In Pace Christi

Bianchi Eugenio Augusto

Bianchi Eugenio Augusto
Date de naissance : 26/01/1922
Lieu de naissance : Arolo (VA)/I
Premiers vœux : 07/10/1941
Vœux perpétuels : 07/10/1945
Date de l’ordination : 07/07/1946
Date du décès : 30/10/2001
Lieu du décès : Verona/I

P. Eugenio Augusto Bianchi è morto in Casa Madre. Da anni portava avanti un male incurabile che, a detta dei medici, avrebbe dovuto essergli fatale tanto tempo prima. Ma il nostro Padre era temprato alla sofferenza: fin dagli anni giovanili aveva assaporato in tutta la sua amarezza la “sapienza della croce”.

Il papà, che si chiamava Arturo, era il sarto e il parrucchiere del paese. La morte lo colse all’età di 47 anni (nel 1940) lasciando tre orfani, di cui Eugenio era il primo, e la moglie -Margherita Marchetti - una donna provata dall’artrosi deformante che l’ha tormentata per tutta la vita. E’ morta all’età di 64 anni. La malattia l’ha condizionata, tuttavia non le ha impedito di crescere nel modo migliore la famigliola. In questo clima il nostro Eugenio ha trascorso gli anni della sua infanzia e dell’adolescenza. Il suo vero nome era quello di Augusto. Ai Voti ha voluto assumere anche quello di Eugenio per la devozione che aveva per il papa Eugenio Pacelli.

Da ragazzino, assicura il fratello, Eugenio era molto timido. Questa timidezza, tuttavia, era bilanciata dall’estrema esuberanza di un cugino, Celso Contini, con il quale Eugenio andava molto d’accordo. Amava tantissimo la natura e aveva spiccata passione per la pesca (il suo paese è sul Lago Maggiore) e i funghi di cui nel giro di pochissimo tempo divenne grande intenditore. Augusto si distingueva dagli altri fratelli per la sua estrema sensibilità. Un giorno, avendo catturato un nido di uccelli, si commosse fino alle lacrime, pentendosi di ciò che aveva fatto. Era rispettoso della regole all’eccesso ed era sempre pronto a pensare prima di ogni altra cosa al bene degli altri. Passò in questa rettitudine i primi anni della sua infanzia, frequentando la parrocchia e servendo con devozione la santa Messa”.

Il parroco, don Battista Merzagora, un santo sacerdote, aveva visto che nei due zelanti chierichetti c’era la stoffa del prete. E cominciò a parlare di seminario. Eugenio ne rimase affascinato e non vedeva l’ora di partire. I genitori, però, non erano della stessa idea, pur essendo cattolici praticanti e di elevata integrità morale. Nel negozio del papà, per esempio, non si potevano sentire bestemmie e nemmeno parolacce o discorsi meno corretti. La loro opposizione alla vocazione del figlio derivava dal fatto che stentavano a staccarsi da un bambino così piccolo e gracile. Pensavano che non ce l’avrebbe fatta ad affrontare i disagi del seminario. E poi c’era anche la retta del seminario che pesava sulle magre finanze familiari. Il ragazzino, allora, cominciò a non mangiar più, a rinunciare a qualsiasi dolce, a fare sacrifici volontari per strappare quel permesso. E aveva nove anni. Se è vero che la voce di Dio si fa sentire fin dal seno materno, è proprio il caso di dire che per Eugenio fu proprio così.

Presagendo la prossima fine, il papà rivide totalmente il suo giudizio critico sulla vocazione del figlio ed espresse nel suo testamento la gioia di avere un figlio incamminato verso la via del sacerdozio e del sacerdozio missionario (quando il papà morì Eugenio frequentava il primo anno di noviziato).

Seminarista a Seveso e a Venegono Inferiore

Dopo le elementari, Eugenio e il cugino Celso entrarono nel seminario minore diocesano di San Pietro a Seveso. Nel 1933 venne costruito il grande seminario maggiore di Venegono Inferiore e nel 1935 Eugenio, sempre col cugino, vi si recò per il liceo. Qui, ad un certo punto le loro vie si divisero. Eugenio diventerà missionario mentre l’altro fu sacerdote diocesano e poi parroco. Nel 1938 Eugenio superò gli esami di quinta ginnasio presso il “Regio liceo-ginnasio Cairoli di Varese” con buoni voti e poi si iscrisse al liceo presso in Seminario Arcivescovile di Milano, con sede a Venegono Inferiore.

Nella cartella di p. Eugenio c’è la storia della sua vocazione. In una lettera del 25 marzo 1939 “Annunciazione della Vergine”, rivolgendosi a p. Todesco, maestro dei novizi a Venegono Superiore, così si esprime: “Dopo aver molto pregato e fatto pregare, ecco che le invio questo povero mio scritto. Africa! questo dolce sogno, eppure vivente in me, quando potrà realizzarsi? Africa! questo nome maestoso e semplice nello stesso tempo, sembra mi sorrida davanti agli occhi. Africa! questo nome equivale per me ‘salvare anime’. Ecco il movente che mi spinge laggiù e che ora sento più intimamente nel mio povero cuore.

1° Diventare missionario solo perché Dio lo vuole.

2° Poter salvare l’anima mia.

3° E salvare tante anime che ancora non conoscono Gesù e che hanno il diritto di essere soccorse.

Verrà il beato giorno in cui anch’io potrò realizzare il sogno di Mons. Comboni: ‘Solcare i mari, salvare un’anima e poi morire’? Morire dopo aver battezzato anche un’anima sola, dopo aver assistito alla morte di un lebbroso e di aver preparato il terreno a qualche altro missionario. Quella nave che si protende verso l’Africa è già pronta. Manca solo un soffio divino che rompa quella corda che la tiene legata alla terra. E se poi mi richiamano in patria? Sia fatta la divina volontà! Preparerò altri giovani ad andare in questa terra. L’apostolato, del resto, non comincia in missione, ma comincia adesso, qui. E’ ciò che faccio ogni giorno: ‘Signore, questo sacrificio, questa preghiera, te la offro volentieri perché qualche missionario possa giungere in tempo a salvare qualche anima agonizzante, qualche anima indurita nel peccato, e qualche fanciullo sperduto. Signore, ti offro il mio cibo perché tu possa portarlo a qualche missionario che non ne ha’.

Se il Signore poi mi darà la grazia di morire martire d’amore, consumato d’amore, pazzo d’amore per lui, oh! sia grandemente ringraziato. Mi pare che il Signore mi ripeta: ‘Va’, Augusto, va’ laggiù, ti attendono anime. Se non vai avrai una grande responsabilità davanti a Dio. Salvare un’anima vale bene qualche sacrificio, anche quello della vita’.

Caro Padre, ho fatto in questi giorni il mio esame di vocazione. P. Motta mi ha detto che la vocazione missionaria c’è. Le ho scritto proprio in questo giorno sacro alla Madonna per essere da Lei illuminato nello scrivere. Ella, la mia cara Mamma, tanto mi ama, ed io tanto la amo. Se non le avessi scritto non sarei stato contento. Ora sono contento. Grazie delle sue preghiere e di quelle dei cari compagni che saluto tanto fraternamente. Da parte mia la ricordo al Signore. Mi creda sempre suo aff.mo in Cristo sem. Augusto Eugenio Bianchi”.

In questo scritto il nostro fervoroso seminarista ha fatto due profezie che si sono avverate: è stato formatore di vocazioni missionarie ed è morto con un martirio d’amore.

Novizio

In data 22 aprile 1939 suo papà scrisse il consenso: “…Sento bene che la tua vocazione è essere missionario. Pensa bene a ciò che fai. Io non sono troppo contento. Non avrei mai pensato che tu avessi questa idea di andare tanto lontano dai tuoi genitori e fratelli, ma pazienza. Mentre scrivo mi lacrimano gli occhi, ma fai pure come credi e che Dio ti benedica. Io desidero che il tuo cuore sia in pace. Prega tanto per i fratelli, per la mamma e anche per me. Tuo padre”.

Seguono altre lettere, altrettanto toccanti, che meriterebbero di essere riportate per constatare la spiritualità e la maturità di Eugenio fin dagli anni della giovinezza. Da esse si può anche notare che aveva una conoscenza personale con p. Todesco. Certamente, da Venegono Inferiore sarà andato più di una volta a visitare i novizi  comboniani.

Il 28 agosto 1939 entrò nel noviziato. Il maestro dei novizi lo trovò “di assai buono spirito e mosso da retta intenzione, generoso, semplice e convinto, amante delle Regole, della vocazione e della preghiera. Intelligente e di criterio, ma timido, quasi pauroso e delicato”.

P. Luigi Parisi, suo compagno di noviziato ha detto: “Con p. Eugenio i nostri discorsi erano sempre sulla missione: come sarà, come la avremmo affrontata. E già pregustavamo la gioia dell’evangelizzazione e dei gruppi di africani che chiedevano di diventare cristiani. Questi erano i nostri discorsi”.

Emessi i Voti nel 1941, passò a Verona per concludere il liceo. Quando si trattava di affrontare la teologia, nel 1943, passò a Rebbio essendo la Casa Madre occupata, in parte, dai tedeschi e soggetta ai bombardamenti americani. Ciò non gli impedì di acquisire, il primo luglio 1943, l’Attestato di Infermiere e di Aiutante di Sanità nel Reale esercito italiano.

A Rebbio Eugenio ebbe la visita della mamma che si presentò tutta ingessata poiché proveniva dall’ospedale di Cantù, dove si trovava per cure. Il fratello di p. Eugenio ricorda un particolare curioso: in occasione della visita della mamma, il superiore fece mettere in tavola anche un bicchiere di vino per tutti, e tutti furono riconoscenti alla donna che, per merito suo, avevano potuto assaggiare una sorsata di vino dopo tanto tempo da che andavano solo ad acqua. Eugenio commentò: “Sarà un anno che non vediamo più un goccio di vino, eccetto quello dell’ampollina per la messa”.

Terminata la guerra nel 1945, gli scolastici fecero ritorno a Verona per l’ultimo anno di teologia. Per i Voti perpetui in vista del sacerdozio, p. Agostino Capovilla scrisse: “E’ un giovane di pietà assai distinta, di costumi illibati, docile, di criterio e discreto. Ha buone capacità coadiuvate da grande diligenza. Ha volontà sincera di diventare sacerdote e vi accede liberamente. E’ consapevole degli obblighi che si assume ed è disposto ad osservarli fino alla morte. I Padri suoi insegnanti, insieme al sottoscritto, ritengono che possa essere ammesso all’ordine del presbiterato”.

Sacerdote e direttore di spirito

Il 7 luglio del 1946 venne ordinato sacerdote da mons. Girolamo Cardinale, vescovo di Verona. Uomo sempre gracile e malaticcio, ha avuto la grazia di celebrare il 55° di sacerdozio. Nessuno lo avrebbe detto a quel tempo.

Trascorse i primi anni di sacerdozio a Troia, ad Arco, a Firenze e a Lucca, come reclutatore e direttore spirituale dei seminaristi. Stupisce constatare che un sacerdote novello venga incaricato della direzione spirituale dei seminaristi e poi dei liceali. Se i superiori hanno creduto bene di fare questo, significa che p. Eugenio era veramente un uomo di Dio, di esperienza nonostante la sua giovane età e capace di plasmare le anime dei giovani. Ciò è comprovato dalle testimonianze dei superiori del tempo che scrivono: “Fa con impegno ed amore il suo ufficio nel quale riesce bene, nonostante le notevoli difficoltà che incontra”. (P. Corbelli, Troia 1950). “Pieno di zelo, spirito di sacrificio, pietà sentita e spontanea. Fidato, fedele ed edificante” (P. Ceccarini, Troia 1952).

Nel 1961 fu inviato a Corella, in Spagna, come promotore vocazionale e poi a Moncada come padre spirituale, e vi rimase fino al 1965. Trascorse poi un anno a San Sebastian come addetto alla redazione della rivista Aguiluchos. Solo nel 1968 poté salpare per il Messico. Fu parroco a San José del Cabo in Bassa California (1968-1980), parroco di Montezuma e come formatore nel postulandato. Vi rimase fino al 1986, compresi un paio d’anni di permanenza in Italia per il Corso e le vacanze.

Una visita illustre

Un giorno del 1968, l’onorevole Fanfani andò a visitare la Bassa California. Invitato a fare un giro in battello nel golfo, disse che non si sentiva troppo in forma e mandò la moglie. Egli s’intrattenne con p. Eugenio per parecchio tempo parlandogli dell’Italia, ma soprattutto interessandosi della vita dei missionari e della loro attività di evangelizzazione.

Scrivendo da San José del Cabo nel 1971 a p. Agostoni, suo compagno di messa e superiore generale, ricordò il 25° di Messa e alcune belle iniziative che avevano fatto per quella circostanza e poi aggiunse: “Sono contento e sto bene fisicamente e moralmente, anche se il terreno è duro per la caratteristica freddezza della gente. Ricordo con piacere la tua venuta tra noi, e anche di p. Fornasari; sono un aiuto molto grande che ci date con la vostra presenza, consigli e maniera di vedere le cose”.

Quando era in Bassa California con 40 gradi di calore, per consolarsi scrisse ai suoi fratelli: “Quando il caldo è opprimente, io chiudo gli occhi e penso a quel piccolo lembo di terra che si chiama Arolo, tra il lago e la collina”.

Costruì la chiesa dopo anni di lavoro perché allora mancavano i mezzi. Un tornado venne e gli portò via tutto. P. Eugenio cercò di attaccarsi per sorreggere ciò che crollava, ma minuscolo com’era, rischiò di volar via lui stesso.

Più che dai tornadi e dai terremoti, la sua incolumità fu messa a rischio dalla cattiveria dei massoni che “facevano il brutto e il bel tempo” e mal digerivano l’azione dei missionari. P. Corsini, come sappiamo, ci lasciò la vita per il troppo zelo. P. Eugenio, invece, continuò il suo ministero con soavità, dolcezza e fedeltà all’insegnamento del Vangelo per cui poté rimanere nella sua missione praticamente per 12 anni.

Apostolo nell’America Centrale

Nel 1987 lo troviamo a San José di Costarica come superiore e formatore dei postulanti comboniani. “Siamo arrivati a 14 giovani fino a questo momento – scriveva l’11 marzo 1987 – possiamo tuttavia pensare che in agosto potrebbero entrare sei studenti e altri tre o quattro fratelli. Si è fatto un programma per estendere il reclutamento ai collegi i cui alunni sono più preparati e più aperti”.

Il suo lavoro fu benedetto da Dio se, l’anno dopo, ben nove di quei giovani poterono emettere la professione religiosa come missionari comboniani. “I postulanti sono 27: 19 studenti e 8 fratelli. Aspettiamo i permessi per un’apertura in Guatemala e San Salvador per approfittare della situazione favorevole da un punto di vista vocazionale”, scriveva ancora al superiore generale.

Nei suoi giovani infuse una sentita devozione a Comboni, devozione vissuta da lui al massimo grado, anche perché pensava che fosse proprio il Fondatore a regolare l’andamento della sua malattia che realizzava ciò che dice San Paolo: “Moriamo ogni giorno e siamo sempre vivi”. A questo proposito portiamo la testimonianza di un giovane costaricano. La prendiamo da Combomex:

“Comboni non permetterà che piova”

“Io non sono mai vissuto in comunità con p. Eugenio, ma ho potuto incontrarmi con lui in due occasioni. La prima fu in occasione dell’ordinazione sacerdotale di p. Victor Aguilar al suo paese Tierra Blanca de Cartago, in Costarica. P. Eugenio, che era mio padre formatore, mi chiese di andare con lui in macchina. Mentre andavamo, io gli facevo domande circa la sua salute. Egli mi rispose:

‘Comboni non permetterà ancora che io muoia’. Mi fece molta impressione la maniera con cui pronunciava queste parole. Noi sapevamo che lui era molto devoto del beato Comboni.

Quando stavamo per arrivare al luogo dell’ordinazione, la sposa dell’autista fece notare che il cielo era molto nuvoloso e che certamente il tempo non sarebbe stato favorevole allo svolgimento della cerimonia dell’ordinazione che era stata programmata all’aperto. Ciò che mi impressionò fu la risposta immediata di p. Eugenio che con tanta sicurezza disse:

‘Comboni non permetterà che piova’. E infatti così fu. Qualunque persona avrebbe potuto pronunciare questa frase sperando che le cose andassero per il meglio, ma ciò che mi impressionò fu la sicurezza assoluta e la convinzione con cui si espresse il Padre.

Quello stesso giorno, ho potuto constatare il grande affetto che la gente nutriva per lui. Dovetti darmi da fare una buona ora per tirarlo fuori dal salone dove si stava facendo il ricevimento perché tutti volevano salutarlo, toccarlo, abbracciarlo. Ed egli era con tutti attento e sorridente. Io ogni tanto gli suggerivo che si stava facendo tardi per il nostro ritorno, ma lui non mi faceva caso. Mentre lo accompagnavo verso la macchina, la gente lo seguiva ancora e voleva salutarlo.

Una seconda esperienza che ebbi di lui fu durante l’ultima assemblea della Delegazione dell’America Centrale, tenutasi nella casa del postulato di Sao José (capitale di Costarica). Io volli approfittare dell’occasione per confessarmi da lui e gli domandai ancora come andava la salute. Mi rispose:

‘Comboni trattiene ancora la metastasi del cancro’. Io restai molto impressionato: mi edificava sentire queste parole piene di una fede pura e di una totale fiducia nell’intercessione del beato Comboni.

Le altre volte che ebbi l’occasione di vederlo, notavo ciò che notavano tutte le persone che lo avevano conosciuto: il suo costante sorriso e la sua vita di preghiera. La prova più grande della sua grande santità personale, era la serenità con cui viveva la realtà del suo grave stato di salute: sembrava che il malato fosse uno diverso da lui.

Vorrei terminare riportando la frase che mi riferì p. William Segura:

‘P. Eugenio è l’uomo più santo che io abbia conosciuto’. Questo è quanto posso e devo dire”. Henry Chacòn Bolanos, novizio comboniano di Costarica.

Nella missione di San Salvador

Nel 1993 i superiori chiesero a p. Eugenio di andare nella missione di San Salvador, sempre come vice parroco, reclutatore e animatore vocazionale. P. Eugenio lasciò tutto e partì, felice di servire il Signore e i fratelli dove l’obbedienza lo chiamava. Lavorò con dedizione ed entusiasmo, anche se la sua salute deperiva di mese in mese.

Alle parole dei confratelli di riguardarsi un po’, egli rispondeva che la nostra vita è nella mani di Dio: noi avremmo dovuto utilizzarla in pienezza per il suo Regno, Lui avrebbe fatto il resto.

Nell’aprile del 1995 giunse a Verona malato e spacciato dai medici. Vi rimase fino al settembre del 1996. Quindi ripartì per la missione del Salvador dove trascorse ancora quattro anni di vita missionaria che ricordava con tanto entusiasmo.

Quanto e come fece in questo periodo è descritto in una testimonianza rilasciata da p. Vincenzo Turri che è stato suo compagno e superiore. La riportiamo:

Il missionario che sorrideva sempre

“Il santo è il fiore fragrante di Dio sulla terra. I credenti sinceri ne respirano il profumo che penetra fin dentro al loro cuore e ispira loro il desiderio di Dio. Noi, che siamo vissuti con p. Eugenio o con lui ci siamo incontrati, abbiamo avvertito questa sensazione: attraverso la testimonianza della sua vita buona, abbiamo sentito il desiderio di essere migliori, veri cristiani, zelanti missionari.

Tra le tante cose buone che lui ci ha comunicato, certamente la più caratteristica era il suo sorriso. Sorrideva sempre. Quasi non lo possiamo immaginare senza quel suo sorriso che non era occasionale, ma un’attitudine spontanea e abituale che gli veniva dal suo cuore pieno di Dio.

All’inizio, quando non lo conoscevo bene, avevo il sospetto che p. Eugenio fosse un poco ingenuo. Infatti devo confessare che non lo lasciavo volentieri in casa da solo perché mi immaginavo che se qualche persona avesse voluto entrare con cattive intenzioni, lui ingenuamente, con quella sua carità accogliente e quel suo sorriso abituale incapace di sospettare le cattive intenzioni, lo avrebbe fatto entrare e accomodare e gli avrebbe messo a disposizione tutta la casa.

Poi mi convinsi del contrario. E dovetti riconoscere che non avevo conosciuto nessuno più capace di lui nell’affrontare le persone malintenzionate e ricondurle al Signore. E sempre con l’unica forza che lui possedeva: il suo sorriso pieno di dolcezza.

Magrolino, fragile come se fosse di vetro molto fino, con un occhio solo – l’altro lo aveva perduto in un incidente in Bassa California – la colonna vertebrale tutta storta, i polmoni completamente fuori servizio per un tumore che si portava addosso da tanti anni, respirando poco e tossendo sempre, mangiando niente… il povero Eugenio sembrava un rudere di persona destinato a vivere poco. Invece tirava avanti forte, e a chi lo teneva per mano per farlo camminare, trasmetteva una energia insospettata che faceva bene e edificava.

Così aveva costruito poco a poco la sua santità, accettando gioiosamente i suoi limiti. Una santità fatta di piccoli e immensi dolori, di piccoli e ineffabili gaudi del Dio della beatitudine”.

Il suo amore alla preghiera

“La nostra chiesa parrocchiale di Cuscatoncingo, in San Salvador, lo ha visto durante molte ore seduto nei banchi assorto in orazione, con in mano un’immagine della Madonna che conservava gelosamente in un libriccino che usava tutti i giorni per la sua meditazione. Quel libriccino era La regola di Vita dei missionari comboniani.

Pregava molto, però non era un bigotto. Pregava discretamente per non mettere in difficoltà nessuno. Pregava mentre andava a visitare gli ammalati, avventurandosi per strade scoscese e i sentieri impraticabili senza importargli del sole o della pioggia, preoccupato unicamente di dissimulare i suoi disagi e la sua sofferenza che era tanta. Pregava gioiosamente con la gente nelle loro povere case: E con loro non aveva mai fretta.

I suoi ammalati lo aspettavano come si aspettano i santi: con le porte aperte e il cuore in festa.

P. Eugenio diventava particolarmente felice quando venivano a prenderlo per portarlo a predicare, a celebrare la messa nei ritiri spirituali, a confessare i moribondi negli ospedali, per essere presente nelle riunioni del clero, per dare lezioni di spiritualità in un noviziato di suore. Per queste cose era sempre disponibile. Questi servizi lo facevano particolarmente felice perché si sentiva finalmente realizzato nella pienezza delle sue funzioni sacerdotali”.

L’ammalato che scherzava con i dottori

“Con un pizzico di buonumore si vantava di non aver mai dato piena soddisfazione ai dottori. Ed era vero. Un giorno nel Salvador un dottore, osservando bene la radiografia che gli aveva appena fatto, gli disse a bruciapelo:

‘Ma tu non hai neppure uno spazio sano nei tuoi polmoni. Non hai paura di morire?’

‘Se dovessi morire… meglio così’, rispose il padre.

Dopo due anni p. Eugenio si è “vendicato” del suo dottore molto solerte. Mi incaricò di mandargli a nome suo una bella cartolina di auguri.

Quando p. Eugenio faceva il suo calvario tra Verona e Bussolengo per oltre due anni, noi chiedevamo sempre sue notizie.

‘E’ l’ammalato più grave che abbiamo’, ci rispondevano tutte le volte.

Restammo sbalorditi il giorno in cui ci avvisarono che p. Eugenio ci stava aspettando all’aeroporto di San Salvador.

‘Sono tornato – ci disse raggiante di gioia. – I medici non sanno più cosa farsene di me e allora mi hanno dato il permesso di ritornare’. Poi ci spiegò che per una grazia speciale ottenuta per intercessione del beato Daniele Comboni, il giorno stesso della sua beatificazione il suo male si era fermato.

‘Avete visto che ce l’ho fatta in barba ai dottori’, ci disse con soddisfazione.

In un’altra occasione doveva essere operato di cataratta, ma non se la sentiva. Comunque, lo portai all’ospedale dove lo attendevano per l’intervento. Prima dell’operazione il chirurgo lo volle osservare meglio e poi decise di non fargli niente.

‘Ma tu te la puoi cavare con delle gocce’, gli disse.

‘Hai visto? – commentò trionfante il Padre – anche questa volta ce l’ho fatta’.

Negli ultimi giorni della sua vita l’ho visto ridotto a un niente, con tanti tubi nel naso, nella bocca e in tutto il corpo. Era pelle e ossa. Ora in quello sfacelo dove la sua umanità si vedeva così svalutata, quel suo sorriso appariva ancora di più come un’opera d’arte dello Spirito.

Abbiamo pregato insieme nella nostra lingua spagnola, ricordando tutti i confratelli e le persone care del Centroamerica. Ma il caro Eugenio non era più che una lampada vuota, tutta piena di vita eterna. Grazie p. Eugenio, anche a nome di tutti, per il bene che ci hai fatto con il tuo esempio, con la tua bontà” (P. Vincenzo Turri).

Al Centro Ammalati di Verona

Se pensiamo all’entusiasmo e alla gioia con cui ha vissuto la missione, possiamo dire che essa fu proprio quel banchetto di grasse vivande e di cibi prelibati di cui parla la Parola di Dio. E quando non ha più potuto esercitare la sua missionarietà con l’azione, lo ha fatto con la preghiera e con la sofferenza (che è stata tanta), ma sempre con uguale entusiasmo e sempre col sorriso. Davvero ha realizzato ciò che la Scrittura dice. “Dio ama chi dona allegramente”.

Nel maggio del 2000 p. Eugenio rientrò a Verona per trascorrere il suo tempo in cura al Centro Ammalati Fratel Angelo Viviani. Pur nella malattia che lo consumava poco a poco, si dimostrò una personalità molto ricca sia a livello umano come spirituale.

“Posso testimoniare – ha detto il superiore del Centro Ammalati – che mai sul suo volto è apparsa la paura o qualcosa di simile. Con la serenità e col sorriso ha affrontato gli ultimi giorni della malattia che lo ha distrutto. Aveva sempre parole di incoraggiamento e di conforto per gli altri. Chiedeva una cosa: statemi vicini; il mio spirito è forte, ma la carne…. Dopo aver ricevuto la Santa Unzione, ha commentato con la Ester, una volontaria del Centro: ‘Questo è il giorno più bello della vita perché ho ricevuto il perdono, perché ho sofferto più degli altri giorni’. Sembrava proprio di sentire le parole di Comboni pochi giorni prima di morire: ‘Io sono felice nella croce’.

Dio ha suscitato questa fortezza e questo spirito in p. Eugenio per portarlo a fare questa confessione, cioè essere più felice nel giorno in cui partecipava più intimamente alle sofferenze di Cristo per la salvezza sua e di tutti i fratelli.

Ha realizzato anche quel passo del Vangelo che dice: ‘Avevo fame e mi hai dato da mangiare, avevo sete e mi hai dato da bere…’. Cosa non ha fatto la sua carità in Messico e in America centrale! Ognuno poteva vedere in questa persona sorridente e accogliente, sempre disponibile verso tutti, che si interessa prima degli altri e poi d di se stesso, il volto di Cristo. E in lui si realizzò certamente la Parola di Dio che dice: ‘Vieni benedetto, entra nella gloria del tuo Signore’.

Il 13 ottobre ha celebrato la sua ultima messa in cappella, poi si è messo in stanza e p. Aldo Accorsi gli portava la santa comunione. Il 18 ha chiesto di confessarsi e poi la santa unzione. Ha voluto presente la comunità, anche le suore, i volontari e le volontarie.

Il 22 ha consegnato al superiore il quaderno delle intenzioni di messe: ‘Me ne mancano 5 – ha detto - celebrale tu’. Ha consegnato pure i pochi spiccioli che aveva nel cassetto: ‘Io vado incontro all’Amico’, ha concluso. E sottolineò quelle parole con il solito sorriso”.

Il 29 sera è entrato in coma e il 30, martedì, mentre fr. Franco suonava la campanella dell’inizio della giornata, egli ha iniziato il suo giorno eterno.

“Ieri abbiamo lodato e ringraziato il Signore per la festa di tutti i Santi; oggi continuiamo la nostra lode e il nostro ringraziamento per le meraviglie che ha operato nel nostro confratello p. Eugenio”, ha detto p. Lenzi al funerale in Casa Madre.

Ha amato il paese e la gente

“P. Eugenio – scrive il nipote Guido – ha amato all’eccesso la famiglia e il paese. I giorni della sua permanenza tra noi, erano splendidi. Tutti dimenticavano di colpo gli affanni e le preoccupazioni quotidiane trascorrendo con lui un po’ di tempo. La sua casa nativa diventava meta di visite di amici e parenti provenienti da ogni luogo. A tutti p. Eugenio raccontava le esperienze della sua missione e soprattutto aveva parole di conforto e di consolazione. Colpiva tutti con il suo spontaneo sorriso, con la sua instancabile allegria, ma soprattutto per la discrezione con cui ascoltava e consigliava. In vacanza è sempre stato ligio ai suoi doveri religiosi come quando era in Istituto.

Ha lasciato in famiglia stupendi album di cartoline e fotografie con appunti e spiegazioni. Questi rimarranno sempre nelle nostre case insieme ai piccoli ricordi di missione che ci portava. Un pensiero voglio dedicare ai suoi due ultimi anni trascorsi a Verona nella sofferenza. Ci accolse fino all’ultimo in allegria e tranquillità, sorretto da una lucidità che gli permise di ricordare tutti e tutto. Amava sentire le novità del paese. Ricordava gli onomastici e i compleanni delle persone e, se poteva, si faceva vivo con una cartolina o una telefonata.

Confesso che talvolta la sua serenità mi disarmava e, spesso, di ritorno dalle nostre frequenti visite mi chiedevo se ero andato a trovare uno zio ammalato.

Il suo funerale ad Arolo vide una folla davvero impressionante. Ciò mi ha convinto quanto lo zio fosse per tutti una persona davvero speciale e di quanto vuoto la sua scomparsa ha lasciato nel cuore di tutti. Mi creda, padre Gaiga, sono certo che il ricordo di mio zio mi sarà sempre di aiuto nella vita, augurandomi di saper sempre seguire i suoi insegnamenti”.

E’ stato un dono conoscerti

Le testimonianze degli infermieri e dei volontari rilasciate durante la messa funebre, mettono in risalto ancora una volta la santità di questo nostro confratello: “E’ stato un dono prezioso conoscerti, un privilegio condividere l’ultimo tuo anno di vita. Mani aperte e braccia tese per donare, accogliere, consolare. Mani aperte, braccia tese felice di ricevere, consapevole di aver bisogno degli altri, sereno nel farti aiutare. Non pensavi a te, al tuo male che ti distruggeva, ma mi chiedevi come avevo passato la giornata, se stavo bene… e io ti parlavo della mia famiglia, degli amici, della parrocchia, dei miei bambini di catechismo, cose semplici che ascoltavi e commentavi: ‘Che bello!’ Tu hai sempre pensato agli altri, mai a te stesso, al tuo male, alla tua vita che se ne andava giorno dopo giorno… Ora sei davanti all’Amore di cui sempre parlavi. Ti vedo ritto, sorridente, con gli occhi pieni di luce e stai dicendo: ‘Che bello! Anzi che bellissimo!’ Grazie padre Eugenio, grazie grande amico. Un bacio. Gabriella”.

“Quando mi raccontavi della tua malattia, mi insegnavi che la vita va accettata momento per momento, sempre con il cuore e la mente a Dio. Quando mi parlavi della tua missione, di quando ti sei salvato dal terremoto sotto una scala, mi dicevi che siamo nelle mani di Dio e, se lui vuole salvarci, non ci sono terremoti che tengano… In questi ultimi giorni c’era uno strano silenzio in reparto. Abbiamo vissuto momenti molto particolari, intensi, come volevi tu. Sentivamo quasi il passo di Dio che si avvicinava per prenderti per mano. E tu gli hai presentato le tue col sorriso. E così sei partito lasciando in noi tanto dolore, ma anche una strana gioia perché una nuova stella si era accesa in cielo”.

Dopo il funerale in Casa Madre è stato portato ad Arolo di fronte al suo caro Lago Maggiore. Il nipote ha commentato: “Le sue rare vacanze al paese si trasformavano in un’azione missionaria. Andava a trovare i parenti, gli amici, specialmente gli anziani e i malati. Voleva ricostruire i rapporti anche con i parenti che, magari, la famiglia non vedeva da anni. Egli aveva un culto speciale dell’amicizia. E’ giusto che ora ritorni tra loro, tra noi, ad indicarci la strada giusta, quella che conduce alla salvezza”.

Ma anche tra i confratelli padre Eugenio ha lasciato il segno, tanto che il superiore del Centro Ammalati di Verona si è sentito in obbligo di telefonare a chi doveva scrivergli il necrologio: “Mi raccomando, guarda che p. Bianchi è un santo sul serio del quale si potrebbe iniziare la causa di canonizzazione tranquillamente”. Noi gli chiediamo di intercedere per noi, per la Congregazione e per le vocazioni, specialmente del Messico e dell’America centrale. E che dal cielo preghi per noi.

P. Lorenzo Gaiga

Fr. Eugenio Bianchi was born in Arolo, Varese, on 26 January 1922. At the age of 17 and with the permission of his bishop, he was transferred from the diocesan semimary to the Comboni community of Venegono. In his letter requesting be admitted to the Institute expressed his surprise at the attitude of some people who were advising him against becoming a missionary, while he himself could no longer ignore the desire he felt in his heart to dedicate his life to the missions.

            Fr. Eugenio attended the novitiate in Venegono (1939-1941) and the scholasticate at the Mother- House in Verona, except for a year he spent in Rebbio (Como). He was ordained a priest in Verona on 7 July 1946. Fr. Eugenio was dreaming about Africa, but his superiors put him to work in Italy. As a student, writing to his superiors to express his joy upon having been accepted in the Institute, he assured them that he was delighted to prepare himself for missionary work in Africa. However, he added, "the apostolate does not begin in Africa, but starts now. This is what I do every single day." Thus, with dedication and peace of mind, he spent the first 19 years of his apostolate in Italy: in Riccione as assistant priest, in Troia as educator in the minor seminary and then in Carraia (Lucca).

            In 1961 he was sent to Spain where he worked in vocation promotion in Corella, then in Moncada till 1965. For one year he worked in San Sebastian in the magazine Aguiluchos. In 1968 he was able to sail for México. He was parish priest at San José del Cabo in Baja California (1968-1980), parish priest in Montezuma and formator in the postulancy. He was in México till 1986, except for a couple of years in Italy for the Ongoing Formation Course and holidays.

            Fr. Eugenio was always available and happy to take his missionary service wherever he was sent.

            In 1987 he went to San José in Costarica as superior and formator of the Comboni postulants. In 1993 he was asked to go to the mission of San Salvador as assistant parish priest, vocation and mission promoter. Fr. Eugenio left everything and moved to this new field, where worked with enthusiasm in spite of his poor health. In 1995 he arrived in Verona ill and accompanied by a very negative report from the doctors. Just over a year later he returned to El Salvador for more years of missionary life.

            In May 2000 he returned again to Verona to recuperate in "Bro. Angelo Viviani Centre". There he died at dawn on 30 October 2001.

Da Mccj Bulletin n. 214 suppl. In Memoriam, aprile 2002, pp.76-88