottocento, a questo contribuisca. Grazie per il vostro ascolto.
P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, mccj
Venegono Superiore, 12 ottobre 2021