Padre Gian Paolo Pezzi: “Il Natale ci dona la gioia della speranza”

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Natale, dicembre 2019
Che per tutti noi, il Natale 2019, l’anno 2020 sia un’esperienza di vita che ci dona o ci ridona la gioia della speranza. Con l’amicizia di sempre. (Gian Paolo, comboniano a New York).

Natale 2019

Una delle canoniche che avevo in Burundi.
La capanna di Lucia era ben peggio.

Carissimi(e),
Con il Natale e l’Anno nuovo vicini ormai ricevi i miei più sinceri auguri di ogni bene. Lo scambio di auguri porta con sé anche i nostri pensieri, seri e banali, spirituali e umani, ad alto livello o terra terra. Una curiosa coincidenza mi ha fatto pensare alla vita con un pizzico di umorismo. Negli USA lo chiamano Golden birthday, compleanno dorato se ho capito bene. E’ quando il numero degli anni che si compiono coincide con la data di nascita.

Sono riandato così alla fine del mio primo, piuttosto conflittuale anno di missione. Avevo insegnato latino e greco usando il francese nella terza liceo classico nel Seminario di Kanyosha, vicino a Bujumbura, in Burundi. In quel periodo avevo stretto amicizia con un gruppo di professori che mi invitarono a fare con loro un viaggio in Tanzania. Era prevista perfino a salita al Kilimanjaro, un vulcano spento di 6-000 metri. Più che per simpatia, mi parve, che l’invito fosse dettato dal fatto che guidavo la macchina della nostra missione. Comunque da allora siamo rimasti sempre amici e alcuni di loro oggi collaborano nel mio impegno di far conoscere le tematiche di Giustizia e Pace. Il fatto è che arrivammo in Tanzania in un giorno di festa. Alla nostra domanda di curiosi turisti ci risposero che era il Saba Saba. Una breve ricerca tra la gente, non c’era ancora né Google né i telefonini, ci portò a scoprire che era la Giornata nazionale dell'industria, celebrata il 7 luglio e che giustamente Saba Saba significa sette del sette.

Bene, ho sorriso quest’anno celebrando il 7 dicembre i miei 77 anni. USA Golden Birthday e Saba Saba Saba kishwahili.

I ricordi sono come le ciliegie, una tira l’altra, o come le pecore che uno conta nelle notti d’insonnia e alla fine arrivano in gregge. Così all’angolo della memoria è riapparso uno dei miei più bei ricordi di missione e forse il più significativo della mia vita di sacerdote. L’ho condiviso nella predicazione e negli incontri personali, ma non ricordo di averlo mai fatto con voi, destinatari di questa lettera natalizia annuale. Forse perché in quel tempo non avevamo a disposizione internet: risale ai tempi della prima missione in Burundi, appena dopo la guerra civile del 1972, quando le comunicazioni erano piuttosto precarie.

Mi trovavo in mezzo alla foresta che ancora copriva le montagne della catena Congo – Nilo, a Gitumba – letteralmente la grande collina –, piccola comunità di Cibitoke. Per raggiungerla, percorrevo 25 km di strada polverosa e affrontavo un sentiero che si snodava in mezzo all’alta erba tagliente, penetrava nei bananeti, s’infilava in strette valli, s’inerpicava per costoni rocciosi per poi aprirsi in una piccola radura dove si trovava il centro della comunità: una sghimbescia capanna per l’ospite e la cappella, ormai cadente, in paglia e fango.

Era la quaresima del 1973 e, secondo le tradizioni lasciateci dai Padri Bianchi, era il tempo forte dei mapfungo, i ritiri in preparazione alla Pasqua. Iniziavamo al mattino presto con le preghiere, seguiva un’ora di catechesi, si entrava nella celebrazione comunitaria della penitenza cui seguivano le confessioni individuali accompagnate dalla Via Crucis, il rosario, la preparazione dei canti, e si chiudeva con l’Eucaristia. Non mancavano poi alcune amajambo, termine kirundi per indicare la discussione dei casi difficili della comunità. Verso le quattro, cinque del pomeriggio, un frugale pasto con polenta di manioca e fagioli, poneva fine al ritiro e anche al digiuno quotidiano: in Burundi ai quei tempi si mangiava solo una volta al giorno. Mi costò prendere questa abitudine, ma si sa, quando si è giovani si arriva a tante cose che sembrano impossibili.  Seguiva la visita agli ammalati.

Ero a Gitumba da ormai quattro giorni. E quella mattina mi ero alzato storto: la pioggia lenta e densa della notte, continuava; mi sentivo stanco, di cattivo umore; per di più era il giorno delle donne, e quindi polenta e fagioli erano quelli del giorno prima e in quell’umidità mi erano scese come pietre nello stomaco; e il tutto mi dava una gran tristezza. Non avevo ancora trangugiato l’ultimo boccone che il catechista annuncia: “Tempo di mettersi in cammino”. Avanzo deboli proteste. “Piove ancora”. “E seguirà, è la stagione”. “Si sta facendo tardi”. “Non importa, chi ci aspetta non può muoversi”. “Potremmo andare domani”. “Domani ci saranno altri ammalati da visitare”.

Non mi rimane che affrontare il mio destino. Arranco sulle ripide salite, maledico la scelta sbagliata delle scarpe nelle discese su un sentiero che sembra insaponato, cerco altri ormai inutili pretesti per tornare indietro e finisco per abbassare la testa e camminare ormai più per orgoglio che per convinzione. Non per niente mi avevano dato il soprannome di amagurugu, quello tutte gambe.

Dopo quasi due ore, quando ormai scende la notte, arriviamo in una valletta. Ai tremolanti riflessi del fiume Ruha scorgo una capanna e, con sollievo, ascolto dire: “Siamo arrivati”.

Quando entro, però mi sento sommergere dall’angoscia: è un tugurio, il tetto di paglia è ancora a metà, il suolo imbevuto dalla pioggia è un pantano, le pareti di fango sembrano sciogliersi all’acqua piovana. Per terra, su una stuoia di foglie di banano, una ragazza sui vent’anni. Nell’angolo, le tre pietre del focolare, due pentole e, in piedi, due consunti anziani che immagino siano i genitori. Ho visto tante povertà nella mia vita, mai una miseria come quella. Mi avvicino e con voce rotta le chiedo, "Come stai?"

E Lucia – non si chiamava così ma per me sarà sempre colei che porta luce - mi racconta la sua breve odissea. Tre mesi prima, alla morte del fratello, avevano perso il loro unico pezzo di terreno. Con i genitori, era venuta dall’altra parte del paese a cercare un campo da coltivare. Avevano camminato un mese portando sulla testa il poco che possedevano. Appena arrivati, aveva cominciato a costruire la capanna e a pulire un campo per la semina. La malattia improvvisa l’aveva inchiodata su quella stuoia. Erano ormai quasi due mesi.

Sono convinto che l’emozione sia cattiva consigliera quando si prendono decisioni. Ma in quel momento era più forte di me e mi sentii chiederle: Che cosa vuoi che faccia per te? Ti cerco cibo, medicine, qualche soldo, una coperta… Dimmi. Lucia alza verso di me il suo sguardo e con voce calma risponde: “Ti aspettavo per due regali: la confessione e la comunione”.

Non mi sono ancora ripreso dalla sorpresa, che i catechisti, i genitori e le altre tre o quattro persone che si sono accodate all’ultimo momento già sono usciti. Non ricordo cosa confessasse né se avesse poi tanto bisogno di farlo. Nella mia memoria rimane scolpito come in pietra quanto è successo dopo quando iniziamo il breve rito della comunione agli ammalati.

Mi metto in ginocchio nel fango vicino alla stuoia e inizio: Dawe wa twese, Padre nostro… E le tenebre mi invadono mente e cuore. Vedo venirmi incontro le parole che seguono e una voce dentro di me grida ribellione: “No, non è possibile! Tanta sofferenza e miseria, su una ragazza non può essere volontà del Dio che chiamiamo Padre!” E la voce mi si spegne in gola.

Le sette o otto persone presenti che seguivano me nella recita, ammutoliscono all’istante. Abbasso il mio sguardo verso Lucia… Nei suoi occhi c’è una pace immensa, un sorriso leggero accarezza le sue labbra, con voce soave ma sicura continua da sola: Ushaka kwawe ni bigirwe kw’isi nko mw’ijuru, la tua volontà sia fatta in cielo come in terra… Con gli occhi velati di lacrime, le restituisco il sorriso. Il gelo e il silenzio si sciolgono in quella misera capanna che sembra illuminarsi come se fosse la grotta di Betlemme. Insieme con serenità continuiamo tutti: Dacci oggi il nostro pane quotidiano… Per Lucia, oggi è il pane dell’Eucarestia.

Quando usciamo, è ormai notte piena, ma la pioggia è cessata, il vento sta spazzando via le poche nubi rimaste e in cielo splende una luna nuova, l’ultima prima di quella pasquale. Sul cammino di ritorno ascolto con gioia profonda l’allegria di chi mi accompagna: sento che condividono con me la certezza di aver preso parte a un evento straordinario.

Tre giorni dopo, rientrato ormai alla parrocchia, preparai un pacchetto: una calda coperta, qualche medicina generica, quattro soldi, un po’ di cibo e due righe. “Cerca di migliorare, poi troveremo il modo di portarti all’ospedale”. Spedisco il pacchetto con un giovane e vado nella chiesa parrocchiale: un altro giorno di ritiro pasquale. Quando esco, verso le quattro come il solito, il giovane è là ad aspettarmi. N’ibiki, ebbene?

Mi tende il pacchetto e a testa bassa mormora: “Quella ragazza è morta la notte dopo la tua visita”.

Nel mio diario ho messo un commento. Perché mi sono fatto missionario? All’inizio forse non lo sapevo proprio. La vita, persone come Lucia, esperienze come quelle di Gitumba, mi dicono chi e cosa mi hanno fatto sacerdote e missionario.

Che per tutti noi, il Natale 2019, l’anno 2020 sia un’esperienza di vita che ci dona o ci ridona la gioia della speranza.
Con l’amicizia di sempre.
Gian Paolo
New York, 12. Dicembre. 2019.
Nostra Signora di Guadalupe