Di Benito De Marchi
Il Gruppo Europeo di Riflessione Teologica (GERT) ha preparato, in vista del prossimo Capitolo Generale, alcune schede di riflessione destinate ai capitolari europei. Ecco la seconda.
Roma, 16.04.2009

1. La situazione paradossale degli Istituti Missionari all’inizio del terzo millennio.

Molti cambiamenti hanno avuto luogo sulla scena della missione da quando gli Istituti Missionari sono stati fondati.

La loro fondazione, per lo più nel XIX secolo, coincide con il momento culminante del modello ecclesiologico della “Chiesa universale”, di stampo fortemente giuridico. Se nel primo millennio l’esperienza della Chiesa è innazitutto quella della comunità locale, come una “fraternità” radunata attorno alla duplice mensa della parola di Dio e del corpo eucaristico di Cristo, sotto la presidenza del vescovo, e la stessa Catholica, vale a dire la Chiesa in quanto diffusa su tutta la terra, si definisce come la comunione eucaristica delle varie comunità locali, nel secondo millennio si affermano sempre più una prassi ecclesiale e la consequente concezione ecclesiologica che fa della Chiesa locale di Roma, la Ecclesia Romana, l’unico soggetto ecclesiale e la sorgente stessa della ecclesialità di una comunità cristiana. La relazione tra la Ecclesia Romana e il resto della Chiesa è così definita dai termini, giuridici e mistici ad un tempo(!), di caput, cardo, fons, fundamentum. Il vescovo di Roma, che di fatto è visto sempre meno come tale, viene a rappresentare il centro personale di questa nuova esperienza di Chiesa. La Chiesa si costituisce come “monarchia papale”, in cui tutto ruota attorno alla plenitudo potestatis del Papa, vicario di Cristo – un titolo ora riservato solo al vescovo di Roma; il Vaticano I con le sue definizioni dogmatiche del primato e dell’infallibilità papali, è il culmine di questo processo. È in riferimento a questa ecclesiologia fondamentalmente giuridica e gerarchica della Chiesa romana ‘universale’ che si sviluppa, in ambito cattolico, l’attività missionaria con la relativa riflessione missiologica specialmente dal secolo XVI al secolo XIX. Nel 1622 viene costituita la Congregazione per la Propagazione della fede – Propaganda Fide, un organo della Curia romana – per “sovraintendere a tutte le missioni”. A sua volta, Propaganda Fide incarica i vari Istituti cattolici, di vecchia e di nuova fonmdazione, di svolgere questa attività missionaria nel mondo non cristiano, in contrapposto all’Europa ritenuta cristiana e civile. In un certo senso, la missione, intesa come ‘missione estera o ad extra, diventa l’appannaggio dei vari Istituti e Congregazioni missionari, e questi, nella loro struttura come nel loro modo di sentire, riflettono il nuovo modello ecclesiale della Ecclesia Romana.

Da allora a oggi molto è cambiato, sia per quanto concerne le situazioni dei popoli a cui gli Istituti sono stati inviati e sia per quanto si riferisce alla autoscienza della Chiesa e alla sua comprensione della missione. Oggi, gli Istituti missionari non solo si trovano a lavorare praticamente dapertutto in un contesto di Chiese locali, ma sono pure sfidati dal ricupero, anche se non sempre pacifico, della visione ecclesiologica che vede la Chiesa a partire dalla concreta convocazione/assemblea dei credenti, in un dato tempo e luogo, dove è posta come ‘profezia’ del ‘Regno di Dio’. A guardar bene, è l’immaginario stesso della missione, nel quale gli Istituti missionari affondavano le loro radici, a essere messo in discussione. Questa è la stagione ‘paradossale’ che gli Istituti missionari si trovano a vivere: nati all’interno di una ecclesiologia di ‘Chiesa universale’, sono oggi chiamati ad operare in un contesto di Chiese locali, viste come forma originaria di essere Chiesa e come soggetti primari della missione, sia nel loro ambiente che a livello globale, in relazione ad un mondo che è al tempo stesso globalizzato e plurale. Gli Istituti missionari devono ora provare che non sono semplicemente un residuo della concezione universalistica e romanocentrica della Chiesa e di una visione di missione proselitista ed espansionistica. Essi si trovano davanti al drammatico dilemma di ‘reinventarsi’ o di ‘sciogliersi’. La riqualificazione richiesta non si ferma solo al discernimento degli impegni ma implica una ridefinizione del loro stesso carisma.

2. La Chiesa locale, soggetto della missione. Il mistero della Chiesa locale e la sua triplice apertura.

Il ricupero dell’ecclesiologia di Chiesa locale non può essere ridotto ad un avvicendarsi di poteri tra la Chiesa di Roma e la gerarchia locale. È piuttosto in gioco tutto un modo di essere Chiesa nel mondo. Non si tratta di trasferire a livello locale quell’apparato ideologico, giuridico e gerarchico proprio della ecclesiologia storica di Chiesa universale, ma di vedere il soggetto ecclesiale a partire dalla prospettiva del ‘mistero’ quale azione di Dio entro il contesto storico. De unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata (S. Cipriano, citato da LG 4): l’atto fontale della Chiesa è in quel evento assembleare che dalla divisione conduce alla condivisione fraterna attorno alla doppia mensa della Parola e del Corpo di Cristo (cf. Atti 2:42). Nata la prima volta quando i discepoli di Gesù si comunicarono e condivisero la loro esperienza pasquale, così la Chiesa continua a nascere dal di dentro dei vari contesti storici ogni qual volta abbia luogo una simile comunicazione. La Chiesa nasce lì, nel ‘luogo’, e quindi come Chiesa dai molti volti. E vi nasce come realtà comunicativa, sia per quanto concerne la sua struttura interna sia per quanto riguarda la sua relazione col mondo esterno. La sua localizzazione è a un tempo teologico-sacramentale, grazie alla presenza ‘qui e ora’ del mistero di Cristo, e antropologica, per la specifica ricchezza umano-culturale in cui il mistero di Cristo viene ad esprimersi assumendola.

D’altra parte, l’autentico ‘carattere ecclesiale’ della Chiesa locale rappresenta anche una sfida costante alla sua localizzazione. La comunità locale è continuamente superata dal mistero che la costituisce e che spezza i suoi limiti geografici e temporali, i suoi confini culturali e la sua configurazione strutturale, facendone una realtà aperta. Una tensione esistenziale tra la dimensione locale e il suo nucleo mistico e carismatico percorre la Chiesa locale in quanto soggetto ecclesiale e le impedisce di ridursi a ‘sistema chiuso’.

Un’apertura innanzitutto profetica e missionaria. L’evento della benevola (gracious) auto comunicazione di Dio al mondo attraverso il Figlio e lo Spirito sta nel cuore della Chiesa. Questo mistero di grazia spinge la Chiesa locale ad andare oltre sé stessa verso il mondo esterno, di cui pure è parte, e il futuro di Dio, al quale ultimamente appartiene. Nella sua intima natura la Chiesa è pervasa da una forza centrifuga che è il vento e la foza d’amore dello Spirito di cui fu pieno Gesù (Lc 4:18 = Atti 2:1ss.), e il suo spazio di vita è definito dalla duplice dinamica del mistero di Dio per la vita del mondo. La Chiesa che nasce sempre di nuovo nei vari contesti umani e sociali è per sua natura una comunità estroversa, spinta ad andare verso gli altri nella loro alterità, per vivere l’abbraccio universale di Dio e testimoniare quella novità e speranza che essa stessa sta sperimentando. I suoi occhi devono guardare di là dei suoi confini e il suo cuore battere all’unisono con quello di tutto il mondo.

Una seconda apertura è di carattere carismatico. La Chiesa che di conitnuo nasce all’interno dei diversi contesti umani è fondamentalemente un evento dello Spirito pentecostale, sigillo della auto-comunicazione divina. Lo Spirito fa della Chiesa lo spazio della libertà e della sorpresa di Dio. Nella struttura della Chiesa, Egli rappresenta l’elemento “anti-strutturale” che fa sì che la Chiesa resti uno spazio aperto. La varietà dei carismi, attraverso cui si manifesta la donatività divina, costruisce la Chiesa locale nella sua dimensione profetica e missionaria, come evento di libertà e fermento di liberazione.

Da qui scaturisce la terza apertura, quella della reciprocità con le altre comunità ecclesiali. La Chiesa locale è sì ‘Chiesa di Dio’ in senso pieno, ma non in modo autoreferenziale e, per così dire, come un’isola. Le varie comunità cristiane possiedono la loro ecclesialità in quanto si rispecchiano l’una nell’altra, attraverso la testimonianza e l’accoglienza reciproca, e condividendo la stessa missione quale preoccupazione di Dio per il mondo. Un’autentica ‘autosufficienza’ ecclesiale si rivela nel modo in cui una Chiesa locale contribuisce e si fa dono alle altre Chiese, mentre a sua volta riceve da loro in libertà.

3. Per una riconversione degli Istituti missionari. Essere all’intersezione tra l’apertura carismatico-missionaria della Chiesa locale e la comunione delle Chiese nella missione

La missionarietà è una qualifica dell’intero popolo di Dio, come testimone di Cristo e profeta del Regno nei vari spazi umani. Sulla base dell’unzione messianica suggellata dal battesimo, la missione qualifica la Chiesa in tutte le sue espressioni e trova il suo soggetto primario nelle varie comunità cristiane sparse per il mondo. Ciò comporta la rinuncia da parte degli Istituti missionari all’appannaggio della missione, quasi fosse una tra le tante attività della Chiesa riservata loro. La collocazione degli Istituti missionari non potrà essere che dentro il dinamismo missionario della Chiesa locale. Essi dovranno così accettare che la missionarietà delle Chiese locali si manifesti anche in altre forme e trovi altri agenti, con cui dovranno cooperare.
D’altra parte, la rinuncia all’esclusività ed indipendenza non signfica abdicazione o appiattimento. Proprio quella ‘triplice apertura’ che definisce l’ecclesialità di ogni comunità offre agli Instituti missionari la possibilità di un inserimento nella Chiesa locale che sia qualificante, capace cioè di ‘tensione’ positiva e creativa, espressa nel fatto che essi vengono a vivere ed operare all’interno della comunione della Chiesa locale senza peraltro diventare semplicemente parte della struttura di quest’ultima, e diretta a mantenere viva ed attiva la dimensione carismatica, profetica ed estroversa di ciascuna Chiesa locale e dell’intera comunione delle Chiese.

Innanzitutto, assieme ad altre libere organizzazioni del popolo di Dio, gli Istituti missionari, in quanto affermazione di carismi particolari e a dispetto del nome stesso di “istituti”, vengono a rappresentare all’interno della costituzione della Chiesa locale quell’elemento antistrutturale indispensabile proprio dell’evento-Chiesa e a rivendicare così entro l’apparato istituzionale il diritto alla libertà cristiana nel servire gli altri.

In particolare, la loro presenza in qualche modo atipica ribadisce che il cuore dell’ecclesiologia della Chiesa locale non consiste in una articolazione del ‘potere sacro’ (sacra potestas) , ma in una ‘ontologia della grazia’ e in una teologia del comune ‘discepolato’. È il mistero di grazia a plasmare e strutturare la Chiesa come popolo di Dio messianico e missionario, in relazione alla ricchezza dei doni dello Spirito e all’unicità di ogni persona. In ciascun luogo come nel mondo intero, la Chiesa è costruita da Dio come ‘sinfonia’ di doni e vocazioni, in un tessuto di scambi e di contributi reciproci. Prima di qualsiasi specificazione giuridica, la relazione tra gli Istituti missionari e la Chiesa locale deve essere vista e la rispettiva tensione risolta a livello dell’esistenza cristiana e del tessuto della vita. Entro questo contesto di comunione nella pluralità, gli Istituti missionari vengono a “simboleggiare” in modo pro-attivo, anche se non esclusivo, la spinta missionaria della comunità cristiana verso l’altro e l’esterno e la sua carica messianco-profetica. Come ci sono missionari perchè la comunità cristiana è in quanto tale missionaria, così la comunità è mantenuta nella sua missionarietà perchè in essa ci sono i missionari.

Questo carattere simbolico viene a realizzarsi infine anche a riguardo della comunione delle Chiese nella missione. Con Chiese locali costituite ormai un pò ovunque, gli Istituti missionari sono già diventati, di fatto, parte di una rete di scambio e mutuo sostegno tra le Chiese nel lavoro di missione. Ma ciò può acquistare una vera valenza teologica. Anche se la Chiesa universale non può essere oggettivata in una realtà giuridico-istituzionale che esista parallelamente o addirittura anteriormente alle Chiese locali, è comunque necessario che la stessa comunione delle Chiese trovi espressione in una appropriata strutturazione simbolica, come ad esempio in una rete conciliare-sinodale. In questa prospettiva, il lavoro di rete svolto dagli Istiututi missionari diviene teologicamente significante. Man mano che gli Istituti missionari divengono espressione della comunione delle Chiese in una missione condivisa, la loro riconversione va prendendo forma: essi si trasformano gradualmente in una forza trainante del movimento missionario ecclesiale globale. Più la missione diventa ‘globale’ nel mondo d’oggi, più questa trasformazione diviene necessaria.

Riassumendo, in una ecclesiologia di Chiese locali, una riconversione degli Istituti missionari può avvenire nel segno della libertà dello Spirito nel costruire la Chiesa e nel creare una storia di salvezza, della ‘estroversione’ della Chiesa come Chiesa-per-il mondo, e della comunione delle Chiese nella missione.

4. Provocazioni concrete.

Da questa riflessione teologica è possibile estrarre alcune provocazioni per il prossimo Capitolo Generale, tanto più che nei documenti pre-capitolari, al di là di alcuni richiami, vaghi e piuttosto ‘pii’, al rispetto e alla collaborazione con la Chiesa locale, quest’ultima non vi appare come il riferimento storico e teologico per la missione oggi e per il futuro dell’Istituto comboniano. Formuliamo queste provocazioni in forma di domande.

Prima domanda: Non viene ancora una volta ribadito il superamento di una concezione geografica della missione e della distinzione tradizionale tra lavoro missionario e animazione missionaria, dal momento che oggi gli Istituti missionari si trovano ad operare dapertutto in seno a Chiesa locali che si definiscono come Chiese-in-missione, non solo per ragione di circostanze storiche, essendo la Chiesa ormai un pò ovunque ‘Chiesa in diaspora’, ma più ancora in forza di una rinnovata autocoscienza? Non è che la cosidetta ‘animazione missionaria’ vada reinterpretata in termini di effettiva ‘presenza evangelizzatrice’? Le linee di confine della missione non corrono più tra la ‘cristianità’ e i ‘paesi pagani’, bensì tra la Chiesa e il mondo di cui fa pure parte. La frontiera missionaria attraversa ciascun paese, e nel fare missione la Chiesa stessa continua ad essere evengelizzata, condividendo ambedue -Chiesa e mondo- il cammino verso il Regno di Dio.

Seconda domanda: Non richiederebbe l’inserimento nella dinamica missionaria della Chiesa locale un maggiore ancoramento nel “territorio”, nella “località” della Chiesa locale? Non dovrebbero i contenuti stessi della missione essere specificati in relazione alla situazione concreta locale analizzata in un confronto critico col sogno di Dio per il mondo? Così l’inserzione degli Istituto missionario nella Chiesa locale avrebbe modo di coniugarsi con l’esercizio del suo specifico ruolo profetico, e la missione globale verrebbe ad articolarsi in modo differenziato e plurale. Ciò vale tanto in Europa quanto altrove, come parte del processo di inculturazione della missione.

Terza domanda: Non potrebbe questa presenza missionaria nel territorio avvenire attraverso comunità comboniane di inserzione in contesti di marginalità o, secondo un altro linguaggio, “ai confini” delle varie società di oggi? In queste comunità d’inserzione, la spiritualità e metodologia comboniana del “cenacolo di apostoli” potrebbe trovare una sua reinvenzione: comunità aperte nella condivisione con gli ultimi e gli esclusi ad imitazione della prassi messianica di Gesù che mangia con coloro con cui nessuno vuole mangiare; comunità estroverse che, come nel caso del primo cenacolo, lo Spirito di Pentecoste ‘svuota’ per farlo ritrovare nell’incontro con l’altro; comunità che invece di sostituire la Chiesa locale, la vogliono contagiare.

Quarta domanda: Una sfida tutta particolare per gli Istituti missionari è dover fare missione con le giovani Chiese locali nate dalla loro attività missionaria. Non solo da ‘fondatori’ e primi protagonisti, i missionari sono chiamati ritirarsi sullo sfondo e a ripetere con Giovanni Battista “Egli deve crescere, io invece diminuire” (Gv 3:30), ma più ancora quale sarà l’immagine della missione una volta che essa sarà considerata dal punto di vista di coloro che fino ad oggi ne sono stati la ‘periferia’ e l’‘oggetto’? Quali motivi teologici metteranno in movimento i cristiani di altre culture nel loro impegno missionario? Come inserirsi col proprio carisma nel movimento missionario delle nuove Chiese senza tornare a farla da padroni? Perché questo è il duplice rischio che gli Istituti missionari oggi corrono: o di mantenere la loro posizione di potere e di controllo, o di abdicare a qualunque responsabilità profetica che derivi dal loro carisma. Come va reinterpretato lo stesso carisma dell’Istituto missionario in questo nuovo contesto ecclesiale? Come aiutare una giovane Chiesa a crescere come ‘soggetto’ di un processo evangelico, nella capacità ‘profetico-missionaria’ non solo e non primariamente di inviare a sua volta missionari da qualche altra parte, ma soprattutto di sfidare in maniera costruttiva la cultura e il contesto sociale in cui è inserita e di essere lievito di una società alternativa?

Quinta domanda: Se la Chiesa locale nel suo insieme è il soggeto vero e proprio della missione, non si dovrebbe porre diversamente l’annosa questione del personale? Sembrerebbe infatti ovvio che la presenza di missionari vada affrontata non più in termini quantitativi quanto invece di ‘significatività’, in relazione alla crescita della Chiesa locale verso quella ‘autosufficienza’ propria di un soggetto ecclesiale profetico-missionario radicato nel suo contesto storico-culturale. In questo senso, non si dovrebbe forse interpretare il fenomeno della diminuzione delle vocazioni per gli Istituti missionari e il fatto che i loro membri provengono sempre più dalle giovani Chiese come un ‘segno dello Spirito’ perchè queste Chiese siano sempre meno sotto il ‘patrocinio’ di missionari stranieri e più libere di darsi un proprio volto? Infine, in una prospettiva di integrazione nella missione della Chiesa locale, non si dovrebbe sottoporre ad una seria valutazione critica il sistema della rotazione, che sembra rispondere più ad una logica interna di Istituto che di missione? Come poter conciliare il riferimento con la Chiesa locale con un certo grado di rotazione?

Sesta domanda: Lo stesso discorso si estende all’altra spinosa questione dei soldi e dei mezzi. Certo il ruolo degli Istituti missionari nello scambio e nel reciproco sostegno tra le Chiese locali nella comune missione riguarda anche la condivisione materiale, particolarmente in un sistema economico-finaziario come quello attuale, caratterizzato da ingiustizie e scandalose disugualianze; nè si tratta di demonizzare la prassi missionaria dei ‘progetti’, come la sintesi sulla ratio missionis sembra un pò fare. Tuttavia, non richiede la crescita di una comunità cristiana a soggetto ecclesiale della missione che essa non sia in una permanente condizione di dipendenza economica? Un certo modo di aiutare le Chiese locali più povere non tradisce forse una ‘condiscendenza’ di tipo paternalista? Non si richiede piuttosto un fare causa comune, sia in un processo profetico di smascheramento e denuncia dei vari meccanismi di ingiustizia e sfruttamento sia soprattutto in una una maggiore condivisione dei beni e dello stile vita locale? In contesti di impoverimento e marginalizzazione, una Chiesa profetica è quella che, contando sulle risorse locali, condivide la fatica delle gente, mostra come comunque si possa ancora mantenere e lottare per la propria dignità e costruisce una relazione di fraternità capace di cambiare la realtà. La questione dei mezzi non andrebbe allora affrontata sulla linea dell’essere e trasformare con i poveri e come poveri più che del fare per i poveri (cf. Documento proposto ai Delegati al Capitolo Generale 2009, “Missione: Vivere e Lavorare con i più poveri ai margini”, 3.3.3)?

Settima domanda: Il passaggio da un’ecclesiologia universale a un’ecclesiologia di Chiesa locale ha un riverbero sulla stessa struttura e governo dell’Istituto comboniano. Nato nel contesto dell’ecclesiologia della Chiesa romana ‘universale’ esso ne riproduce il modello piramidale e centralizzato. Non richiederebbe una riconversione dell’Istituto in prospettiva di Chiesa locale non solo una profonda decentralizzazione, ma più ancora una decentralizzazione che muovesse dalla comunità comboniana locale come soggetto primario per poi allargarsi in cerchi concentrici a sempre più ampio raggio, secondo una dinamica di sussidiarità e secondo strutture essenziali, agili e flessibili? L’attuale struttura dell’Istituto non solo contraddice l’ecclesiologia di partecipazione della Chiesa locale, ma fa sì anche che il discorso comboniano sulla missione finisca spesso per ridursi ad un discorso sull’Istituto stesso: più ci si discosta dal tessuto concreto della vita ecclesiale e missionaria, più il richiamo alla missione diventa rarefatto ed astratto. Tant’è vero che proprio quello che doveva essere l’obiettivo fondamentale del processo della ratio missionis e quindi del prossimo Capitolo Generale, e cioè una riqualificazione della missione, è, di fatto, scomparso sia dalla sintesi di quel processo che dagli altri documenti precapitolari: non solo non sono offerti elementi signficativi per una riqualificazione della missione, ma non vi è neppure una vera riflessione teologica sulla missione stessa. In ultima analisi, è la comunità nel territorio ad intessere una relazione missionaria significativa con la Chiesa locale. Ed è parte del ruolo delle strutture sussidiare dell’Istituto abilitare tali comunità a sviluppare una riflessione sulla missione che risponda alle realtà locali.

Ottava domanda: Un riverbero dell’ecclesiologia di Chiesa locale ricade anche sul processo formativo comboniano. Finora si è fortemente insistito nell’Istituto comboniano sulla ‘internazionalità’ come un valore importante e integrativo del cammino formativo. Senza negare il significato dell’internazionalità per un Istituto missionario, specialmente in um tempo di globalizzazione e di grande mobilità, ci si può tuttavia domandare se ancora una volta l’attenzione non verta più sugli interessi dell’Istituto che non della missione stessa. In una prospettiva di missione incentrata sulla Chiesa locale, non dovrebbe lo stesso aspetto dell’internazionalità essere ultimamente integrato in un processo formativo orientato all’inculturazione, a preparare cioè missionari che, senz’altro aperti all’interculturalità, siano tuttavia pronti ad inserirsi nella missione come condivisa da Chiese locali di un determinato contesto socio-culturale? Non ci si dovrebbe aspettare che almeno la fase finale della loro formazione (scolasticato) avvenga là dove i missionari dovranno poi per lo più lavorare, e in stretto rapporto con la vita della gente e il cammino formativo di altri operatori apostolici di quelle Chiese? Non sarebbe questo un passo importante per “preparare alla missione attraverso la missione” (cf. Commissione Tematica sulla Formazione, “In cammino verso il Capitolo”, n. 4) e in vista di una decentralizzazione che conduca ad una pluralità di forme dell’esperienza comboniana e ad un Istituto comboniano dai molti volti, riflesso di una Chiesa universale configurata come comunione di Chiese locali?

Nona domanda: Diventare un fattore espressivo e provocativo (nel senso originario di pro-vocatio) della missione delle Chiese locali non significa ultimamente che gli Istituti missionari si trasformino in (ridiventino?) un movimento missionario che percorra le varie Chiese per testimoniare la grande com-passione di Dio ed aprire il mondo alla festa di pace di una umanità riconciliata nella diversità? Non sarebbe anche questo passo parte di quel processo secondo cui “è bene che io diminuisca perchè egli cresca”? E in questa prospettiva non si richiederebbe che i vari Istituti missionari, pur mantenendo la loro specificità come parte della festa della prodigalità divina e della ricchezza umana, vivano e lavorino nella reciprocità come mediazione della comunione delle Chiese nella condivisione della missione messianica di Gesù?

Di Benito De Marchi

Per una riconversione degli Istituti missionari