Verso una missione ministeriale. Intervista a P. Francesco Pierli

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Martedì 26 marzo 2019
Il XVIII Capitolo Generale del 2015 ha segnato una svolta nella consapevolezza missionaria dell’Istituto. Abbiamo preso atto che nel cambiamento epocale che stiamo vivendo la missione è chiamata ad assumere un nuovo paradigma per continuare il proprio mandato in una realtà che presenta forti discontinuità con il passato. Un aspetto importante di questo nuovo paradigma è la chiave di lettura ministeriale del servizio missionario. (Nella foto, da sinistra: Fr. Alberto Parise e P. Filippo Ivardi a Pesaro, Italia).

Ci sentiamo chiamati a riqualificare la nostra presenza in linea con le priorità che abbiamo identificato in ogni continente, sviluppando delle pastorali specifiche o di settore in quegli ambiti e facendolo con un approccio sinodale, partecipato e inserito nella chiesa locale e nella società civile.

C’è bisogno di un dialogo per portare avanti un simile cammino, a cominciare dal chiarire cosa intendiamo per ministeri, parola che utilizziamo molto ma che potrebbe avere diverse percezioni e interpretazioni. Poi abbiamo bisogno di domandarci che cosa significhi fare un cammino di comunione per la riqualificazione e crescita di ministeri e pastorali specifiche.

Fr. Luigi Quaranta, direttore dell'Istituto Tecnico Industriale di Carapira (Nampula-Mozambico).

Verso una definizione di ministeri

Possiamo intendere i ministeri come i mezzi con cui la Chiesa porta avanti la propria missione. Ma che cosa sono esattamente i ministeri? Quali attività o opere possono chiamarsi così e quali no?

O’Meara (1999, 139-149) sostiene che ogni volta che diamo una definizione precisa finiamo per escludere degli aspetti che in effetti meriterebbero di essere inclusi nel concetto che stiamo tentando di chiarire. Tuttavia, se vogliamo capirci e avere una comprensione comune dobbiamo accettare questa limitazione. Così propone 6 elementi per aiutarci a riconoscere un’azione propriamente ministeriale:

1. Fare qualcosa: il ministero è un’azione concreta, qualcosa che si fa.

2. Per l’accoglienza del Regno: cioè un servizio inteso a portare alla comunione con Dio e all’unione dell’umanità (cf. LG). “Il ministero – come spiega O’Meara (1999, 142) – esplicita il Regno, in modo che la sua presenza ambigua diventi sacramento, parola o azione”.

3. In pubblico: è un servizio che comunica il suo messaggio esplicitamente, con parole e azioni. Anche se il vivere cristiano in sè fornisce l’energia, la motivazione e la base per il ministero, non è in sè esattamente ministero perché tali motivazioni e orizzonte di fede sono impliciti.

Se alcuni aspetti della vita evangelica come la giustizia, il coraggio, la temperanza scorrono dall’impegno di fede nel vangelo e sono necessari per essere veramente cristiani, non necessariamente sono espressioni ministeriali. I ministeri portano qualcosa di specifico: una voce e azione pubblica direttamente orientati al Regno.

4. In nome di una comunità cristiana: la comunità cristiana ha un mandato di vivere secondo la visione del Regno e di promuoverlo. Ciò richiede un impegno a costruire una società dal volto umano e a denunciare e contrastare il male sociale. Per questo motivo O’Meara (1999, 146) afferma che il “ministero comincia con la comunità cristiana, procede dalla comunità cristiana ed espande la comunità”. La complessità della società e le diverse situazioni che bisogna fronteggiare inevitabilmente richiedono una pluralità di ministeri. Alcuni saranno indirizzati a sostenere la comunità cristiana; altri a raggiungere la società in generale, in collaborazione con altre istituzioni e persone. Una pluralità di ministeri richiede una pluralità di ministri, che non agiranno a nome proprio. Il servizio che rendono sarà espressione della fede e dell’impegno della comunità nel suo insieme. Questa è la ragione per cui la comunità invita i suoi membri al servizio, li riconosce e dà loro un mandato di fare un ministero per conto della comunità stessa. Quindi non ci può essere un ministro che si nomini da sé, senza il mandato esplicito conferito da una comunità cristiana.

5. Un dono dello Spirito: si tratta di un dono ricevuto nella fede, attraverso il battesimo e la cresima. Lo Spirito di Gesù Risorto è l’anima dell’azione ministeriale. La sua presenza chiama al servizio del Regno, ispira il discernimento e dà forza per l’azione con vari doni spirituali (1Cor 12, 4.11). Nella visione di S. Paolo, queste abilità speciali sono delle manifestazioni dello Spirito e vengono donate per il bene comune e per lo svolgimento del servizio, non per il beneficio della persona che li ha ricevuti.

6. Con servizi diversi: questi sono il risultato di doni differenti che incontrano diversi bisogni nella Chiesa e nella società civile. In una prospettiva ministeriale troviamo sia capacità umane che doni spirituali che vengono messi al servizio del bene comune e sono un’espressione dell’unione con Dio in Cristo dei fedeli. S. Paolo usa l’analogia del corpo di Cristo, in cui persone diverse sono unite espletando funzioni diverse. Questa visione respinge l’idea che alcuni carismi e ministeri siano essenzialmente superiori ad altri, perché tutti sono richiesti e necessari e devono operare in armonia affinché il corpo sia adeguatamente funzionante.

Sulla base di questi sei elementi, O’Meara (1999, 50) tenta la seguente definizione di ministero cristiano: il ministero è un’attività pubblica di un discepolo battezzato di Gesù Cristo, che procede dal carisma (dono) dello Spirito e dalla personalità individuale, a nome della comunità cristiana per proclamare, servire e realizzare il Regno di Dio.

Un’altra definizione –  molto simile per contenuti e prospettiva – la dà McBrien (1989, 848) che afferma: il ministero è un servizio designato pubblicamente o almeno esplicitamente dalla chiesa per contribuire al compimento della sua propria missione.

Ciò comporta una chiamata dalla chiesa, un mandato pubblico o esplicito (non necessariamente sacramentale o liturgico) e la continuazione della missione di Cristo nella chiesa e nel mondo.

P. José da Silva Vieira a Juba, in Sud Sudan.

Ministeri e pastorali specifiche

In un tempo in cui il criterio geografico non è più decisivo nel caratterizzare la missione comboniana, assume maggiore importanza il criterio dei gruppi umani a cui in ogni continente ci sentiamo chiamati nell’ambito della missione globale. Il Capitolo, interpretando il momento storico tanto del mondo quanto dell’Istituto, ha indicato la necessità di ridurre e riqualificare le nostre presenze. Ciò comporta da un lato di privilegiare la nostra presenza nei contesti umani e sociali che sono stati identificati come prioritari in ciascun continente; dall’altro di sviluppare delle pastorali specifiche, composte di diversi ministeri correlati e complementari, per un servizio missionario più trasformativo.

Cosa significa tutto questo in termini pratici? Ne parliamo con p. Francesco Pierli, che da 25 anni si occupa di questi temi all’Institute of Social Ministry (Tangaza University College) di Nairobi.

P. Francesco Pierli.

Francesco, in che modo l’approccio ministeriale alla missione si differenzia da quello tradizionale?

Nell’approccio tradizionale i ministri veri e propri sono i preti e i vescovi, da cui dipendono dei coadiutori. Di fatto prevale una prospettiva clericale e machista, in cui il ministro doveva essere diverso, messo a parte, separato. Il ministero era anzitutto servizio ad una religione centrata sul rito, sulle leggi e le rubriche. Tutto questo portava quindi ad enfatizzare aspetti esteriori, come le vesti e simboli esterni, mentre la santità veniva spesso associata all’osservanza della tradizione. Era un servizio della struttura religiosa più che delle persone ed era unilateralmente focalizzato sul peccato individuale e la conversione individuale. La comunità è l’oggetto della zelo del ministro, quindi fondamentalmente passiva e dipendente dal ministro.

Nell’approccio ministeriale, invece, ogni battezzato è chiamato ad un servizio ministeriale, con un mandato dalla comunità cristiana. In quanto partecipazione al ministero di Cristo, ogni ministero e ogni ministro hanno la stessa dignità. Il ministero presuppone vicinanza e inserzione tra la gente, condivisione, collaborazione. Al centro non c’è tanto la struttura ecclesiastica, ma la gente con le sue “gioie e speranze, tristezze e angosce” (GS 1), con i suoi bisogni e aspirazioni umane e sociali. Richiede pertanto una “chiesa in uscita”, come insiste papa Francesco, capace di raggiungere le periferie esistenziali del nostro tempo. Nella visione ministeriale, il ministro è il facilitatore della attività della comunità che deve essere sacramento di salvezza per tutto il popolo, cristiani e non, per il cosmo e l’ambiente. La comunità cristiana è sacramento di trasformazione sociale in vista del Regno, soggetto di trasformazione e in trasformazione. La passività per la comunità è uno stato di peccato mortale, nel senso che avalla i processi che stanno portando alla distruzione di popoli e ambiente. Oggi la conversione sociale e il peccato sociale stanno entrando con forza nella nuova visione ministeriale. Quindi i ministri sono a servizio del rendere la comunità attiva e dinamica per trasformare il mondo di oggi secondo il piano di Dio, aiutandosi con  le indicazioni dell’insegnamento sociale della chiesa per i diritti umani, il bene comune, la giustizia sociale, la salvaguardia del creato.

Quali atteggiamenti, competenze, metodo e strutture richiede l’approccio ministeriale?

Per quanto riguarda gli atteggiamenti, anzitutto bisogna parlare delle qualità umane. Serve anzitutto una grande maturità umana perché l’umanità è la visibilità dell’invisibile. Nel passato si è spesso enfatizzata la divinità di Gesù al punto di sminuirne l’umanità. Invece è importante recuperare una cristologia che guardi alla pienezza di umanità.

Poi ci vuole una grande esperienza umana nella conduzione della comunità. Prima che la parola  prete prendesse sopravvento generando il clericalismo, la parola usata da San Paolo e dagli Atti degli Apostoli era presbitero, facendo riferimento alla maturità umana e alla provata esperienza di conduzione di una comunità. Il concilio di Trento con l’introduzione dei seminari ha canonizzato il prete e distrutto il presbitero; il concetto di seminario dove entrano bambini ed escono preti, unito al celibato come condizione sine qua non per essere preti, non è certamente una strada per preparare presbiteri. Il Concilio Vaticano Secondo ha tentato di rilanciare la parola presbitero (vedi Presbiterorurm Ordinis) ma non è stato consistente e forte abbastanza. Per cui la parola prete domina ancora. Ma non esprime affatto la ministerialità quanto una classe sociale.

Tradizionalmente la competenza dei presbiteri era affidata soprattutto alla teologia dogmatica scolastica, con un po’ di filosofia come ancilla; un po’ di teologia pastorale, ma era soprattutto sul come amministrare, nota la parola amministrare, i sacramenti. Oggi serve sviluppare sistematicamente competenze ed esperienza su come accompagnare comunità trasformate e trasformanti. Il Social Ministry si è focalizzato soprattutto su questo aspetto.

Per quanto riguarda il metodo, invece, abbiamo a oggi a disposizione il ciclo pastorale, sviluppo della tradizione sociale della chiesa nota come “vedere – giudicare – agire”, iniziata con Joseph Cardijn e i giovani lavoratori cristiani (JOC) negli anni ‘20 del secolo scorso, adottata come metodo dal magistero della chiesa con la Mater et magistra (1961) e che in seguito ha trovato terreno fertile nella chiesa latinoamericana. Il ciclo pastorale è uno strumento che ha il merito di partire dalla realtà e dall’esperienza, di fare uso delle scienze umane e sociali per un’analisi sistemica della realtà, su cui poi innestare una riflessione teologica e ministeriale per un discernimento sull’agire. Ma soprattutto, il ciclo pastorale è un processo partecipativo, che coinvolge la comunità in un cammino di fede incarnata e trasformazione sociale.

A proposito delle strutture abbiamo bisogno di quelle orientate all’ascolto, al collegare l’ascolto alla analisi e al passare dalla analisi alla riposta ministeriale. Si tratta di strutture partecipative come il consiglio pastorale o diocesano, questa era l’intenzione del Vaticano II con parole come “sinodale” e “collegiale”. Poi anche per colpa del codice di diritto canonico del 1983 e l’influenza accentratrice e decisamente clericale di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI le strutture partecipative dove la comunità era al centro come soggetto sono diventate consultive per il prete che ha l’ultima parola  in tutto. Quindi la tendenza decisamente sinodale e collegiale del Vaticano II non ha ancora avuto effetto. Papa Francesco cerca di riagganciarsi a quella impostazione. Inoltre, la sua chiamata ad essere chiesa in uscita ci spinge ad essere presenti, partecipare e collaborare con strutture più ampie, come reti e movimenti popolari.

Persone di contatto degli Istituti religiosi membri di VIVAT Internazionale, una organizzazione non governativa della quale fanno parte i Missionari Comboniani.

Quali sono le sfide più grandi nel portare avanti la missione con questo approccio? Come possiamo affrontarle?

Probabilmente la sfida più grande è il clericalismo, che negli ultimi anni sembra stia riprendendo quota. Serve allora un’azione educativa che ci aiuti a:

  • Superare il concetto di seminario come ambiente educativo che separa dalla vita, anche se poi si devono fare varie  esperienze di inserzione.
  • Approdare ad una educazione ministeriale condivisa (non amo la parola “formazione”), in cui crescere nel rispetto ed apprezzamento delle diversità di genere, imparare a relazionarsi ministerialmente e collaborare sullo stesso piano con donne e laici.
  • Anche le equipe di formazione dovrebbero includere educatori di entrambi i generi.
  • Sviluppare percorsi educativi che comincino dall’esperienza e non dalla teologia (l’impostazione del catechismo è decisamente superata).
  • Accettare il pluralismo religioso e considerare che il convertire tutti ad una sola religione è contro la logica della incarnazione; una fede, molte religioni.

Come comboniani, inoltre, sentiamo la sfida di uno statuto meno clericale, di seguire la strada di un Istituto misto, in cui i fratelli abbiano uguale responsabilità dei padri. Ma dobbiamo anche crescere come famiglia comboniana, il carisma pieno sta nella famiglia e non nei singoli gruppi (comboniani, comboniane, secolari e laici).

Quale contributo può dare oggi l’Africa alla missione in Europa con un approccio ministeriale?

L’Africa ci può aiutare, anzitutto, a riscoprire il senso del mistero per superare lo scientismo illuminista che uguaglia la religione a superstizione, e la secolarizzazione. Il mistero integra la dimensione visibile e quella invisibile. Il metodo del ciclo pastorale ci aiuta fare questa integrazione.

Poi l’Africa ci può aiutare a costruire la comunione. La comunità è il soggetto delle celebrazioni e non il prete con gli altri che assistono. Il prete solo preside e guida la celebrazione (cf. Socrosanctum concilium 14).

E poi può insegnarci il senso del pluralismo come dato di fatto a cui educarsi, anche se la globalizzazione cerca di eliminarlo, di appiattire tutto su modelli dominanti.

Bibliografia

McBrien, R.P. (1987). Ministry. A Theological, Pastoral Book. San Francisco: Harper San Francisco.

McBrien, R.P. (1989). Catholicism. Ristampa. London: Geoffrey Chapman 1981, 657-659; 667-675; 842-848.

O’Meara, T.F. (1999). Theology of Ministry. Revised ed. New York: Paulist Press, 139-167; 182-198.