Martedì 18 giugno 2019
I rappresentanti dei gruppi dei laici dei vari istituti missionari [Suam – Segretariato unitario dell’animazione missionaria] e fidei donum della diocesi di Roma si sono radunati dal 14 al 16 giugno 2019 presso la Casa generalizia dei Missionari Comboniani a Roma. Erano in tutto una trentina di persone: missionari di Villaregia, Saveriani, Consolata, PIME, Francescani, Comboniani/e, e altri istituti. Tra questi, due coppie di laici [nella foto] hanno condiviso le loro esperienze, una a Palermo (Laici Missionari Comboniani) e l’altra a Padova (Comunità Malbes, con le missionarie comboniane).

“Partire è anzitutto uscire da sé. Partire è mettersi in marcia e aiutare gli altri a cominciare la stessa marcia per costruire un mondo più giusto e umano”
(Mons. Hélder Câmara).

L’incontro aveva come obiettivo mettere a confronto le esperienze di missione all’estero e nel territorio di appartenenza per migliorare la presenza missionaria nella Chiesa locale, nei gruppi e nella società civile. Sono stati due giorni di confronto, ascolto, riflessione e programmazione.

È stata un’occasione in cui le diverse realtà, al di là delle proprie identità, hanno avuto la possibilità di condividere e scambiarsi percorsi, desideri e preoccupazioni missionarie.

In particolare, i partecipanti sono stati arricchiti dalla riflessione di Marco Vergottini (teologo laico, stretto collaboratore del cardinale Martini e Vice-Presidente dell’Associazione Teologica Italiana) il quale, attraverso la sua relazione dal titolo “Il cristiano testimone. Identità e missione”, li ha guidati in una rilettura critica di alcuni documenti conciliari, invitandoli a superare la categoria di “laico”, a favore dell’espressione “testimone cristiano”, nell’intento di ribaltare distanze gerarchiche che nei secoli hanno determinato sistemi di potere e incomprensioni.

Testimonianze missionarie ad gentes e in Italia

Laica dell’Alp (Associazione laici del PIME).

Ci sono state le testimonianze di una laica dell’Alp (Associazione laici del PIME), sulle esperienze missionarie nel sud del mondo, e di una coppia, Fulvio ed Elisa, del CDM (centro missionario diocesano di Roma), che hanno descritto la loro affascinante esperienza missionaria in Mozambico e il loro ritorno alla Chiesa romana, con le difficoltà incontrate nell’essere accolti e valorizzati dalla Chiesa capitolina.

Domenica, infine, due coppie hanno raccontato le esperienze comboniane – di comunità e condivisione – di Malbes e della Zattera: “esperienze missionarie a Km0 (kilometro zero)”, hanno detto.

Malbes è la comunità comboniana di Padova, dove vivono una famiglia (Carla e Mario e le loro figlie) insieme a due suore comboniane (Carmela e Marina) che da quattro anni fanno un servizio di animazione missionaria a partire dalla canonica, arricchiti dall’esperienza di accoglienza di due donne africane e dei loro figli.

Di seguito, è stata raccontata l’esperienza della Zattera, una comunità di laici missionari comboniani, nella quale la coppia Dorotea e Tony Scardamaglia e Maria (singola) da più di dieci anni vivono la condivisione e l’interazione tra di loro e con tanti immigrati/e che giungono dall’Africa, desiderosi di trovare un futuro migliore.

Alla fine, si sono tracciate alcune linee programmatiche future… “Il tutto – ha detto Tony Scardamaglia – nel desiderio di poter continuare un percorso che ci aiuti a “meticciarci”, a scambiarci percorsi e cammini per un mondo più giusto e umano”.

IL CRISTIANO TESTIMONE
IDENTITÀ E MISSIONE
Marco Vergottini

1. Il messaggio del Concilio Vaticano II: dal laicus al christifidelis

Molto si potrebbe dire in merito alla riflessione teologica sui fedeli laici. Ma tutto ciò che supremamente conta è risalire alla lezione del Vaticano II, che con enfasi forse eccessiva è stato chiamato il «Concilio dei laici», a motivo del fatto che su 16 documenti promulgati nelle quattro sessioni conciliari, ben 14 fanno espressamente riferimento al lemma ‘laico’, ‘laicato’.

Certo i tre luoghi principali su cui ricostruire la questione dei laici sono Lumen Gentium (= LG), il decreto sull’apostolato dei laici, Apostolicam Actuositatem (= AA), senza dimenticare Gaudium et Spes (= GS), che parla poco di laici, ma nella seconda parte affronta i temi della cultura, del matrimonio e della famiglia, della pace, dell’impegno in politica.

Occorre però risalire a un antefatto che risale alla prima metà del secolo scorso, vale a dire al riscatto dei laici dalla plurisecolare condizione di sudditanza e di marginalità nell’ambito ecclesiale, grazie all’attività del laicato cattolico in forma associata (soprattutto nella forma dell’Azione cattolica), e alla nascita della cosiddetta ‘teologia del laicato’ in area francese. Quest’ultima ha il suo apice nell’opera di Yves Congar, che nel 1953 scrisse un ponderoso volume Jalons pour une théologie du laïcat, in cui veniva specificata l’indole propria dei laici. Ecco una celebre citazione contenuta nel testo:

Il laico sarà dunque colui per il quale, nell’opera stessa che Dio gli ha affidato, la sostanza delle cose in se stesse esiste ed è interessante. Il chierico, e più ancora il monaco, è un uomo per il quale le cose non sono interessanti in se stesse, ma in relazione ad altro, cioè nel rapporto che le lega a Dio, che esse fanno conoscere e possono aiutare a servire [Y. Congar, Per una teologia del laicato, Morcelliana, Brescia 1966, p. 39].

La formulazione «per il laico le cose esistono in se stesse» è certamente suggestiva e accattivante; non a caso è una delle espressioni più gettonate del libro di Congar. Quindi la soluzione proposta dalla teologia del laicato al fine di restituire credibilità e rilievo alla figura dei cristiani laici non è altro che l’esito di una concezione assai schematica del binomio Chiesa-mondo, che poggia sul presupposto di uno schema convenzionale che divide due ordini, l’ordine soprannaturale e l’ordine naturale. Se i chierici e i religiosi, secondo questo schema, santificherebbero la loro esistenza nella dedizione al polo soprannaturale (tanto che si parlava di ‘vocazione di speciale consacrazione’) che si interessa direttamente dell’annuncio del Vangelo, viceversa ai laici, di cui si dice «attendono alle realtà temporali», è dato realizzare la loro vocazione cristiana nel quadro dell’opera della creazione. Essi vivono nel mondo: questo il tratto qualificante dello stato di vita laicale; col risultato che si cercava di definire la figura dei laici per differenza rispetto alla vocazione clericale-religiosa, nella linea di una specializzazione che finiva per sottovalutare l’elemento comune di ogni vocazione cristiana, l’identità cristiana, che non può essere affatto considerata alla stregua di una determinazione generica. Un tale (pre)giudizio trascina con sé l’idea di dover correggere quella deriva clericale che ha fatto del prete il dominus sulla scena ecclesiale. Ecco allora per qual motivo Congar ha inteso assegnare ai laici il compito di testimoniare con la loro opera l’intuizione che la Chiesa, per giungere alla pienezza della sua missione secondo il piano divino, non può esonerarsi dall’impegno nelle strutture del mondo e nell’opera temporale. La precarietà dello schema di Congar non sfuggì a un recensore contemporaneo, che lucidamente argomentò: «il clero di padre Congar è platonico, il laicato è aristotelico; il mondo non esiste abbastanza per questo clero ed esiste troppo per questo laicato» (É. Borne). Una pennellata molto felice. Del resto lo stesso Congar agli inizi degli anni ’70 fece un’autocritica, ricordando che «l’inconveniente della mia posizione era forse di distinguere troppo bene». Però distinguere ‘troppo bene’ significa distinguere ‘male’.

Nella redazione della LG, si registrò una svolta decisiva allorché nel primitivo schema de Ecclesia il III capitolo (dopo quello sulla Chiesa-mistero e quello sull’episcopato) si intitolava «Il popolo di Dio e specialmente i laici». Fu il cardinale Suenens a obiettare che tale successione implicava che dalla nozione di popolo di Dio fossero esclusi (!) i ministri ordinati, secondo un ordine piramidale e gerarcologico. Invece sono tutti i battezzati a far parte del popolo di Dio, così che l’ordine fu così ristabilito: la Chiesa-mistero (I cap.), la Chiesa-popolo di Dio (II cap.), l’episcopato (III cap.), i laici (IV cap.), l’universale chiamata alla santità (V cap.), i religiosi (VI cap.) ecc.

Nel II e decisivo capitolo, LG afferma che le categorie di Gesù Cristo, re, sacerdote e profeta sono da attribuire all’intera Chiesa, così che ogni christifidelis è re, sacerdote e profeta. Ogni cristiano è sacerdote (anche le donne!). C’è un sacerdozio universale che è fondamentale, sul quale poi si innesta il sacerdozio gerarchico. «Partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, i credenti offrono a Dio la vittima divina e se stessi con essa» (LG 11) Quindi a partire dal sacerdozio comune dei fedeli noi possiamo affermare che la vittima, l’ostia, è principalmente Gesù Cristo, ma è anche la vita di ogni credente. Dovremmo al riguardo rinviare a Sacrosanctum concilium, dove si dice che a celebrare l’eucaristia è l’assemblea dei fedeli, non soltanto chi la presiede.

LG 12 è poi un testo capitale, uno dei germi del Concilio che ancora deve maturare, ma con papa Francesco siamo autorizzati a sperare nell’idea di una Chiesa sinodale: «La totalità dei fedeli, avendo l'unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere». A chi era abituato a pensare un po’ semplicisticamente che solo il Papa è infallibile, si ricorda che l’infallibilità riguarda l’intero corpo dei fedeli, che non possono sbagliarsi nel credere. È questa la dottrina del sensus fidei. E ancora, LG 13 afferma: «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il popolo di Dio».

Nel cap. IV di LG il discorso riprende invece la trattazione tradizionale, laddove si dice:

il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici […] Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta (LG 31).

Non sono poche le difficoltà racchiuse in questo testo, a partire dalla indeterminatezza di alcune categorie utilizzate. Che cosa sono le «cose temporali»? Ad esempio, il matrimonio e la famiglia sono realtà temporali? E che cosa significa «ordinare secondo Dio»? L’edificazione della Chiesa può essere affidata soltanto ai sacerdoti? O ancora i consigli evangelici (riservati ai religiosi nel cap. VI di LG) – vale a dire, la povertà, la castità e l’obbedienza – non fanno parte di quella santità e perfezione di vita evangelica che riguarda tutti? Resta poi da chiedersi in che senso i compiti affidati ai laici non meritino di essere riferiti alla responsabilità e alla competenza della Chiesa tutta. Da un lato, si sostiene che i soli laici sono «implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta»; dall’altro, non passa giorno che il papa, i vescovi, i nostri sacerdoti, nella loro predicazione e nel loro insegnamento esorbitino rispetto alla sfera strettamente spirituale, mandando dei messaggi per la pace nel mondo, per la custodia del creato, per l’attenzione, per la responsabilità sul lavoro, per l’apertura nei confronti dei fratelli immigrati… Dovremmo dire che questi sono temi che riguardano solo i laici? No, perché è tutta la Chiesa che ha il compito di vivere la testimonianza cristiana nella storia.

Per concludere. Nei testi conciliari (e il discorso può essere puntualmente illustrato alla luce di GS, più ancora nel decreto AA), è dato riscontrare un duplice movimento, una duplice tensione irrisolta: da un lato, si focalizza l’attenzione sulla figura del cristiano (christifidelis), quindi in un certo senso si relativizza e si supera il discorso riguardo alla specificità dell’essere laico. D’altro lato, il Concilio muove invece nella scia della tradizionale “teologia del laicato”, mettendo in luce la fisionomia peculiare del laico (secolarità), riconoscendolo come quel credente che testimonia la fede cristiana sulla scena del mondo, anche se poi ci si preoccupa di recuperare il carattere propriamente ecclesiale della sua missione.

2. In vista di un’autentica consapevolezza della vocazione cristiana

A nessuno sfugge che il discorso non è affatto concluso, allorché si è pervenuti sul piano dei principi a recuperare la prospettiva che ultimamente contrassegna l’esistenza dei credenti in Cristo. Se è vero infatti che sussistono tuttora non poche resistenze nell’assimilare e interiorizzare questa esigenza della chiamata universale alla radicalità evangelica, occorre realisticamente interrogarsi sulle ragioni che hanno concorso a relegare in una condizione passiva e gregaria la maggioranza dei credenti, al fine poi di promuovere tutte quelle dinamiche ed energie che possono contribuire a fare sì che tutti i battezzati divengano sempre più consapevoli delle responsabilità spirituali, ecclesiali ed etiche connesse all’opzione cristiana.

Nella congiuntura odierna della Chiesa, l’istanza di una fattiva abilitazione dei fedeli laici alla missione e alle responsabilità che competono loro in quanto credenti nel Signore suggerisce di affrontare alcune questioni irrisolte sul fronte dell’appartenenza ecclesiastica, della qualità dell’agire morale, e della vita secondo lo Spirito.

2.1 Appartenenza ecclesiastica

Riguardo al primo aspetto, il discorso deve procedere dalle condizioni di obiettivo disagio vissuto dalla maggioranza dei credenti, i laici, in ordine al problema dell’appartenenza alla comunità cristiana e dei rapporti con le altre componenti. In chiave di ricognizione fenomenologica occorre impegnarsi in una puntuale diagnosi dei molti effetti distiorti che si riproducono nella vita ecclesiastica (per es. basti solo accennare a questioni qua­li la scarsa valorizzazione delle donne, la divaricazione che disingue i cosiddetti laici “impegnati” dai cristiani “solo praticanti”, il persistere dello scoglio del clericalismo, la tensione istituzione/mo­vimenti, ecc.). Se il traguardo da raggiungere è di restituire piena responsabilità e competenza ecclesiale a ogni credente, i problemi nascono precisamente quando ci si chiede a quali condizioni, attraverso quali itinerari formativi e alla luce di quale pedagogia ecclesiastica è possibile realizzare, o almeno favorire il più possibile, un tale modello di partecipazione corresponsabile nella Chiesa.

2.2 La qualità dell’agire morale

Sul secondo aspetto, quello tradizionalmente assegnato ai laici in virtù della loro più diretta immersione nelle vicende civili, il discorso dovrà muovere dal diffuso senso di estraneità patito oggi dalla coscienza credente nei confronti delle dinamiche del vivere sociale e politico. Nell’attuale contesto epocale, contrassegnato dalla conflittualità-complessità del sistema sociale e della vicenda storico-civile, per il cristiano il vero nodo sotto il profilo etico va rinvenuto nella possibilità di individuare, oltre la prospettiva di un “impossibile” radicalismo evangelico, come pure di un troppo accomodante spirito di adattamento o di compromesso una terza via, la via buona, praticabile dell’esistenza morale. Anche qui, si tratta del compito ecclesiale di formare nei cristiani una coscienza retta e matura, istruita nell’esercizio del discernimento e capace di rendere testimonianza alla sequela di Gesù

2.3 La vita secondo lo Spirito

In terzo luogo, una volta dissipato l’equivoco di una via minore o maggiore alla chiamata del Signore, si deve riconoscere come l’unica spiritua­lità evangelica è quella di chi si dispone a seguire Gesù nella decli­nazione concreta della propria esistenza. La possibilità di que­sta figura spirituale - ma che poi è la stessa possibilità della fede in quan­to tale - è legata precisamente alla formazione del cristiano, anche sotto il profilo teologico. Si tratta dunque di rendere possibile, praticabile, plausi­bile ciò che è doverosamente richiesto dall’Evangelo. Ora questa possibilità dev’essere reclamata e promossa non già per qualche vocazione cristiana o per qualche élite, ma per ogni cristiano: al di là di questo niente infatti dev’essere richiesto di più, ma niente dovrebbe essere richiesto di meno.

Parlare di “vocazione universale alla santità nella Chiesa” richiede, per un verso, di porre l’accento sul carattere di universalità di tale chiamata, escludendo, dunque, ogni prospettiva elitaria, come pure qualsiasi interpretazione di tipo individualistico della vita spirituale: se è un popolo ad essere chiamato alla santità, dev’essere rimarcato il carattere di effettiva possibilità e praticabilità della risposta, di tutti e di ciascuno, alla elezione del Signore; il Signore chiama tutti, nessuno escluso.

3. La lezione dell’A Diogneto

Con un’efficacia insuperata nella Lettera A Diogneto – scritta da un autore cristiano anonimo del II secolo – è messo a fuoco il carattere originale, “paradossale”, dell’identità e della prassi dei cristiani, sollecitati da una fedeltà alla cittadinanza celeste e, insieme, da una lealtà nei confronti della “città dell’uomo”. In primo luogo, la coscienza credente invoca l’esistenza di un «luogo» - vale a dire il territorio, ma anche la lingua, l’ethos - per vivere e praticare i comandamenti di Dio; in questo senso i cristiani non rivendicano paese, lingua e costume propri. In secondo luogo, però, essi professano la trascendenza del comandamento di Dio rispetto a qualsiasi norma sancita dalla tradizione civile; al punto che, riconoscendosi ultimamente estranei rispetto a ogni patria, i cristiani sperimentano nei loro confronti una consistente ragione di ostilità da parte dei pagani.

Mettiamoci in ascolto di questa straordinaria pagina della tradizione della Chiesa apostolica:

V. Il mistero cristiano

1. I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini.

2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale.

3. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una corrente filosofica umana, come fanno gli altri.

4. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale.

5. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera.

6. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati.

7. Mettono in comune la mensa, ma non il letto.

8. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne.

9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo.

10. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi.

11. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati.

12. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere.

13. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano.

14. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti.

15. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati ed onorano.

16. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita.

17. Dai giudei sono combattuti come stranieri, e dai greci perseguitati, e coloro che li odiano non saprebbero dire il motivo dell’odio.

VI. L’anima del mondo

1. A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani.

4. Retta ermeneutica del Decretum Gratiani e svolta tridentina

Una rivisitazione critica della «storia del laicato» suggerisce di prendere le distanze da quel procedimento che si prefigge di descrivere tale vicenda come un continuum dalla fase post-aposto­lica fino ad oggi.

In prima battuta, è importante disinnescare il celebre topos del duo sunt genera christianorum, come ritorna icasticamente nel Decretum Gratiani (1140), divenuto un vero locus theologicus della storiografia sul laicato:

Due sono i generi dei cristiani. C’è infatti un genere che, riservato per il divino ufficio e dedito alla contemplazione e all’orazione, conviene che si sottragga da ogni tumulto delle cose temporali: sono i chierici e i votati a Dio, cioè coloro che hanno mutato radicalmente vita convertendosi. Κλῆρος infatti in greco è sors in latino. Perciò gli uomini di questo tipo sono chiamati chierici, cioè scelti per sorte; tutti questi, infatti, Dio scelse come suoi […] Invece c’è un altro genere di cristiani, come sono i laici. Λαός infatti è popolo. A costoro è lecito possedere i beni temporali, ma soltanto in uso. Non vi è nulla infatti di più meschino che disprezzare Dio per denaro. Ad essi è concesso prender moglie, coltivare la terra, giudicare le controversie fra uomo e uomo, intraprendere azioni legali, deporre sull’altare le oblazioni, pagare le decime; e così potranno salvarsi, se eviteranno tuttavia i vizi facendo il bene [Decretum Magistri Gratiani, Secunda Pars, XII, q. I, c. VII].

Ora l’ambiente originario del celebre passo non avvalora la pretesa avanzata da Congar – e dalla storiografia teologica che da lui dipende – di ritrovare qui il teorema della strutturale bipartizione del popolo cristiano, poiché il contesto immediato del cap. XII del Decretum Gratiani non sarebbe affatto da collocare sul piano ecclesiologico, bensì su quello piano delle azioni lecite e del diritto puramente patrimoniale. Si potrebbe persino azzardare che il vero interesse del ragionamento di Graziano verta non soprattutto sui laici, ma sui chierici che come tali non possono possedere beni temporali, né disporre a loro riguardo. Di conseguenza, la distinzione tra laici e chierici obbedisce a una logica puramente funzionale: ai primi è consentito possedere e, se del caso, difendere anche legalmente i beni materiali di loro proprietà; ai secondi, invece, non è lecito possedere alcunché, dovendo essere del tutto distaccati, anche giuridicamente, dai beni secolari. L’estrapolazione dal contesto originario della formula duo sunt genera christianorum disattende non soltanto l’intentio auctoris, ma opera un’indebita forzatura concettuale in ordine all’identità dei laici che si trascinerà per secoli.

Una nuova pista interpretativa sostiene che il co­stituirsi della nozione laico/laicato (nell’uso invalso ancor oggi) è da individuare con l’ingresso nell’età moderna, rispettivamente con la vicenda della Riforma protestante, nonché con l'im­porsi del nuovo clima spirituale della modernità. La fisionomia dei laici nasce con la Riforma cattolica, nel senso che l'investimento di energie a favore di una formazione liturgica, dottrinale e spirituale del clero comportò un processo di gerarchizzazione della Chiesa cattolica, col risultato di confinare i comuni fedeli in un ruolo subordinato e passivo. In un senso, col risultato di far ‘nascere’ il laicato. Infatti, quanto più rispetto al passato il ministro ordinato divenne il rappresentante ideale e consapevole dell’identità cristiana, tanto più la condizione laicale venne connotandosi per sottrazione dal modello clericale (e religioso).

5. La teologia che «serve» alla spiritualità e alla pastorale

Quanto alla teologia, il suo esercizio di sapere critico non può affatto concludersi con la ricostruzione analitica e l’ascolto fedele dei pronunciamenti conciliari, ma deve puntare in chiave critica a co­glierne la portata e la logica intrinseca, senza sottrarsi alla fatica di avallare le acquisizioni obiettive, di indagare eventuali inconseguenze e, soprattutto, di esplorare nuovi sviluppi e auspicabili incrementi.

Il discorso non può essere liquidato in poche battute. Nel quadro della svolta ecclesiologica di LG, una corretta ermeneutica dell’apporto conciliare suggerisce di mettere fine alla ricerca di una defini­zione dottrinale e normativa di laico, invitando a ricentrare l'attenzione sulla figura del christifideles. In questa linea la que­stione laicale dovrebbe essere ricollocata non più all’interno della trattazione sistematica, bensì nel quadro della riflessione teo­logico-pratica, cioè a partire dalle condizioni obiettive dell’esistenza cristiana ed ecclesiale e dalla qualità dell’agire credente (ecclesiologia pratica, spiritualità e riflessione morale).

Un’ulteriore possibilità è di intrapren­dere un iti­nerario teologico-fondamentale, che punti a mettere in luce l’impensato che resta sottotraccia alla trattazione tradizionale del capitolo dei laici. Dopo aver esaminato le potenzialità offerte (e, in un senso, esaurite) dalle cifre dell'apo­stolato e dell’impegno (engagement), v’è merito di accordare credito alla nozione giovannea di testimonianza nel quadro di una teoria della co­scienza credente. Nel suo dinamismo tale categoria di­schiude in modo pro­mettente il profilo dell’annuncio dell’evangelo come attestazione ad altri (ap­punto, testimonianza) dell’evento Gesù Cristo (il testimoniato), scoprendosi auto­rizzata e legittimata come atto della libertà che si affida all'incondizio­nato rivelarsi di Dio.

Si avverte l’esigenza di tracciare una mappa delle diverse vocazioni particolari che nascono all’interno della Chiesa in un’epoca contrassegnata da grandi rivolgimenti culturali e spirituali, rispetto a stagioni della storia in cui la divisione dei ruoli e il rapporto fra gli «stati di vita» erano sostanzialmente assodati. Non ha però più senso distinguere fra coloro che ricoprirebbero il ruolo di occuparsi delle cose di questo mondo e coloro che sarebbero gli specialisti della vita eterna: sulle questioni essenziali della vita, tutti i credenti si trovano nella medesima situazione.

All’origine della pluralità delle forme di esperienza credente stanno l’iniziativa imprevedibile di Dio e l’agire degli uomini, che risente dell’influsso biografico e della congiuntura storica. La ricognizione dell’esperienza credente lungo l’asse delle diverse vocazioni e forme di vita cristiana suggerisce che se la fede si dà in figura, non può darsi un’unica e omnicomprensiva figura della fede, dato che il carattere figurale della fede chiama in causa una pluralità di figure della fede, fra loro diverse e complementari. In questa prospettiva, il ripensamento di una teologia delle vocazioni, dei ministeri e dei carismi è questione decisiva per rilanciare con creatività le diverse figure e vissuti di fede che trovano il loro grembo nella Chiesa. Nella vita di coppia e nella famiglia si dischiudono forme specifiche di ministerialità: il legame coniugale, l’educazione dei figli, la cura delle relazioni, la solidarietà verso poveri e anziani, costituiscono luoghi e momenti in cui la Chiesa si rigenera e scopre la sua vocazione di «famiglia di Dio». La fede cristiana è per sua natura esperienza personale e originale del legame con il Signore Gesù, ma insieme è esperienza condivisa, ecclesiale se è vero che ogni vocazione cristiana deve lasciarsi plasmare dal legame decisivo con il Signore nella comunità dei discepoli. In tale ottica, occorre ripensare il nesso fra esistenza del singolo e legame comunitario, nonché fra appartenenza ecclesiale e ministero apostolico, per mostrare la circolarità di istanza soggettiva e mediazione oggettiva che istituisce la coscienza ecclesiale e l’agire di ogni credente.

L’illustrazione di tale dialettica può essere esplorata con qualche guadagno a partire dal dinamismo che sta alla base della coppia rappresentazione/i e rappresentanza. Il primo termine rappresentazione/i restituisce il carattere di oggettività dell’evento cristiano proprio quando ne realizza l’universalità, allorché ogni credente (per la parte che gli spetta) è convocato e abilitato a professare, a ‘dar forma’, appunto a ‘rappresentare’ il messaggio della salvezza in tutti gli spazi e i momenti della sua esistenza nel mondo. D’altra parte, la struttura dell’identità cristiana prende sempre forma storicamente in un profilo specifico e si presenta con i tratti singolari del vissuto storico; tale per cui esiste di necessità una pluralità di interpretazioni e raffigurazioni (rappresentazioni) che con tonalità diverse tutte dicono e attuano l’unica figura cristiana.

Il secondo polo, rappresentanza, rinvia al carattere normativo dell’esercizio della memoria Jesu, conseguente al mandato apo­stolico di cura per l’oggettività e di fedeltà all’evento della salvezza, onde salvaguardare il carattere indisponibile e gratuito del Dio di Gesù e garantire le condizioni di un’esperienza autenticamente cristiana. Ora, l’ipotesi di una rappresentazione senza rappresentanza si espone al rischio di un’affermazione di sé autoreferenziale e irrelata, carica magari di autenticità a livello di vissuto biografico, ma priva di rilevanza simbolica e di legame ecclesiale con altre necessarie rappresentazioni; rispettivamente, l’eventualità di una rappresentanza priva di rappresentazione/i rischia a sua volta di sequestrare la verità indisponibile entro una logica monistica, che fonda un formale principio di legittimità, ma dimentica di essere istituita in un’ottica di comunione e di servizio per custodire l’assolutezza e la ricchezza della rivelazione, proprio assicurandone la sua plurale e universale destinazione (nella forma delle inesauribili e complementari rappresentazioni del discepolato nella storia della Chiesa e del mondo).

Entrambe le dinamiche della «rappresentazione non senza rappresentanza» e della «rappresentanza non senza (plurali) rappresentazioni» sono possibili solo come operazione dello Spirito, nella forma del discernimento storico della referenza all’inesauribilità del mistero di Cristo. Questo è propriamente ciò che significa il topos kierkegaardiano la «contemporaneità» di Cristo ai credenti e dei credenti a Cristo, che come tale è continuamente da ri-comprendere nella storia della fede e del discepolato nello snodarsi della vicenda del cristianesimo lungo i secoli.

Una tale dialettica nel suo dinamismo interno costituisce la grammatica che sta alla base di una varietà infinita di figure e di pratiche di vita cristiana in cui risplende e si manifesta la partecipazione dei credenti al mistero di Cristo. Se ripensata come attitudine del cristianesimo a divenire l’anima del processo storico-sociale, dunque come sfida per la fede cristiana di dire oggi come sempre la verità dell’umano, una siffatta dialettica è in grado di intercettare l’interrogativo sul futuro stesso dell’agire credente nella Chiesa e nella storia. Sotto tale profilo, l’archiviazione della teologia del laicato diviene un congedo inevitabile, perché inverato in una teologia della testimonianza credente nella storia.

6. Tre citazioni fulminanti

La cosa più importante da dire è che non c’è definizione del cristiano che non sia in rapporto a Cristo: non ci sarà mai una definizione esaustiva del cristiano che riguardi soltanto la sua diversificazione o il suo comportamento rispetto all’ambiente che lo circonda. Da questa affermazione tutto il resto viene condizionato. Ogni tentativo di definire la nostra posizione deve partire dalla persuasione che noi siamo sostanzialmente ‒ e quasi unicamente ‒ delle persone che sono afferrate da Cristo, che aspettano la manifestazione della sua gloria, che attendono la trasformazione di ogni cosa nel Regno di Cristo. [C.M. Martini, Che cosa significa essere cristiani (1969)].

Nella sua accezione originaria, senza distinzione obbligatoria tra chierico e laico, l’ecclesiastico, è l’uomo di Chiesa, l’uomo nella Chiesa: egli è l’uomo della Chiesa, l’uomo della comunità cristiana. [H. de Lubac, Meditation sur l’Église (1953)].

Celestino V. Io non posso trattare i cristiani come oggetti, come pietre, come sedie, come utensili, e neanche come sudditi… Posso ammettere che questo modo di vedere sia scomodo dal punto di vista della rapidità e disinvoltura nel comandare, ma mi pare che anche in questo debba esserci una differenza tra i cristiani e i pagani. Per i cristiani il valore supremo sono le coscienze: esse meritano dunque il massimo rispetto. [I. Silone, L’avventura di un povero cristiano (1968)].

Questi tre tratti – l’appartenenza a Cristo, la titolarità di tutti i battezzati a essere riconosciuti senza discriminazioni come uomini e donne di Chiesa, la logica sinodale che deve improntare il vissuto della comunità dei credenti nel riconoscimento della dignità inviolabile di ciascuno – costituiscono altrettante acquisizioni a cui non è dato rinunciare nel quadro di una communio che è originata dalla grazia dello Spirito Santo. Una communio che non livella tutte le possibili diverse vocazioni e ministerialità ecclesiali, bensì assicura a tutti la sua presenza nella pluralità dei doni personali per l’edificazione della Chiesa in un’ottica di condivisione sinodale della logica e delle dinamiche dell’unica missione.

E così ci ricorda papa Francesco nella sua esortazione apostolica programmatica del pontificato:

Lo Spirito Santo arricchisce tutta la Chiesa che evangelizza anche con diversi carismi. Essi sono doni per rinnovare ed edificare la Chiesa. Non sono un patrimonio chiuso, consegnato ad un gruppo perché lo custodisca; piuttosto si tratta di regali dello Spirito integrati nel corpo ecclesiale, attratti verso il centro che è Cristo, da dove si incanalano in una spinta evangelizzatrice […] Quanto più un carisma volgerà il suo sguardo al cuore del Vangelo, tanto più il suo esercizio sarà ecclesiale. È nella comunione, anche se costa fatica, che un carisma si rivela autenticamente e misteriosamente fecondo. Se vive questa sfida, la Chiesa può essere un modello per la pace nel mondo [Evangelii gaudium, 130].