In Pace Christi

Imoli Ezio Maria

Imoli Ezio Maria
Date de naissance : 09/09/1912
Lieu de naissance : Ponte di Barbarano (VI)/I
Premiers vœux : 07/10/1931
Vœux perpétuels : 07/10/1936
Date de l’ordination : 27/03/1937
Date du décès : 11/08/1990
Lieu du décès : Verona/I

Quella di p. Imoli è stata una vita dura, segnata, fin dal suo inizio, dalla sofferenza. A renderla ancor più simile a quella di Cristo crocifisso ci voleva anche la lebbra.

Una lettera del suo parroco delinea tutta la drammaticità in cui viveva la famiglia. Ciò nonostante, quella gente piena di fede trovò ancora la forza di permettere al primo dei sei figli di entrare nel seminario diocesano. Ma sentiamo cosa scrive il parroco in data 19 agosto 1929 al superiore dei Comboniani, quando il giovane Imoli aveva già preparato la domanda per entrare tra i missionari.

"Molto rev.do p. Vianello, venerdì scorso 16 corrente, fui a Verona con il giovinetto mio parrocchiano che le scrive l'acclusa lettera (è quella della domanda d'entrata n.d.r.). Trovai solo il rev. p. Zanta al quale presentai il caro giovane, esponendo al tempo stesso anche le difficoltà familiari che si opporrebbero alla sua vocazione. Ma il detto Padre non si sentì di prendere una decisione e ci consigliò, invece, di rivolgerci a lei. Ecco la ragione del presente scritto.

Questo seminarista del seminario diocesano di Vicenza ha già superato la quinta ginnasio ed avrà presto 17 anni. La sua famiglia è poverissima ed è composta da padre, madre e sei figli dei quali Ezio è il maggiore.

Il padre, Alfonso, fa il falegname, ma ha pochissimo lavoro. La mamma, Pizzo Maria, è casalinga. Possiedono una casetta con cinque campi e mezzo, ma c'è sopra, tra mutuo e cambiali, il debito di ben trentamila lire. Sicché ora è tutto in vendita.

Nei primi anni il giovane fu nel seminarietto della cattedrale, poi, passato al seminario, ebbe due terzi di grazia pagando lire 300, oltre la cancelleria, ecc. I genitori hanno fatto sacrifici enormi per sostenere la spesa, a costo di aumentare i debiti; ed anche ora restano da pagare lire 400 di arretrati.

Per essi questa vocazione missionaria verrebbe a troncare ogni speranza e a rendere sempre peggiore la loro condizione. Tuttavia io credo che, alla fine, essendo buoni cristiani, nonostante lo schianto, darebbero il loro consenso.

Il giovane, del resto, è di condotta esemplare, serio e piissimo. Anche la salute è buona e certo darebbe ogni speranza di ottima riuscita. Ma dinanzi ai doveri che egli ha verso il seminario e verso la famiglia, si deve dire che si tratta di vera vocazione oppure soltanto di pii desideri suscitati in lui dalla lettura della vita di mons. Comboni? Poiché il giovane afferma che questa fu l'occasione della sua decisione di farsi missionario...".

Già da due anni

Con la lettera del parroco di Ponte di Barbarano c'era la domanda di Ezio: "Reverendissimo Padre, abbia la pazienza di leggere queste righe che, bene o male, le dicono tutto ciò ch'io le vorrei dire se fossi vicino. Già da due anni, Padre, sento vivo il desiderio di farmi missionario. Questo desiderio cominciò a farsi sentire in me alla fine della terza ginnasio. Al principio, a dire il vero, non ci pensavo molto, anzi, alle volte cercavo di non pensarci affatto perché il farmi missionario mi sembrava allora una cosa quasi impossibile per molti motivi.

Con questo pensiero che ogni tanto tornava a farsi sentire trascorsi parte dell'anno 1927 e quasi tutto il 1928. Devo notare, Padre, che tale pensiero mi tornava in mente assai spesso e anche più volte al giorno.

Trascorso l'autunno 1928, entrai nuovamente in seminario. Durante gli esercizi decisi di parlare di questo problema al padre spirituale il quale mi disse di attendere e di pregare. Così per tutto l'anno. Ma prima di andare in vacanza mi indicò a chi dovevo rivolgermi per essere accettato poiché mi assicurava che la mia era vera vocazione missionaria.

Ora, Padre, le chiederei con tutto il cuore e umilmente di essere accettato nella sua Congregazione...".

Il parroco, in una lettera seguente, disse che il Vescovo si era mostrato favorevole alla partenza di Ezio e che il papà avrebbe pagato il debito nei confronti del seminario.

Ognuno può immaginare quanta sofferenza sia costata tale decisione all'interessato e ai suoi genitori, quante speranze deluse, quanti progetti infranti. A quel tempo far diventare un figlio sacerdote costituiva un buon investimento per la famiglia, specie per i genitori che in quel modo avevano la loro vecchiaia assicurata.

Giovane con i giovani

Il 21 settembre 1929 Ezio Imoli entrò nel noviziato di Venegono. Il 13 novembre fece la vestizione e il 7 ottobre del 1931 emise la professione temporanea.

Non abbiamo testimonianze di questo periodo, ma certamente dovette fare buona impressione e dare garanzia di solidità quanto a virtù e pratica della vita religiosa se i superiori, subito dopo i Voti, lo mandarono a Padova come assistente dei ragazzi di quel seminario missionario.

Vi rimase per tutto il periodo del liceo e della teologia, fino all'ordinazione sacerdotale che ebbe luogo nella chiesa del seminario di Padova il 27 marzo 1937. Vescovo consacrante fu mons. Carlo Agostini.

In data 14 ottobre 1936, i superiori avevano chiesto a Propaganda Fide la facoltà di ordinare sacerdote lo scolastico professo Ezio Imoli prima di iniziare il quarto anno di teologia. Motivo: "Detto soggetto sarebbe destinato a frequentare la Facoltà di Missionologia nell'Ateneo di Propaganda e contemporaneamente allo studio del quarto anno di teologia". Propaganda "benigne annuit" purché dopo l'ordinazione porti a termine il quarto anno di teologia.

In Etiopia

P. Imoli non poté frequentare l'Ateneo perché una richiesta urgente di missionari per l'Etiopia lo costrinse a terminare regolarmente i suoi studi in modo da essere pronto a partire al più presto.

Nel settembre del 1937 giunse a Kerker con l'incarico di coadiutore e di insegnante. L'anno dopo passò ad Adi Arcai come insegnante. Dal 1940 al 1941 fu cappellano militare a Debra Zebit delle truppe italiane di invasione, e dal 1941 al 1946 rimase prigioniero nelle seguenti località: Somalia Britannica, Addis Abeba, La Faruk, Mombasa, Naivasha, Inghilterra.

La sua prima esperienza missionaria venne esercitata particolarmente con i prigionieri italiani dei quali fu padre, fratello, amico. In Etiopia sperimentò gli orrori della guerra, ne visse i disagi e pianse il martirio del confratello p. De Lai.

Scrive mons. Giordani: "Quello che posso dire di p. Imoli è che è stato un uomo di pietà e di carità. Aveva un grande rispetto e un intenso amore per la Parola di Dio. Ricordo come preparava con cura la spiegazione del vangelo domenicale per i soldati. Anche gli ufficiali, tra i quali abbiamo dovuto vivere quando eravamo in Etiopia, sapevano di questo suo rispetto alla Sacra Scrittura. Una volta gli vollero fare uno scherzo. All'ora di pranzo erano tutti presenti, per ultimo arrivò lui. Non si erano ancora seduti quando un ufficiale gli chiese: 'Padre, lei che conosce bene la Scrittura, in qual libro sta scritto che Abele ammazzò Caino?'. Il Padre, pronto, rispose: 'Nella Genesi'. Seguì una grande risata. Il Padre rispose serio: 'Non ci si burla della Sacra Scrittura', e lasciò la mensa".

In Inghilterra imparò l'inglese e si fece ben volere dai compagni e dai superiori. Ovunque fu, soprattutto, sacerdote.

Con i primi in Portogallo

Dopo un anno trascorso a Venegono Superiore (1946-47) come confessore e insegnante, p. Imoli partì con i primi comboniani alla volta del Portogallo. Nel 1946 i comboniani erano giunti in Mozambico, allora colonia portoghese. Per entrarvi, dovevano trascorre un periodo in Portogallo per imparare la lingua. Così sorse il seminario di Viseu che serviva alla preparazione dei missionari per il Mozambico e alle future vocazioni portoghesi.

Gli inizi in Portogallo non furono facili, data l'estrema povertà e la mancanza di tutto. I nuovi arrivati non si persero d'animo e, lavorando assiduamente, seppero crearsi una buona cerchia di amici e sostenitori dell'opera missionaria.

Quando si cominciavano a raccogliere i primi frutti di tanto lavoro, p. Imoli, che era andato come cappellano nella parrocchia di Mangualde, poté finalmente partire per la missione. Era il settembre del 1948. Nel dicembre di quello stesso anno diede inizio alla fondazione della missione di Namahaca della quale divenne primo superiore (1948-1960), per passare poi a Carapira (1963), Lunga ('63-'64), Matibane ('64-'76). In queste missioni fu cappellano e superiore. Nel 1965 fu anche eletto come secondo consigliere del Provinciale.

Chi è stato con lui in missione ricorda p. Imoli com un uomo buono, mite, dedito al suo lavoro fino all'esaurimento. Un lavoro fatto principalmente di visite alla gente nelle loro case, di condivisione, specie con i più poveri e gli ammalati.

Il Padre aveva un amore tutto particolare per i colpiti dal morbo di Hansen, i lebbrosi, che curava e assisteva personalmente. Erano gli ultimi, i più poveri, ed egli si commuoveva stando con loro. Cercava di non far pesar il male che corrodeva le loro carni non mostrandosi mai schizzinoso... Fu durante questo suo esercizio di carità che, molto probabilmente, si buscò il micobacterium leprae.

Espulso

In Mozambico intanto le cose andavano male. La caduta della dittatura di destra in Portogallo (1974) costituì la premessa all'indipendenza del Mozambico, preparata da una lunga e serrata guerriglia portata avanti dal movimento chiamato "Frelimo" che era foraggiato dalla Russia. In quello stesso 1974 il vescovo di Nampula e alcuni missionari comboniani che osarono fare un'analisi critica sulla situazione politica "colonialista" portata avanti dal Portogallo e sul tipo di impegno missionario nella scuola, furono espulsi.

Con l'indipendenza del 1975, che portò al potere il Frelimo, i comboniani espulsi ritornarono come trionfatori. La cuccagna durò poco. Cominciarono le nazionalizzazioni, le vessazioni, le persecuzioni. I missionari si interrogavano sul nuovo modo di essere presenti in un contesto così diverso, su come continuare ad impegnarsi per aiutare e favorire lo sviluppo del popolo e la crescita della vita cristiana in un regime "rivoluzionario marxista".

In questo periodo succedettero cose terribili contro i cristiani e contro la gente. I ragazzi della scuola dovevano assistere a pubbliche fucilazioni di disobbedienti al regime a scopo di "salutare lezione", interi villaggi furono deportati per costituire delle fattorie governative, tutto diventò proprietà dello stato, perfino le galline delle suore e i pomodori dell'orto dei missionari. Le funzioni religiose furono intralciate con ogni mezzo, l'insegnamento del catechismo impedito, i missionari e le suore non potevano uscire dalla missione senza un permesso. Insomma, era la persecuzione.

P. Imoli fu vittima di questa nuova situazione per cui, dopo quasi 30 anni di lavoro, fu messo alla porta come un malfattore. "Sì - scrisse - forse sono stato un po' colonialista, ma ho amato tanto gli Africani!". Come benservito, si portava nel sangue la lebbra, che non sapeva ancora di avere, e la tenue promessa di p. Peano: "Qualora le porte del Mozambico si aprissero e ci fosse per te qualche possibilità di ritorno, terremo presente il tuo desiderio di tornare".

Dal 1977 al 1979 fu a Famalicao, in Portogallo, come incaricato del ministero. Venne anche eletto "probus vir".

"Mi sento un pesce fuor d'acqua - scrisse. - Il genere di vita fatto di incontri, di riunioni, di palestre, che si svolge in una casa di formazione non si confà con il mio carattere piuttosto taciturno. Noti che, appena ordinato sacerdote, partii subito per la missione. Cosa ne so io di tutte queste cose? Africa, Africa!  Non che abbia fretta, intendiamoci! Proprio perché mi trovo a disagio, sono disposto a tirare avanti ancora".

In Messico con gioiosa obbedienza

La missione, ormai, gli bruciava l'anima per cui il Padre chiese di partire per qualsiasi altra missione, anche se optava per il Kenya dato che, durante i tre anni di prigionia a Naivasha, aveva imparato un po' di swaili. Comunque gli bastava "qualsiasi campo missionario in Africa, che io ritengo, senza confronto, il più adatto alle mie capacità. Non capisco - aggiunse - perché gli espulsi dal Mozambico finiscono in Brasile... Ah, il Brasile no!".

Dovendo constatare, tuttavia, che il Mozambico era chiuso per lui, suggerì ai superiori di aprire una missione in Angola per i missionari espulsi dal Mozambico. Non è che l'Angola fosse più tranquilla del Mozambico ma "Quando il Comboni è partito per il Sudan - scrisse nella lettera - sapeva perfettamente che andava ad arrischiare la vita. E anche i suoi superiori lo sapevano. E allora, era matto perché è partito lo stesso? O erano matti i superiori a lasciarlo partire? Noi ci assumiamo la responsabilità della vita, tutta ce l'assumiamo".

P. Imoli si dimostrò veramente grande con simili parole, ma lo fu ancora di più obbedendo "gioiosamente" agli ordini dei superiori che lo mandavano da una parte totalmente opposta.

Se la Madonna non si vergogna di me!

In data 1 gennaio 1980 il Generale p. Calvia lo destinò al Messico. "Caro Padre - gli scrisse - questo suo esempio di disponibilità è di grande aiuto anche per i nostri giovani missionari. Mi permetta di ringraziarla per il suo amore alla missione ed anche per il suo coraggio di partire a costo di imparare una nuova lingua".

Per capire queste parole di p. Calvia, bisogna leggere qualche riga di una lettera che p. Imoli gli aveva scritto: "Avendo già chiesto ripetutamente e invano di andare in Africa, a chiedere ancora mi pare di forzare la mano dei superiori. In questo caso temo che mi si dia il permesso più che per ragioni oggettivamente valide, tali cioè che possano rispecchiare la volontà di Dio (l'unica cosa, in fin dei conti, che mi preme), me lo concedano per liberarsi da un fastidio. In questo caso io non starei tranquillo. Venga piuttosto il Brasile o dove vogliono. Altrimenti non comprendo che razza di missionario sarei, se missionario vuol dire 'mandato'". Segue una lunga disquisizione sulla missionarietà che sarebbe bello pubblicare tanto è edificante, considerando anche la situazione psicologica in cui si trovava lo scrivente.

Prima di partire per il Messico scrisse: "Non ho ancora ricuperato completamente l'uso degli arti inferiori nel senso che nel mio camminare si nota ancora qualche cosa di difettoso, né posso affrettare molto il passo. Le chiedo una sua 'ricca' benedizione, come dicono i Portoghesi, una benedizione piena, totale, sovrabbondante, tale che mi assicuri che il Padre Generale è tutto con me. Che se ciò non fosse possibile, ancora una volta chinerò il capo e non muoverò piede".

Il suo ministero nella nuova terra fu quello delle confessioni che esercitava molto volentieri anche se gli costava fatica. Aiutare la gente a vivere in grazia di Dio gli pareva la cosa più bella che un sacerdote potesse fare.

Nel 1981 scrisse una lettera al segretario generale chiedendo che, accanto al suo nome, Ezio, sul catalogo apparisse anche quello di Maria, nome che aveva preso ai primi voti. "Lei mi chiederà come mai una richiesta simile solo dopo 50 anni? E' semplice: un certo senso di indegnità, direi quasi di pudore, mi ha impedito di azzardare tanto. Ma ora sto avvicinandomi al termine... Spero che la Madonna non se ne avrà a male nel vedere il suo nome accanto al mio. Non pensi, però, che vi abbia pensato solo ora. Si sbaglierebbe di grosso. Mille volte avrei voluto fare una tale richiesta...".

Quasi un miracolo

Nel 1981 si aprirono le porte del Mozambico per p. Imoli e i superiori, fedeli alla parola data, gli diedero il foglio di via per quella terra che tanto amava.

La gioia del Padre fu immensa. Lasciò il Messico e partì senza indugi. Si augurava di poter lasciare in Africa le sue ossa. Ripercorse i luoghi che lo avevano visto giovane missionario, visitò la gente, strinse migliaia di mani e soprattutto assolse tanti peccati. Il suo lavoro, infatti, ormai era solo quello delle confessioni perché le sue gambe non gli permettevano di muoversi come avrebbe voluto.

Il clima, le condizioni di vita causate dalla guerriglia, il cibo che risentiva della precarietà del Mozambico, e la mancanza di medicinali, accelerarono il corso della malattia per cui, pur con la morte nel cuore, dovette tornare in Italia.

Il lungo Calvario

Verso la fine dl 1983 troviamo p. Imoli a Verona. Qualche cosa nel suo corpo non funzionava più. La deambulazione era sempre più faticosa, sotto i piedi si erano aperte delle piaghe e sulle gambe erano apparse strane macchie.

"Il medico ha fatto la biopsia, ma la risposta da Londra o da Parigi non è ancora venuta", scrisse al Generale. La risposta, invece, era arrivata a chi di dovere ed era: lebbra. Fu immediatamente ricoverato nel Centro di Cura di Fontilles, in Spagna, nella speranza di fermare il male.

Il 15 novembre 1983 scriveva da quel luogo: "I medici mi hanno dichiarato positivo al morbo di Hansen cioè, per parlarci chiaro, sono lebbroso. Ero già preparato. Dopo tali e tante che me ne sono capitate nella mia vita missionaria, non devo meravigliarmi che ci fosse in programma anche questa! Che il Signore mi aiuti ad accettare la sua volontà come la si accetta in Cielo, così avrò il mio paradiso fin da questo mondo. A pochi passi dalla mia stanza ho la cappella sicché posso celebrare comodamente ogni giorno.

Il Centro è tenuto dai Gesuiti. Più che un sanatorio, si tratta di una famiglia, un po' sui generis, se si vuole, ma di una famiglia e sono contento. O meglio, comincio a rendermi conto che il Signore mi ama in una maniera particolare. Se io non lo volessi ancora ammettere, anche le pietre me lo griderebbero. Che egli sia benedetto e ringraziato e che io mi renda sempre più degno di tanto amore. Lei mi aiuti".

Una lettera simile, scritta subito dopo una simile sentenza, ci dice il calibro di questo missionario.

Il 3 gennaio 1984 scriveva: "Mai mi sono sentito così missionario come ora. Grazie per avermi dato la speranza di poter tornare in Messico. Io accetto tutto quello che viene, sapendo che tutto viene dall'Amore".

Il 16 marzo proseguiva, sempre scrivendo al Generale: "Sono a ringraziarla sentitamente per la sua carità nel mantenersi in contatto con questo povero uomo. I bacilli ci sono ancora, ma sono diminuiti, e i medici mi dicono che la malattia si evolve normalmente. Occorreranno ancora vari mesi prima di lasciare il sanatorio". Poi il Padre aggiunge un tocco di profonda umanità che commuove: "D'altra parte le confesso che sento vergogna e non sono capace di decidermi a lasciare il sanatorio... Povero p. Imoli, quanto si sente piccolo, abbietto, spregevole. Ah, Padre, preghi e faccia pregare per quanti soffrono in questo mondo".

La lebbra è una malattia che, da sempre, ha portato in sé come una maledizione divina per cui il malato ha due malattie: la lebbra e il fatto di essere lebbroso. E perciò trova rifugio nascondendosi agli occhi degli uomini. P. Imoli esperimentava in sé questa umiliazione e ne sentiva tutto il peso e la drammaticità.

Il 25 novembre 1984: "Sarò operato ad un piede. E' la quarta volta che vengo operato. Due volte a Verona e una in Messico. Si parlava di verruche, invece è il mio male. Potessi almeno camminare un po'! Comunque, sia come sia, Iddio sia sempre benedetto".

Il primo aprile 1985: "L'esito degli ultimi esami non fu così favorevole come si sperava. Ma io spero ancora di riprendermi per tornare in Messico". La missione costituiva ancora la molla capace di dargli carica e speranza in un così lungo soffrire. Nel 1986 ebbe il permesso di andare in Messico da p. Pierli, nuovo Generale, poiché la malattia sembrava essersi arrestata. Fu solo un sogno.

Nel 1987 era nuovamente a Verona. Qui lo colse una trombosi all'occhio per cui, invece di partire per il Messico, finì all'ospedale di Borgo Trento. Accettò il boccone amaro e chinò ancora una volta la testa. L'anno dopo dovette tornare a Fontilles per una visita di controllo. La lebbra si era risvegliata. "Sono ancora positivo", scrisse al Generale. "Ti chiedo di accettare con fede il mistero della croce", gli rispose p. Pierli. Poi aggiunse: "Fin tanto che sei positivo nella malattia, è opportuno che resti in Italia".

Imoli non perse la speranza. Al Generale che era tornato dalla visita in Messico, scrisse: "Ora che ha visto il Messico, non vede proprio nessun posticino per me?". Pierli gli mandò un ritratto di mons. Comboni con un bel pensiero sullo zelo missionario del Padre e la promessa che, se fosse guarito, nulla gli avrebbe impedito di tornare in missione.

"Grazie per la promessa e per il ritratto. Mons. Comboni è il mio grande amico, colui al quale, a suo tempo, ho affidato le primizie della mia vocazione missionaria, come in questi ultimi tempi gliene ho affidato la conclusione. Lei mi dice: 'Che il Signore t'aiuti a tornare nella terra della Madonna di Guadalupe'. Quanto son belle queste parole nella sua bocca, Padre! Quando fui costretto ad abbandonare il Mozambico, ove tornerei volentierissimamente domani (in mezzo alle schioppettate ho iniziato la mia carriera missionaria ed in mezzo alle schioppettate mi pare che volentieri la finirei) nella mia grande amarezza mi rivolsi a Maria ed ella mi fece intendere che ci vedremo al Tepeyak. Vedremo se sarà vero o se sarà tutto frutto di fantasia".

Fondatore della fede

Il 28 aprile 1988 il p. Generale, che si trovava in visita in Mozambico, gli scrisse da Anchilo: "Carissimo p. Imoli, dal Mozambico dove hai speso gli anni migliori della tua vita dal 1948 al 1976 e dal 1981 al 1983 voglio mandarti il mio fraterno saluto.

Visitando le fiorenti cristianità che ora stanno rispuntando dopo la persecuzione, non posso non ringraziare il Signore per aver compiuto opere magnifiche attraverso i Comboniani. Tu sei stato uno dei primi e, visitando diverse comunità e missioni, il tuo nome ritorna come uno dei Padri della fede per questo popolo. A Lurio un uomo che ti conosceva bene ha testimoniato il tuo zelo e la tua dedizione. Tutti applaudirono.

La bufera della persecuzione non ha distrutto la Chiesa, anzi l'ha purificata e trasformata. Carissimo p. Ezio, pur lontano fisicamente da qui per volontà di Dio data la tua malattia, continua ad essere presente con la tua preghiera e il tuo sacrificio. Fa' qualche "safari" in spirito e continua così a diffondere il Vangelo di Cristo in questa terra..."

"Grazie della sua missiva - rispose il Padre da Verona. - E preghi perché diventi sempre più conforme alla santissima volontà di Dio".

Vieni servo buono

Era bello a Verona vedere p. Imoli che faceva la sua passeggiata in cortile chiacchierando con qualche vecchio compagno di missione, o seduto sulla panchina dietro il monumento di san Giuseppe per riposarsi. Nel suo volto segnato dal male e nei suoi occhi ormai spenti (era anche cieco) c'era tanta pace e serenità.

Anche quando il primo luglio 1988 venne assegnato definitivamente alla Provincia italiana, si limitò a fare un sorriso. "So che accetterai anche questa croce con fede e serenità e di questo ringrazio il Signore", gli aveva scritto il p. Generale. P. Ezio si era ormai conformato in tutto alla volontà del Signore, il quale aveva permesso che questo suo servo coronasse la sua vita missionaria con una malattia propria dei paesi di missione, quasi segno di incarnazione e di identificazione con i poveri del Regno.

Ultimamente p. Imoli non riusciva neppure a lasciare il reparto infermeria. Le sue passeggiate si riducevano a un su e giù per il corridoio tenendosi attaccato alla ringhiera.

Finché una frattura al femore lo costrinse all'ennesimo ricovero in ospedale e alla completa immobilità. Appena riuscì a riprendere fiato, tornò a casa. Ma ormai le condizioni generali erano gravemente compromesse. Chiese i sacramenti e consapevolmente accolse il Signore che veniva a prenderlo.

Dopo i funerali in Casa Madre la salma è stata traslata nel cimitero del suo paese. P. Imoli ha dimostrato che un grande amore alla missione è capace di mettere in secondo piano tutte le tribolazioni della vita, perfino la terribile situazione di malato di lebbra.    P .Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 169, gennaio 1991, pp.104-112