Venerdì 4 luglio 2025
A oltre due anni dall’inizio del conflitto in Sudan tra l’esercito regolare del generale al-Burhan e le forze paramilitari Rsf guidate da Hemetti, il Paese è allo stremo. Non ci sono negoziati in corso, né tentativi seri di mediazione. Il Darfur è sotto assedio, Khartoum è una città fantasma, metà della popolazione rischia la fame e milioni sono sfollati. [Nella foto: Khartoum, Sudan. Foto: Diego Dalle Carbonare. SIR
“È in corso una frattura profonda, e il rischio è la divisione permanente del Paese. Le prospettive di pace sono lontane”. Non ci sono ancora prospettive di dialogo né di pace per il conflitto in Sudan iniziato nell’aprile 2023. Anzi, tutti i segnali indicano che si sta andando sempre di più verso una divisione del Paese tra i due contendenti: l’esercito governativo (Saf) guidato da Abdel Fattah al-Burhan e il suo ex vice Mohamed Hamdan Dagalo (detto “Hemetti”), capo dei paramilitari delle Rapid support forces (Rsf), eredi delle milizie janjaweed note per la ferocia durante la precedente guerra del Darfur.
L’esercito ha ripreso la capitale Khartoum e Wad Madani e controlla l’est e il nord. Le Rsf controllano quasi tutta la regione occidentale del Darfur, il Kordofan e i Monti Nuba. Il conflitto è arrivato infatti anche nei Monti Nuba, in particolare a Kadugli, il centro principale, ora molto instabile. È di questi giorni l’annuncio che Rsf e Spla-North hanno creato un loro governo chiamato “Tasis” (“fondazione”). Il presidente è Hemetti, il vicepresidente Abdul Aziz Adam Al-Hilu, capo dei ribelli dei monti Nuba (Spla-Nord).
L’esercito ha accettato una tregua di sette giorni richiesta giorni fa dall’Onu a El Fasher, ma le Rsf hanno rifiutato. Perché di fatto ad El-Fasher, in Darfur, stanno vincendo. Le agenzie Onu parlano di metà della popolazione – tra i 20 e i 25 milioni di persone – a rischio fame. In questi ultimi giorni, secondo l’organizzazione medica indipendente Sudan Doctors Network in Darfur sono morti 239 bambini per malnutrizione. Le stime indicano che circa 10,7 milioni di persone attualmente sfollate all’interno del Sudan, e oltre 2,1 milioni hanno cercato rifugio nei Paesi vicini.
La situazione è molto complicata. Non ci sono negoziati in corso, né tentativi seri di mediazione. L’ultimo era stato quello di Erdogan ma non ha portato risultati. Entrambe le parti vogliono la distruzione totale dell’altra. Tutto quello che sta accadendo indica che non si è sulla strada del dialogo, ma piuttosto su quella della divisione del Paese. Il Darfur e Kordofan – cioè El Obeid e i Monti Nuba – rappresentano metà del Paese.
“Temo che lì il conflitto andrà avanti ancora a lungo”. A parlare al Sir da Port Sudan è padre Diego Dalle Carbonare, provinciale dei Comboniani in Sudan. Il missionario ci vive da una decina d’anni e coordina i dieci comboniani rimasti nel Paese.
La vita a Port Sudan. Da quando è iniziato il conflitto, come tutte le organizzazioni umanitarie che ricevono aiuti via mare, la sua comunità si è spostata da Khartoum a Port Sudan, dove gestisce parrocchie, scuole, educazione. Hanno anche aperto una sede distaccata dell’università. Due religiose comboniane sono tornate recentemente a Kosti e stanno esplorando modi per rientrare in servizio. “Noi operiamo solo in zone dove c’è un minimo di stabilità e dove non ci sono scontri in corso”, precisa. Con il conflitto “ci troviamo anche davanti a emergenze quotidiane: rifugiati, gente senza casa, senza lavoro, senza medicine. Aiutiamo come possiamo, caso per caso”.
Nel Paese l’inflazione è altissima, il costo della vita è alle stelle. Il sistema educativo è in crisi, quello sanitario è collassato. Il 75% dei medici del Paese era a Khartoum, che ora è un campo di battaglia. “Molti ospedali sono chiusi, e tantissimi medici hanno lasciato il paese – spiega – Anche qui a Port Sudan è difficile trovare personale qualificato”.
Perfino Port Sudan è stata recentemente toccata dal conflitto, ma non come Khartoum, El Obeid e altre città, dove i paramilitari giravano per le strade, entrando casa per casa. “Nella prima metà di giugno anche qui abbiamo avuto attacchi tutte le notti, per due settimane – racconta -. Erano attacchi chirurgici, miravano a postazioni militari e governative. Per fortuna non ci sono stati morti tra i civili. Certo, sentire spari la notte non è una bella esperienza, però la vita in città è andata avanti. Le scuole hanno chiuso tre o quattro giorni, poi hanno riaperto. Ora gli attacchi continuano in modo molto sporadico. Ogni tanto si sentono spari notturni ed esplosioni, non è chiaro se siano droni che colpiscono o l’antiaerea che li intercetta. Per fortuna finora non hanno colpito civili né causato distruzioni”.
Khartoum è una città fantasma. La capitale Khartoum, invece, è tornata quasi completamente sotto il controllo dell’esercito. I comboniani sono andati poche settimane fa a verificare la situazione delle missioni abbandonate due anni fa. Hanno dovuto vaccinarsi contro il colera, che si era diffuso in città. “Ci sono ancora zone calde con scontri sporadici, ma molto limitati. Al centro si può andare ma la città è deserta – riferisce padre Dalle Carbonare –. È una città fantasma. Fa paura. Non c’è davvero anima viva”.
Gli sfollati non sono rientrati. Stanno tornando invece nelle periferie, ad Omdurman e Khartoum Nord. “Chi ha case o proprietà torna per sistemare, riparare. Ma nel centro città è ancora troppo presto. I paramilitari hanno devastato l’infrastruttura elettrica: hanno sventrato cavi, pali, rubato rame e ferro ovunque. Ci vorranno anni per ripristinare l’elettricità. E senza corrente non c’è acqua, non funziona niente. I cellulari funzionano solo dove ci sono generatori o un minimo di copertura”.
Il Darfur, soprattutto la città di El-Fasher, è in una situazione disperata. El-Fasher è sotto assedio delle Rsf praticamente dall’inizio della guerra. Due settimane fa è morto un prete diocesano di origine sudsudanese: “Un razzo ha centrato quel poco che rimaneva in piedi della sua casa, colpita più volte negli ultimi mesi. Era in trappola da mesi, non poteva uscire, perché la città è completamente circondata dalle Rsf”.
Intanto gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni per l’uso presunto di armi chimiche e biologiche contro i civili da parte dell’esercito sudanese. Le sanzioni prevedono anche il blocco quasi totale dell’assistenza statunitense al Sudan, salvo gli aiuti umanitari d’emergenza, valutati caso per caso. “Gli aiuti umanitari arrivano già col contagocce”. Tra le misure statunitensi c’è il divieto assoluto di vendita e finanziamento di materiale militare. Una posizione che non è ancora chiara, anche perché l’esercito sudanese prende le armi dalla Turchia e dall’Iran. Il conflitto in Sudan ha anche una dimensione regionale e vede contrapposti Emirati Arabi e Arabia Saudita. Difficile che gli Stati Uniti si schierino apertamente contro gli Emirati Arabi.
La motivazione economica del conflitto è il controllo di oro, minerali e terre rare. La produzione di oro – tutta illegale e contrabbandata – è aumentata moltissimo dall’inizio della guerra. Sono miniere rudimentali, gallerie scavate a mano dove gli uomini entrano e spesso non escono più. Pochi giorni fa è anche crollata una miniera ad Atbara, in una zona controllata dall’esercito, si parla probabilmente di 50 morti.
Patrizia Caiffa – SIR