Modelli di formazione versus modelli di missione alla luce della nostra storia comboniana

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Sabato 24 settembre 2022
L’autore di questo testo, dal titolo “Modelli di formazione versus modelli di missione alla luce della nostra storia”, è P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, presidente dell’ufficio Studium Combonianum dell’Istituto comboniano a Roma. Si tratta di una riflessione “senza pretese”, dice P. Manuel Augusto, “nello spirito di libertà e comunione che guidano le ricerche e l’interscambio d’idee, nella speranza che possa aiutare a collocare in prospettiva le questioni della formazione, emerse anche nel recente XIX capitolo generale” dei Missionari Comboniani. Il testo verrà pubblicato nel prossimo LIII volume della rivista Archivio Comboniano, nella sezione Memoria Comboniana.

MODELLI DI FORMAZIONE VERSUS MODELLI DI MISSIONE

ALLA LUCE DELLA NOSTRA STORIA

P. Manuel Augusto Lopes Ferreira

Il titolo della riflessione che ci proponiamo di fare esige alcuni chiarimenti sui termini che usiamo, oltre allo scopo della stessa. Prima di tutto, parliamo di modelli di missione e modelli di formazione. Usiamo questi concetti di modelli perché esprimono un modo di capire ambedue le realtà, sia missione che formazione. Il concetto di modello offre una proposta interpretativa, che illumina la comprensione e allo stesso tempo motiva all’azione[1] tanto per quello che riguarda la missione come la formazione.

Accostiamo i due concetti, dato che si illuminano e si richiamano a vicenda, in una ricerca costante di sintonia, di una sintesi d’integrazione nelle varie tappe della storia dell’Istituto missionario comboniano. Il titolo fa riferimento alla nostra storia, perché in essa riscontriamo, a cominciare dal fondatore San Daniele Comboni e dal carisma fondazionale, questa ricerca di sintonia tra formazione e missione, che rimane una sfida per ogni generazione comboniana.

Questo accostamento è doveroso, non per canonizzare le sintesi del passato, di un’epoca o di un’altra, ma per illuminarci nella costruzione e nella ricerca di sintonia tra formazione e missione nel presente. Nella nostra storia recente riscontriamo alcuni elementi che ci sorprendono. Da una parte, siamo stati capaci di operare una notevole svolta nella formazione (come vedremo più avanti), per avvicinarla alle esigenze della missione proposta dal Concilio Vaticano II[2]. Ma dall’altra, negli ultimi Capitoli generali si è sempre riaccesa una “luce rossa”, un richiamo a rivedere la formazione, come se la sintonia formazione-missione continui a sfuggirci[3].

Offriamo questa riflessione per aiutare a capire questa situazione di una percepita a-sintonia tra modelli di missione e formazione che viviamo nell’Istituto e le presenti difficoltà a costruire un modello di formazione adeguato alla situazione attuale e che prepari i candidati alla missione.

1. Un anello del fondatore

La ricerca di sintonia tra il modello di formazione e il modello di missione si riscontra come preoccupazione del fondatore. La prima presenza missionaria di Daniele Comboni nel Vicariato dell’Africa Centrale fu breve ma marcante, con la forza di una passione, come un sigillo che l’ha segnato per la vita (primo viaggio in Africa, ancora membro dell’Istituto Mazziano). Umanamente, questa prima apertura all’Africa si chiuse con una sconfitta, con la morte di due dei membri della spedizione e il rientro di Daniele Comboni e degli altri. Ma segnò l’inizio della ricerca di Daniele Comboni: non abbandona l’Africa, ma si rende disponibile ai movimenti dello Spirito per capire quale via intraprendere per portare il Vangelo e la sua forza trasformatrice agli africani. A giugno del 1864, a San Pietro in Vaticano, trova la risposta che gli viene dall’Alto, risposta che concentra nel Piano per la Rigenerazione dell’Africa.

Comboni s’identifica con un modello di missione pensata come incontro e presenza tra i popoli del vicariato, una presenza amica manifestata nell’apprezzamento per le loro lingue e culture e nell’affidamento alle loro capacità e al loro protagonismo (salvare l’Africa con gli africani); nella testimonianza del Vangelo come forza per la trasformazione sociale (scuole e promozione delle persone); nell’annuncio cristiano come cammino per radicare il vangelo e le comunità cristiane in Africa centrale.

Quando, tre anni dopo, il 1º giugno 1867, la fondazione dell’istituto gli si impone, chiarisce, nelle Regole che scrive, che cerca una “riunione di ecclesiastici e fratelli… che si dedicano alla conversione dell’Africa” per realizzare “l’ingiunzione fatta da Cristo ai suoi discepoli di predicare il Vangelo a tutte le genti”. L’Istituto che intende fondare è un nuovo “cenacolo di apostoli” e ha, perciò, come “oggetto speciale la rigenerazione dei popoli Negri, che sono i più bisognosi…”[4].

Chiarito il modello di missione che abbraccia, Daniele Comboni apre il testo delle Regole con una prefazione, che è una chiave di lettura che guarda al modello di formazione che occorre costruire per preparare i missionari della nigrizia. Comboni è convinto che le regole esistenti nella Chiesa per la formazione dei sacerdoti e dei ministri, ordinati e no, in generale, debbano essere adattate al contesto, al luogo e al tempo della missione in Africa centrale.

Di conseguenza, scrive nella prefazione: “Le Regole di un Istituto che deve formare apostoli, perché siano durevoli, devono basare sopra principi generali. Se fossero molto minute… potrebbero riuscire giogo aspro e peso grave per chi le deve osservare. Essendo oltremodo vario e smisurato il campo sul quale il candidato deve spiegare la sua azione, non può essere limitato a certi e determinati uffici… bensì… principi generali devono informare la sua vita e il suo cuore, in guisa da sapersi regolare da sé, applicandoli con accorgimento e giudizio dei tempi, luoghi e circostanze, in cui lo pone la sua vocazione”[5]. Questi principi assicurano “quella eguaglianza di spirito e di condotta esteriore, che fa riconoscere i membri di una sola famiglia”.

Al centro di questo modello c’è la persona e la sua responsabilità e maturità personale; ogni deriva e tentazione individualistica sono arginate dai principi generali, che rimangono come garanzia “dell’eguaglianza di spirito e condotta” cioè dell’identità condivisa nell’Istituto.

Questa ricerca di un modello di formazione in sintonia con le esigenze particolari della missione è preoccupazione dominante nella vita di San Daniele ed emerge come tema costante, soprattutto nelle lettere dell’ultimo anno della sua vita, al rettore P. Giuseppe Sembianti[6]. Il fondatore vive con questo desiderio di sintonia tra i modelli di formazione e missione che vorrebbe sancito nell’approvazione della redazione finale delle Regole da parte di Propaganda Fide, approvazione da lui cercata e affidata al Sembianti. E muore con la tristezza di non vederla, anche per mancato impegno del Sembianti in questo senso.

2. In attesa d’integrazione

In seguito alla morte del fondatore, dal 1881 al 1887 (o al 1893, anno del ritiro definitivo dei gesuiti), l’Istituto comboniano ha vissuto la prima riconfigurazione della sua storia: la trasformazione in congregazione religiosa, per mano dei gesuiti. Questa configurazione ha salvato l’eredità comboniana (minacciata dal possibile assorbimento dell’Istituto in un’altra congregazione esistente: qualcuno pensava ai salesiani, altri agli stimmatini…) e ha preservato la sua identità e finalità missionarie: la congregazione dei Figli del Sacro Cuore di Gesù resta missionaria e conserva il legame con la missione (il Vicariato dell’Africa centrale).

Il modello di formazione adottato a Verona assicura un forte spirito identitario e di famiglia e promuove l’alta qualità spirituale e apostolica che Daniele Comboni aveva auspicato per i missionari della nigrizia. Questa configurazione, però, occulta la testimonianza personale e il carisma fondazionale di Daniele Comboni. Le nuove Costituzioni e Regole, preparate da P. Asperti (nel 1886) non hanno riferimenti spirituali al Comboni, alla sua mistica o alla sua visione missionaria e metodologica, ma sono ispirate allo spirito, alle norme e alla sensibilità della riforma promossa dai gesuiti dell’Ottocento nel nord Italia.

La ricerca di sintonia tra modello di missione e di formazione si è così spezzata. A pagare il prezzo e le conseguenze di questa situazione è stato il primo gruppo dei missionari Figli del Sacro Cuore di Gesù (un gruppo di dieci, tra cui Roveggio, che sarà il successore di Comboni come Vescovo di Khartoum, e Colombaroli, che sarà Superiore Generale dei FSCJ), che fanno i voti il 20 ottobre 1887. Il primo gruppo di quattro FSCJ – Colombaroli, Roveggio e i fratelli Giori e Baldi – parte per l’Egitto a novembre dello stesso anno.

Appena arrivati al Cairo, si rendono conto della difficoltà di osservare le regole e i costumi appresi nel noviziato a Verona e delle inadeguatezze delle Costituzioni e Regole, quando confrontate con la vita concreta dei missionari al Cairo. Sorgono le prime tensioni tra FSCJ e i missionari del Comboni presenti al Cairo e che incarnano un’esperienza missionaria sul terreno: non hanno fatto il noviziato e hanno una sensibilità diversa, vivono una fraternità propria di una comunità apostolica, piuttosto che la vita comunitaria propria di una comunità religiosa.

Inoltre, l’obbedienza al superiore della comunità religiosa si scontra con l’obbedienza all’autorità pastorale (il Vicario Apostolico dell’Africa Centrale, e, al Cairo, il Vicariato Apostolico d’Egitto); il forte senso di lealtà e obbedienza al proprio superiore religioso, acquisito a Verona, non aiuta nei rapporti con l’autorità pastorale al Cairo[7].

Questi non sono argomenti di poca importanza e, infatti, vengono messi sotto osservazione da Propaganda Fide che, però, tarda a dare una risposta. La questione del rapporto con l’autorità apostolica, come impostata nelle regole di P. Asperti, era già stata esaminata da P. Steinhuber, canonista della Gregoriana, che aveva rilevato che “erano poco precisate le relazioni tra il Vicario Apostolico e il Superiore della Congregazione… punto difficile da regolare, ma molto importante”[8]. Questa questione sta all’origine del successivo allontanamento di Mons. Francesco Sogaro dal Vicariato.

Alcune prescrizioni delle Regole erano considerate rigide e inadatte al clima e al lavoro apostolico in Africa e la “meticolosità e fedeltà dei missionari FSCJ all’orario e agli avvisi di P. Asperti” erano considerati fuori posto in Africa. A Verona, P. Asperti si sente messo in questione e i gesuiti minacciano di abbandonare la direzione dei FSCJ.

La nomina di Mons. Roveggio a Vicario Apostolico attenua queste tensioni e facilita sia i rapporti tra superiore religioso e autorità apostolica, sia la comprensione e l’integrazione delle regole della vita religiosa nella vita apostolica. Ma la tensione tra consacrazione e missione, tra vita comunitaria e vita apostolica, sottaciuta, rimane ed è destinata a riemergere come attesa d’integrazione, come si vedrà nel II Capitolo Generale (1909), che termina con un appello di P. Vianello “all’unione dei sudditi tra loro e con i superiori”, che lamenta la “mancanza di carità e un certo spirito di divisione e critica”.[9]

3. Sensibilità e modelli differenti

Col passare degli anni si affermano due anime nell’Istituto comboniano configurato in congregazione religiosa, anime che si affermano secondo sensibilità proprie e che sono il risultato di due modelli di formazione (se così le possiamo chiamare): quello di Verona, erede dell’impronta dei gesuiti e sensibile alle esigenze della vita religiosa e quello di Bressanone, più sensibile alle esigenze della vita apostolica e della trasformazione sociale.

L’esistenza delle due sensibilità e della diversità di lingua e cultura (italiana e germanica) non sarebbe un problema… ma lo diventa quando l’eredità carismatica di Comboni e il suo approccio internazionale vengono messi a tacere. Quando le due anime prendono luce da questa eredità e si abbracciano, l’Istituto conosce tempi di espansione missionaria: il Vicario Apostolico Geyer ha una visione che spinge l’Istituto verso il sud del Sudan e il nord dell’Uganda, seguendo un modello di missione che cerca di guadagnare terreno e garantire la presenza cristiana.

Ma la tensione si riaccende nel 1909, con il II Capitolo Generale, e nel 1912, quando Mons. Geyer preme per la divisione del Vicariato e la collocazione dei missionari secondo la lingua e la cultura (il Vicariato di Khartoum con i missionari di lingua tedesca e Mons. Geyer alla giuda; il Vicariato del Sud con i missionari di lingua italiana e Mons. Stoppani alla guida) allo scopo di sviluppare il lavoro nel sud del Sudan e nel nord Uganda e intensificare l’animazione missionaria nel centro Europa. Le differenze emergono al momento di valutare le metodologie missionarie, le priorità nell’evangelizzazione e l’integrazione della vita consacrata nel lavoro missionario.

Nel 1919 i FSCJ si confrontano di nuovo, nel III Capitolo Generale, sulla formazione e missione dei fratelli, sulle priorità nell’evangelizzazione e sui rapporti tra evangelizzazione (catechismo) e promozione umana (scuole di arte e mestieri). Questa tensione nascosta – la ricerca (abortita) di una sintonia tra modello di formazione e modello di missione – riemerge e diventa uno degli elementi che portano alla seconda configurazione dell’eredità di Daniele Comboni: lo “sdoppiamento” in due congregazioni (i FSCJ con sede a Verona e i Missionari Figli del Sacro Cuore, MFSC, con sede a Bressanone) decretato da Propaganda Fide il 27 luglio 1923.

Non si tratta di analizzare qui tutti gli elementi e il percorso della nuova riconfigurazione, ma di indicare come la questione modello di formazione versus modello di missione sia presente nel processo. P. Meroni, Superiore Generale, rifiuta il modello formativo impartito a Bressanone e riafferma il modello di Verona come l’unico. Non segue l’indicazione capitolare di avviare il processo della creazione di una provincia tedesca e mira, invece, alla piena integrazione del gruppo tedesco (aufsangung, assorbimento o separazione, nella sua lettera del gennaio 1922). L’approccio internazionale e pluriculturale del Comboni viene ignorato e si preferisce lo sviluppo separato dei due gruppi e delle loro culture. Alla fine del processo si rifiuta il modello di “comunione nella diversità” nella formazione e nella missione e s’impone il «rimedio radicale» proposto da Meroni (l’espressione è sua).

Il processo di separazione ha anche una ricaduta nei modelli di missione. I MFSC lasciano il Sudan e vanno in Sudafrica, nella prefettura di Lynderberg, dove sviluppano in prevalenza un modello di missione che cerca un’integrazione tra promozione umana ed evangelizzazione: il modello tutto in una, di cui è esempio la missione di Glen Cowie, con la Chiesa, il catecumenato, le scuole e le opere di trasformazione sociale. I FSCJ si espandono nel Sud Sudan e nord Uganda: forti dei valori della vita religiosa, danno priorità al battesimo, previa una breve istruzione nei catecumenati, e all’iniziazione cristiana, e sviluppano il modello dei safari.

4. Gli anni di fuoco

Dopo la Seconda guerra mondiale (1939-1945), le due congregazioni comboniane seguono percorsi di sviluppo separato, come abbiamo anticipato nella breve descrizione (sopra) del processo di divisione. Ma con alcuni aspetti in comune: ambedue si aprono all’internazionalità (i MFSC vanno in Peru, i FSCJ negli Stati Uniti, Messico, Portogallo, Mozambico, Spagna…e, dopo l’espulsione dal Sudan nel 1964, in altri paesi africani, come RD del Congo, Centrafrica, Togo e Ghana, Malawi e Zambia); ambedue soffrono delle conseguenze dei processi sociali, politici ed ecclesiali che hanno segnato i decenni a metà del secolo scorso.

Stavolta è l’evoluzione dei modelli di missione a condizionare il modello formativo. Vari fattori hanno contribuito ad accelerare i cambiamenti nella formazione e a mettere in causa equilibri raggiunti tra modello di formazione e missione.

Primo, l’andata in altri paesi e contesti ha portato ad un confronto tra il modello comboniano di missione e altri modelli presenti nei nuovi territori: il modello della missione come annuncio (rapido) e battesimo (facile) soffre correzioni che mirano ad un catecumenato più lungo ed esigente, a un accompagnamento più sostenuto delle comunità cristiane, alla formazione e preparazione dei ministri della Parola (catechisti e anziani) e all’organizzazione dei catecumenati.

Secondo fattore, i fermenti di rinnovamento ecclesiale che s’intensificano con la convocazione del Concilio Vaticano II (1961-1965). Il Concilio richiede un rinnovamento nel modello di missione e apre la strada a modelli nuovi: missione come inculturazione (rapporto fede cristiana e culture locali, particolarmente in Africa); missione come servizio (con attenzione ai ministeri non ordinati e ordinati, la localizzazione della Chiesa con la promozione del clero e della gerarchia locale); missione come trasformazione sociale e liberazione (in particolare in America Latina, con la teologia della liberazione e la promozione delle comunità ecclesiali di base; ma anche in Africa, la comparsa dei movimenti di liberazione, negli anni Sessanta, accelera il processo dell’indipendenza dei territori e dei popoli sotto tutela coloniale e postula una revisione del posizionamento della missione cristiana nel contesto politico africano.

Terzo fattore, la rivoluzione culturale in atto in Europa (maggio del ’68 in Francia). Fino a quel momento, l’impianto formativo dei missionari comboniani, tanto MFSC come FSCJ, si trova in Europa e nord America (Stati Uniti e Messico) e i candidati sono prevalentemente europei, messicani e americani (unica eccezione è stata la presenza di alcuni candidati sudanesi, già negli anni ’60 e ’70). I giovani candidati comboniani europei soffrono l’impatto di questo movimento e rivendicano rinnovamento, cambiamenti nel modello della formazione, libertà e responsabilizzazione personale (In Italia, i candidati FSCJ organizzano un movimento di resistenza, con tanto di sciopero e contestazione, in seguito alla decisione di P. Briani di aspettare il Capitolo del 1969 per effettuare cambiamenti nella formazione).

Il quarto e ultimo fattore è interno e ha a che vedere col dinamismo di riscoperta del Fondatore che il concilio inizia tra i comboniani, col richiamo a ritornare alla primigenia ispiratio. Questo ritorno al Fondatore ha ispirato la proposta di rinnovamento contenuta nei documenti capitolari del Capitolo del 1969, che hanno guidato la vita dell’Istituto, quale regola di Vita, dal 1969 al 1979. In questo capitolo si sono avviati i due grandi processi del rinnovamento conciliare tra i comboniani: la riunificazione delle due congregazioni e l’approvazione della nuova Regola di Vita (concluse, poi, nei capitoli generali del 1975 e 1979).

In questi anni di fuoco, si lanciano le basi per la riforma del modello di formazione dei Missionari Comboniani del Cuore di Gesù (come abbiamo anticipato nella prima pagina, nota 2). La costruzione del nuovo impianto riprende la ricerca di sintonia tra modello di missione e modello di formazione, propria del fondatore, nel senso che è il modello di missione a illuminare la formazione. Non è questo il luogo per illustrare nei dettagli questa costruzione (che richiederà anni fino all’elaborazione della Ratio Fundamentalis), ma vogliamo solo accennare alla svolta e al suo significato, sottolineando gli elementi innovativi.

Le norme generali della Chiesa per la preparazione dei sacerdoti erano la base del modello comboniano di formazione e assicuravano la formazione dei comboniani sacerdoti (con gli studi di Teologia Fondamentale, Sacra Scrittura, Pastorale, Catechetica e Omiletica, che erano alla base del curriculum negli scolasticati di Verona, Venegono e Moncada, per i FSCJ, e di Ellwangen e Palencia, per i MFSC, e poi di Roma), una formazione che li preparava ad abbracciare soprattutto il modello della missione come annuncio e iniziazione cristiana.

La formazione dei comboniani fratelli aveva un curriculum più fluido e improvvisato, e i MFSC investivano più dei FSCJ nella formazione tecnica dei fratelli. Tanto per i fratelli come per i sacerdoti, le lacune della formazione erano evidenti, davanti alle sfide dei nuovi modelli di missione, che abbiamo già menzionato.

Per rispondere a questa situazione, la riforma della formazione, iniziata dal Capitolo del 1969, si muove in varie direzioni. La prima mossa è la moltiplicazione degli scolasticati e dei centri di formazione dei fratelli (i CIF) per avvicinare la formazione comboniana al contesto (geografico, culturale e sociale) della missione comboniana (nascono così Elstree, Parigi (1970), Granada (1974), Kampala e Innsbruck (1975), Chicago (1976), São Paulo (1977); e poi, più tardi, Nairobi e Lima. I CIF nascono negli anni ’80 a Nairobi e Bogotà.

Questo modello internazionale (come si diceva allora) della formazione spezza l’unità del modello precedente e apre la strada all’affermazione di una varietà di percorsi di formazione di padri e fratelli, imperniati sulla persona e i suoi valori e doni, sul contesto immediato nel quale vive. Il modello dell’integrazione, come finisce per essere chiamato, fa leva sulla persona e sulla sua maturità e responsabilità personale, in linea con la visione del fondatore. E mantiene il candidato, lungo tutto il percorso d’iniziazione alla vita missionaria comboniana, in contatto stretto con la missione comboniana. E cerca una rinnovata integrazione tra vita consacrata e missione, vita fraterna nella comunità e vita apostolica nella Chiesa e nella società.

Come si vede, lungo questa storia di costruzione del modello di formazione comboniana e a cominciare dalla Regola di Vita, i MCCJ hanno nutrito aspettative molto alte riguardo al modello, ma non tutte si sono avverate, come l’andare dei tempi s’incaricherà di far vedere.

5. Sintonia (sempre) fragile

Mentre i decenni passano, emergono anche i limiti e le fragilità del modello di formazione comboniano, se confrontato con la missione, le sue esigenze e la varietà dei suoi modelli. Come abbiamo già detto, a partire dagli anni ’90 del secolo XX, e fino ai nostri anni del secolo XXI, nei vari Capitoli generali si accende una “luce rossa” sulla formazione, con la richiesta di revisioni, verifiche, aggiunte, ecc. Cercando i motivi di queste richieste di verifiche e correzioni al modello della formazione, riscontriamo le fragilità del modello stesso.

Da una parte, emergono i limiti nell’ambito della formazione teologica, biblica e missionaria ricevuta dai candidati in alcuni dei centri d’insegnamento che frequentano. Il programma dell’insegnamento basico della Teologia, proposto dalla Chiesa e assunto negli scolasticati, prepara i candidati sacerdoti alla missione, ma in termini astratti e teorici; li prepara per tutti i modelli di missione ma, in concreto, per nessuno. I limiti di questa situazione emergono più tarde, nei primi anni di ministero, con l’arrivo precoce delle crisi d’identità. Si avverte la necessità d’integrare meglio aspetti della consacrazione e missione, spiritualità e vita apostolica; dell’iniziazione alla vita e ai modelli di missione comboniana; si propone l’inserimento nel curriculum formativo di un periodo di servizio missionario prima dei voti perpetui e dell’ordinazione[10].

D’altra parte, alcune scelte fatte, come quella del formatore integrale (che riunisce nella stessa persona il ruolo di superiore e padre spirituale, la responsabilità per la disciplina e per il cammino vocazionale) mostrano i loro limiti. La ricerca e la preparazione dei formatori diventano poi, con l’andare dei tempi e la moltiplicazione degli scolasticati, un incubo per la Direzione Generale dell’Istituto. Il modello fa leva sulla persona, sulla sua responsabilità e maturità: ma l’integrazione auspicata delle varie dimensioni (umana, cristiana, psicologica, emotiva) nelle diverse fasi viene a mancare, como indicano i numeri alti di uscite durante il periodo dei voti temporanei e nei primi anni di vita missionaria. Per quanto riguarda i candidati fratelli, nei CIF, risulta problematica ed elusiva l’auspicata integrazione tra formazione tecnica e professionale, da una parte, e la formazione teologica e spirituale, dall’altra.

L’avvento del mondo digitale (con internet e le reti sociali) ha reso ancora più volatile la situazione e più elusiva la sintonia tra modello di formazione e modello di missione. L’uso intensivo delle reti sociali ha accelerato l’isolamento del singolo candidato e la fuga nel mondo digitale. La conseguente scollatura tra realtà virtuale e digitale, costruita dal candidato, da una parte, e il modello concreto (o modelli) di missione vissuta/i nell’Istituto, dall’altra, si è allargata di molto.

6. Carisma individuale e missione condivisa

Il contesto digitale, sopra accennato, aumenta la difficoltà d’identificazione coerente, da parte del candidato, con un modello concreto di missione. Ma non è l’unica causa di questa situazione.

Il modello di formazione comboniano, sviluppato in seguito al Vaticano II, ha avvicinato il candidato e il suo percorso formativo al contesto della missione e ha esposto il candidato alla situazione socioculturale delle persone in mezzo alle quali vive. Lo ha preparato, psicologicamente e spiritualmente, per abbracciare il modello di missione come trasformazione sociale (e le sue varianti).

Questo modello di un coinvolgimento nella trasformazione sociale, che mira alla coscientizzazione e alla liberazione delle persone, apre la strada ad un protagonismo individuale del missionario (non sperimentato prima), valorizzando le sue capacità e carismi personali. Questo modello favorisce un intervento immediato, da parte del missionario, sulle persone e le comunità, un intervento basato su progetti (intorno ad azioni di coscientizzazione e risoluzione dei problemi immediati delle persone), che rafforzano ancora di più il protagonismo del singolo missionario.

In passato, e nel modello precedente, il protagonismo della trasformazione sociale andava alle istituzioni formative (collegi, scuole tecniche, centri di formazione, centri pastorali…) e il missionario veniva preparato per coinvolgersi nella trasformazione sociale nel contesto di queste strutture.

Nel nuovo modello, le istituzioni formative che cercano una trasformazione sociale a lungo termine, che l’Istituto aveva creato e sostenuto con la sua missione, vengono abbandonate a una a una, e la capacità di servire in queste istituzioni scompare tra i comboniani. All’abbandono di queste strutture segue il moltiplicarsi di progetti e iniziative individuali, che talvolta portano i comboniani addirittura ad abbandonare l’Istituto per abbracciare un modello di missione individuale, che prescinde dalla mediazione dell’Istituto.

Siamo così arrivati alla situazione di una, alquanto generalizzata, mancata identità con la missione dell’Istituto, da parte dell’individuo, e all’affermarsi di un preteso modello di missione piuttosto liquido, corrispondente alla sensibilità e al carisma personale più che istituzionale, e che ha come centro l’ombelico della persona del missionario (ci riferiamo, naturalmente, all’ombelico carismatico).

7. Il discernimento che s’impone

D’altra parte, nel dopo concilio e fino ai nostri giorni, i modelli di missione si sono moltiplicati in una grande varietà, cosa alla quale il magistero di Papa Francesco ha conferito un’accelerazione: incontro, presenza, testimonianza, dialogo, evangelizzazione, ministeri ordinati e non ordinati, trasformazione sociale, inculturazione, liberazione, giustizia e pace, difesa del creato ed ecologia integrale, fraternità… sono concetti che hanno dato nome a modelli di missione, più o meno articolati, parole che hanno declinato la missione cristiana nel nostro tempo.

Ovviamente, Papa Francesco parla a e per tutta la Chiesa e a ogni istituto missionario rimane il compito di discernere tra quello che il magistero propone a tutta la Chiesa e quello che lo riguarda più da vicino, secondo il proprio carisma fondazionale e le forze umane e i mezzi disponibili; discernere, cioè, su ciò di cui può appropriarsi per attualizzare il proprio carisma nel kairos ecclesiale del momento, poiché nessun Istituto può assumere in modo sostenibile (ha forze umane e mezzi per abbracciare in modo significativo) tutte le proposte del magistero ecclesiale, che, appunto, si rivolgono ad una grande varietà di carismi e non pretendono di ignorarla.

I Missionari Comboniani del Cuore di Gesù (come d’altronde hanno fatto altri istituti missionari), nei Capitoli generali di questo secolo, hanno cercato di integrare questa varietà di modelli di missione, con dichiarazioni di principio e in sintonia con il magistero dei pontefici; hanno accettato le sensibilità che s’imponevano al momento e lasciato ai singoli missionari la scelta e l’identificazione con i vari modelli, nel contesto di orientamenti generali (le ben note priorità di ogni Capitolo).

Si è aperta la strada a uno stato che possiamo definire di buonismo e idealismo carismatico, dove tutte le dimensioni dell’evangelizzazione e i vari modelli della missione vengono affermati per tutti indistintamente (le distinzioni si presuppongono, eventualmente, ma non si affermano esplicitamente; come, per esempio, quelle proprie dei ministeri ordinati e non ordinati, dei sacerdoti e dei fratelli laici, dell’uomo e della donna all’interno della famiglia comboniana…). Sembra che gli istituti missionari abbiano difficoltà ad effettuare un confronto tra carisma fondazionale (che sta alla loro origine) e modelli di missione (la sfida che viene loro dalla Chiesa e dalla società oggi), un confronto che porti ad una scelta come istituzioni.

Da una parte, hanno difficoltà a fare delle scelte istituzionali di fondo che implichino la costruzione di nuovi percorsi di formazione e iniziazione alla vita missionaria, alla luce dei nuovi modelli di missione (si muovono con cautela, anche riguardo ai nuovi modelli in costruzione proposti da Papa Francesco[11]). Dall’altra, lasciano il discernimento ai singoli membri che s’identificano con un modello o con un altro, a seconda del proprio carisma e sensibilità personali.

Questa modalità fa leva su un punto importante: Dio concede i suoi doni a persone concrete e non astrattamente ad una istituzione. Bisogna perciò, discernere partendo dai carismi concessi dallo Spirito alle persone, ai propri membri. Ma questa via ha dei limiti e da sola non è sufficiente: se gli istituti e le comunità lasciano ai singoli membri questo discernimento e identificazione con un modello di missione, si affievolisce la coscienza di un carisma e di una missione condivisi, cioè, comuni. Inoltre, se la scelta di un modello di missione viene lasciata all’individuo, è condannata ad avere breve durata, perché durerà quanto l’individuo.

8. L’ultimo approdo: il XIX Capitolo Generale

Alla più alta e più recente istanza di discernimento dell’Istituto comboniano – il XIX Capitolo Generale, del giugno 2022 – è arrivata l’ennesima richiesta di una revisione della formazione, richiesta avanzata nell’Intercapitolare del 2018 e fatta propria dalla Direzione Generale che ha guidato e coordinato la vita dell’Istituto negli ultimi sette anni.

Questa richiesta è stata accompagnata da una inchiesta fatta tra i membri dell’Istituto e i formatori, in modo particolare, sulla situazione della formazione nell’Istituto. Le risposte sono state raccolte dal Segretariato della Formazione e dalla Commissione Pre-capitolare e messe a disposizione dei membri della Direzione Generale e del Capitolo Generale, in forma scritta (se presume che per mancanza di tempo non sia stato possibile fare una lettura approfondita delle risposte a questa inchiesta, da presentare ai membri dell’Istituto prima del Capitolo).

La Relazione del Consiglio Generale al XIX Capitolo Generale, ai numeri 97-119, presenta lo status quo della formazione nell’Istituto Comboniano. Sia la relazione del Consiglio Generale che quella del Segretariato Generale della Formazione sono state articolate sul (doveroso) resoconto (ai capitolari) dell’implementazione degli orientamenti e decisioni del Capitolo generale precedente e dell’andamento dell’ambito formativo nel corso del sessennio. Ma non hanno individuato e isolato le questioni da rivedere e i nodi da sciogliere nel campo della formazione, né hanno affrontato la questione di fondo del modello (o degli eventuali modelli) di formazione nell’Istituto.

Riguardo alla situazione vocazionale nell’Istituto, la relazione del Consiglio Generale assume il concetto della “rotazione della geografia vocazionale, dall’Europa alle Americhe e, adesso, dalle Americhe all’Africa” (come se lo Spirito avesse disertato l’Europa e le Americhe per ragioni sconosciute). E riguardo alla formazione, cioè, l’iniziazione dei candidati alla vita missionaria comboniana, la relazione assume la prospettiva di una formazione “fondata sui valori e sulla crescita personale (nº 98)”, identificando problemi come “la lunga durata del percorso formativo comboniano (101), l’insufficienza del numero dei centri formativi (99), le difficoltà della preparazione dei formatori (100), l’assegnazione degli scolastici e del servizio missionario (101 e 103), e la situazione della vocazione e formazione dei fratelli nell’Istituto e nella Chiesa oggi (104 e seguenti)[12].

Allo stesso modo, gli Atti del XIX Capitolo Generale non trattano la questione del modello di formazione versus modello di missione, ma richiamano alcuni desiderata che vanno in questo senso: “dedicare un anno di riflessione sulla missione dell’Istituto” (25.1) avere “un anno di riflessione sull’identità missionaria comboniana (Prima priorità sulla Spiritualità); “fare in modo che le nostre case formative siano più legate alla nostra realtà missionaria” (24.4); “fare in modo che il Modello Educativo dell’Integrazione sia valorizzato nelle nostre strutture formative e che i formatori siano aiutati nella sua implementazione”.

Su altri due aspetti è possibile vedere questa approssimazione formazione-missione. Primo, la decisione di lasciare al Consiglio Generale l’apertura di un altro scolasticato e di “piccole presenze formative per gli scolastici” (26.6). Secondo, il la messa in discussione dell’esperienza formativa che va sotto il nome di “servizio missionario” (l’esperienza formativa che più avvicina il modello formativo alla missione) anche se, in questo, il XIX Capitolo Generale rimane ambiguo e rimanda la decisione (ancora) al futuro: “il Capitolo ha tenuto conto di tutto il percorso di valutazione già in corso da alcuni anni e ha ascoltato con gratitudine le esperienze belle e i punti di vista che parlano del ‘servizio missionario’ vissuto come un’esperienza positiva (26.7.1); ma “il Capitolo ha ascoltato anche le narrative e i punti di vista che esprimono disagio su questa esperienza formativa e conclude che i tempi non sono ancora maturi per arrivare a decisioni definitive in questo campo. Si decide di continuare con il servizio missionario, anche se va ulteriormente verificato e, se necessario, migliorato” (26.7.4). E, invece di discernere e dirimere la questione, “il Capitolo chiede al Consiglio Generale di continuare, dentro il processo già iniziato di verifica della formazione, il cammino di valutazione del ‘Servizio Missionario’ in vista della prossima Assemblea Intercapitolare, se necessario istituendo una commissione ad hoc” (26.7.5)[13].

9. Alcune conclusioni

Avviandoci alla conclusione della nostra ricerca, evidenziamo alcuni aspetti che possono illuminare la ricerca della sintonia tra modello di formazione e modello di missione, la questione da cui siamo partiti, cercando risposte che ci aiutino oggi nella costruzione del modello di formazione.

Primo punto, la scelta di un modello di missione non è solo una scelta personale, di ideale e di mistica dell’individuo. Papa Francesco sembra suggerire che essa può risultare solo da un confronto del carisma fondazionale con l’oggi della Chiesa e della missione e che è compito di tutto l’Istituto e di ogni Istituto[14].

Secondo, la scelta di un modello di missione implica una teologia, una spiritualità e una metodologia condivise; implica, di conseguenza, la costruzione di strutture e di metodologie missionarie, l’elaborazione di percorsi formativi e d’iniziazione al carisma e al modello (o modelli) di missione che si vuole incarnare oggi. È un processo che bisogna avviare, nei luoghi in cui ci è concesso vivere, e che richiede il suo tempo.

Terzo, e alla luce di quanto abbiamo visto sopra sulla diversità dei modelli di missione e la presente perplessità, appare evidente che la “luce rossa” che si accende nei nostri Capitoli generali si spegnerà solo quando l’Istituto farà il suo discernimento sul modello (o modelli) di missione da abbracciare, secondo le persone che siamo, le forze e i mezzi concreti di cui disponiamo. L’impostazione con cui partiamo abitualmente, anche nei Capitoli, va così capovolta (niente di sorprendente, se guardiamo alla nostra storia!): è il modello (modelli) di missione prevalente tra noi che occorre verificare, prima, per illuminare, poi, il modello di formazione. Questa verifica è doverosa, perché oltre alla formazione, c’è in causa la fecondità del carisma fondazionale. L’incapacità, che sperimentiamo attualmente (come Istituto e in comune con gli altri istituti missionari), di condividere la vocazione missionaria con una nuova generazione di cristiani e di radicare il carisma missionario nelle Chiese locali, specialmente in Europa e nelle Americhe, è la vera luce rossa che chiede una verifica del modello di missione, per poi chiarire quello della formazione.

La situazione degli istituti missionari nelle Chiese locali dell’Africa, più rassicurante e fonte di speranza per il futuro immediato, non dovrebbe illuderci o distrarci da questa sfida. La questione del discernimento sul modello (modelli) di missione da abbracciare in ogni epoca, secondo la propria tradizione carismatica, è vitale per salvare l’identità carismatica degli istituti missionari e arginare il sempre possibile insabbiamento del carisma missionario nelle acque stagnanti della palude ecclesiale, o nelle acque travolte dal caos interpretativo in cui versiamo oggi (con la riduzione degli istituti missionari a semplici congregazioni religiose).

P. Manuel Augusto Lopes Ferreira, mccj
Roma, 14 settembre 2022
Festa dell’Esaltazione della Santa Croce

 

[1] Vedere AVERY DULLES, “L’Uso dei Modelli in Ecclesiologia”, in Modelli di Chiesa, Edizioni Messaggero, Padova 2005.

[2] La svolta della formazione è stata consacrata nell’attuale Regola di Vita, Parte Terza, Sezione Terza, Formazione di base e permanente, numeri 80-101, pagine 94-112, edizione italiana. Giustamente, la formazione viene collocata dopo la Parte Prima, sul Fondatore e il carisma fondazionale, e dopo la Parte Seconda, sull’Istituto come “Comunione di fratelli consacrati al servizio missionario”, nella Parte Terza dedicata al “Servizio Missionario dell’Istituto”. In questa parte, la Formazione appare dopo la sezione dedicata all’Evangelizzazione e dopo quella dedicata all’Animazione Missionaria (le due modalità del servizio missionario, come allora percepito). Una collocazione che sta ad indicare come, sia il carisma fondazionale che la missione, debbano illuminare la formazione.

Questa riforma è approdata alla Ratio Fundamentalis: l’ultima edizione aggiornata è del 2015. Protagonisti di questa svolta sono stati i capitolari del Capitolo Generale del 1969 e i Segretari Generali della Formazione che sono seguiti; ci sia permesso ricordarne due: P. Fernando Colombo e P. Manuel Ferreira Horta.

[3] Vedere Atti Capitolari del 1991 (terza pista: Formazione di base e permanente); Atti Capitolari del 1997 (tra le priorità, 3 s’impongono per il prossimo sessennio: la preparazione dei formatori, l’impegno per la prima evangelizzazione, la cura e la programmazione della formazione iniziale); Atti Capitolari del 2003 (il capitolo III, sulla Formazione, pagine 29-36, in particolare la parte II); Atti Capitolari del 2009 (pagine 45-55 sulla Formazione); Atti Capitolari del 2015 (numeri 51-53).

[4] Regole dell’Istituto delle Missioni per la Nigrizia, Testo del 1871, cap. 1.

[5] Regole dell’Istituto delle Missioni per la Nigrizia, Testo del 1871, Prefazione.

[6] Vedere le ricerche (apparse su Archivio Comboniano LII del 2022) di Danilo Castello (Giuseppe Sembianti, Un profilo oltre gli stereotipi) e di Benedetto Giupponi (Indicazioni per la formazione dei candidati). Vedere anche la ricerca di Tomás Herreros (Dialogos con el Padre Giuseppe Sembianti, in comboni.org).

[7] Per l’approfondimento di questa situazione vedere: L’Eredità del Comboni - Storia dell’Istituto dal 1881 al 1937, manoscritto di P. Vittorino Dellagiacoma, ACR.

[8] V. Dellagiacoma, op. cit., p. 3.

[9] [9] V. Dellagiacoma, op. cit., p. 12.

[10] Atti Capitolari del 2015 (numeri 51-53).

[11] In particolare, nei seguenti documenti: Evangelii Gaudium, Laudato Si’, Querida Amazonia e Fratelli Tutti.

[12] I numeri si riferiscono a Radicati in Cristo, Relazione del CG al XIX Capitolo Generale.

[13] I numeri si riferiscono agli Atti Capitolari del XIX Capitolo Generale (ed. provvisoria, distribuita il 1.09.2022).

[14] Papa Francesco, Udienza ai partecipanti all’Incontro con i moderatori delle associazioni di fedeli, dei movimenti ecclesiali e delle nuove comunità, 16.09.2021.