Il 2 novembre la Chiesa commemora tutti i fedeli defunti, cioè la schiera innumerevole dei figli di Dio che si trovano ancora nel purgatorio; uomini come noi, e come noi chiamati da Dio Creatore e Padre a un destino di eternità. In effetti, dopo aver dato dignitose lodi ieri a quelli dei suoi figli che godono della felicità celeste, la Chiesa, come madre compassionevole, subito dopo, prende cura con le sue preghiere, delle anime dei suoi altri figli che gemono ancora nel purgatorio. Questa commemorazione, complemento della festa di tutti i Santi, mette in azione il dogma della “comunione dei Santi”.

La terra (Chiesa militante), il purgatorio (Chiesa sofferente) e il Cielo (Chiesa trionfante) formano la stessa Chiesa di Gesù e siamo tutti fratelli. La commemorazione dei morti, quindi, non costituisce tanto un giorno de rimpianto, ma piuttosto di speranza. Il pensiero dei morti ci stimola a pregare per loro, ma serve ancor più a noi per una riflessione sulla nostra esistenza, sul senso della nostra storia e sul nostro orientamento a Dio. C'è una verità assoluta: nessuno, per quanto faccia, esce vivo dalla vita.

Bisogna integrare dunque la morte nell'esperienza della nostra vita, per affrontarla con atteggiamenti di fede e di speranza. E le letture delle messe, in suffragio dei defunti, di questa liturgia sembrano scelte apposta per gettare la luce chiara sul mistero della morte e dell'aldilà: Il profeta Isaia annuncia che il Signore "eliminerà la morte per sempre e asciugherà le lacrime su ogni volto” Giobbe dichiara: "vedrò Dio e i miei occhi lo contempleranno". Il libro della sapienza afferma inoltre che "Le anime dei giusti sono nella mano di Dio."

Gesù è stato più esplicito "chiunque vede il Figlio e crede in lui ha la vita eterna", ed egli precisa: "Io lo risusciterò nell’ultimo giorno" (Gv6,40), per rivelare più avanti che: "Nella casa del Padre mio c'è molto posto. Io vado a prepararvi un posto. Tornerò e vi prenderò con me. Così anche voi sarete dove io sono" (Gv14, 2-3) Queste splendide verità cristiane vengono a dirci che la morte non è l'ultima cosa. Ultima è la risurrezione in Cristo, la vita eterna in Dio ed il sempiterno riposo.
Don Joseph Ndoum

La commemorazione dei fedeli defunti

La commemorazione dei fedeli defunti al 2 novembre ebbe origine nel 998 nel monastero benedettino di Cluny per iniziativa di S. Odilone (quinto abate di Cluny); il fatto che migliaia di monasteri benedettini dipendessero da Cluny favorì l'ampio diffondersi della commemorazione in molte parti dell'Europa settentrionale. Nel 1311 anche a Roma venne istituita ufficialmente la memoria dei defunti mentre il privilegio delle tre Messe al 2 novembre, accordato alla sola Spagna nel 1748, fu esteso alla Chiesa universale, da Papa Benedetto XV (Giacomo della Chiesa, 1914-1922), solo nel 1915.

Scopo della commemorazione di tutti i defunti in passato era quello di suffragare i morti; di qui le Messe, la novena, l'ottavario, le preghiere al cimitero. Questo scopo naturalmente rimane; ma oggi se ne avverte un altro altrettanto urgente: creare nel corso dell'anno un'occasione per pensare religiosamente, cioè con fede e speranza, alla propria morte. Spezzare la congiura del silenzio riguardo ad essa.

Quando nasce un uomo, diceva S. Agostino, si possono fare tutte le ipotesi: forse sarà bello, forse sarà brutto, forse sarà ricco, forse sarà povero, forse vivrà a lungo, forse no. Ma di nessuno si dice: forse morirà, forse non morirà. Questa è l'unica cosa assolutamente certa della vita.

Nella nostra vita noi pensiamo di non avere mai abbastanza: viviamo protesi verso un continuo domani, dal quale ci attendiamo sempre di più: più amore, più felicità, più benessere. Viviamo sospinti dalla speranza. Ma in fondo a tutto il nostro stordirci di vita e di speranza si annida, sempre in agguato, il pensiero della morte: un pensiero a cui è molto difficile abituarci, che si vorrebbe spesso scacciare. Eppure la morte è la compagna di tutta la nostra esistenza: addii e malattie, dolori e delusioni ne sono come i segni premonitori. La morte resta per l'uomo un mistero profondo per credenti e non credenti.

Essere cristiani cambia qualcosa nel modo di considerare la morte e di affrontarla? Qual' è l'atteggiamento del cristiano di fronte alla domanda, che la morte pone continuamente, sul senso ultimo dell'esistenza umana?

La risposta si trova nella profondità della nostra fede. S. Paolo scriveva: «Non vogliamo poi lasciarvi nell'ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui.» (1Ts 4,13-14)

La morte del cristiano si colloca nel solco della morte di Cristo: è un calice amaro da bere fino in fondo perché frutto del peccato. Ma la morte è anche volontà amorosa del Padre che ci aspetta, al di là della soglia, a braccia aperte: una morte che è essenzialmente non-morte ma vita, gloria, risurrezione.

Come tutto questo avvenga di preciso non si sa. Umanamente non si può misurare l'immensità delle promesse e del dono di Dio. Il Prefazio dei defunti rivela un accento di umana soavità e di divina certezza: «È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: per Cristo nostro Signore. Nel quale rifulse a noi la speranza della beata resurrezione: così che coloro che sono contristati dalla certezza della morte, siano consolati dalla promessa della futura immortalità. Poiché, o Signore, la vita dei tuoi fedeli non si distrugge, ma si cambia, e dissolta la casa di questa dimora terrestre, si acquista eterna abitazione in cielo....».