Sabato 4 giugno 2022
Alla vigilia dell’apertura ufficiale del XIX Capitolo Generale dei Missionari Comboniani, che si svolge dal 1 al 30 giugno, nella Casa Generalizia dell’Istituto a Roma, i comboniani capitolari hanno dedicato questo sabato alla preghiera, al silenzio e alla riflessione, partendo dal tema del Capitolo “Io sono la vite e voi i tralci” (Gv 15,5). Questa giornata di ritiro è stata guidata dal comboniano Card. Miguel Ángel Ayuso Guixot, Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Di seguito pubblichiamo le due meditazioni fatte dal Card. Ayuso.

Radicati in Cristo insieme a Comboni
Vivere la Missione come “Cammino sinodale di fraternità”

“Io sono la vite, voi i tralci”
(Gv 15,1-17)

Meditazione 1

Cari confratelli,
Il motivo di questo incontro è quello di dedicare un tempo alla riflessione e alla preghiera personale, in preparazione e in vista dell’inizio del nostro Capitolo Generale. Per creare questo clima di preghiera, vorrei ricordare l’importanza che Gesù dà nel Vangelo ad invitare i suoi discepoli, in mezzo a tutta l’attività missionaria, a mettersi “in disparte”. Per esempio, ricordiamo il testo di Marco (6,30-34) che dice così: “[In quel tempo] Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”.

Possa questa giornata di ritiro aiutare tutti noi nello spirito di queste parole che Gesù rivolse ai suoi discepoli. Prendiamo per la nostra riflessione il titolo del Capitolo e cioè: Io sono la Vite, voi i tralci del Vangelo di San Giovanni (15,1-17). Leggiamo:

«Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10 Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11 Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. 13 Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. 14 Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. 15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi. 16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17 Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.

Il discorso di Gesù ci ricorda che il presente della comunità di Gesù e quello di noi lettori del XXI secolo si toccano e si sovrappongono. Il discorso comprende due parti, come due quadri, centrati rispettivamente sulla vita interna (15,1-17) e sulla vita esterna (15,18 - 16,4a) della comunità. Al di fuori, i credenti sono in balìa della persecuzione, suscitata dall'«odio» del mondo contro Gesù e il Padre. Mi fermo sul primo quadro centrato sull'immagine della vite che insiste sulla metafora del «rimanere in» e sul comandamento dell'amore reciproco.

l. La Vite del Padre (15,1-17)

Il discorso inizia con una parola di rivelazione formulata in linguaggio simbolico: Gesù dichiara di essere la vite del Padre (15,1-2). Dal v. 3 al v. 17 si susseguono strettamente legate due sotto-unità. La prima (15,3-8) sviluppa il tema della vite attraverso paragoni che illustrano visivamente la necessità per il discepolo di rimanere in Gesù.

Nella seconda sotto-unità (15,9-17), l'oggetto della rivelazione è l'amore. L'immagine della vite non appare più, se non nell'espressione «portare frutto». La vite e il vignaiolo (15,1 -2): Sono io la vite, quella vera, e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio in me che non porta frutto, lo taglia, ed ogni tralcio che porta frutto lo pota, affinché porti frutto ancora più abbondante.

La Vigna nel passato del popolo d’Israele: Fin dai tempi remoti la vite caratterizza, con l'ulivo e il fico, la vegetazione della Palestina.

Ricordiamo infatti che quando gli uomini inviati da Mosè ad esplorare la terra di Canaan ritornarono dalla loro missione, portarono come prova della fertilità della Terra un enorme tralcio con tanti chicchi d’uva (Nm 13,23). La vigna, il bene più prezioso per il contadino israelita, è spesso menzionata nel Primo Testamento, sia in senso proprio che figurato.

Ugualmente la vigna piantata da Noè, sfuggito al diluvio, segna l'inizio di un'era nuova (Gn 9,20). Anche nel Cantico dei Cantici la vigna indica l’amore (Ct 1,14). Non senza legami con quest'ultima metafora, l'uso più diffuso nella tradizione biblica fa della vigna l'immagine del popolo di Israele in rapporto con il Dio dell'Alleanza.

Infatti, quando Gesù racconta la parabola sinottica della vigna e del suo proprietario che ne reclama i frutti, i suoi ascoltatori giudei ne colgono il significato senza bisogno di spiegazione (Mc 12,1-12). Riprendendo questo dato tradizionale, Giovanni opera un ardito spostamento: è Gesù stesso la vite del Padre.

Mentre il quadro simbolico del Pastore in 10,1-5 aveva bisogno di essere interpretato, qui l'interpretazione è data insieme all'immagine. Che cosa vuol significare l'evangelista? Qual è la relazione di Gesù con la vite-popolo di Dio?

Anche i profeti e i salmisti parlano della vigna e della vite. Osea, primo tra i profeti, descrive Israele come una «vigna fiorente, che produce frutto in abbondanza» (Os 10,1). In seguito, numerosi sono i testi in cui si parla semplicemente della «vigna» per evocare la storia delle relazioni tra Dio e il popolo eletto. La vigna di Israele deve la propria esistenza a Yaveh, che l’ha strappata dall'Egitto e trapiantata in uno spazio nuovo, dove ha potuto estendersi e prosperare: “Asportasti una vite dall’Egitto e la trapiantasti, dopo aver cacciato via le genti… Allungò i suoi tralci sino al mare” (Sal 80, 9-12).

La vite deve portare frutti abbondanti, perché la piantagione del Signore è «destinata a manifestare la sua gloria» (Is 61,3; cfr. 60,21). È per amore che Yaweh ha fatto questo, come sottolinea l'esordio del celebre poema di Isaia: “Voglio cantare per il mio diletto un cantico d'amore alla sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna su un colle ubertoso. Egli la vangò, la liberò dai sassi e vi piantò viti scelte; in mezzo ad essa costruì una torre e vi scavò anche un tino ...” (Is 5,1-2).

Dio vuole la vita. “Fruttificate, moltiplicatevi”, comanda il Creatore (Gn 1,22.28). Nella stipulazione dell'Alleanza, la fecondità del suolo è una delle benedizioni promesse al popolo. Ma il «frutto» di cui si parla è soprattutto di altro ordine: Israele deve portare frutti di giustizia, grazie alla sua fedeltà all'Unico e alla sua pratica della Legge. Ora, la condotta di Israele si è dimostrata deludente, per il suo errore o a causa dei cattivi pastori (cfr. Is 3,14; Ger 12,10). Anche il seguito del poema di Isaia diventa un lamento e un giudizio (Is 5,2b-6).

Denunciando il peccato di idolatria, Geremia fa eco alla delusione del Signore: “Eppure ti avevo piantato qual vigna pregiata tutta di ceppo genuino. Come dunque ti sei cambiata, nei miei riguardi, in tralci degeneri, in vigna bastarda?” (Ger 2,21).

Ezechiele poi constata il fallimento della vigna: “I suoi rami si sono seccati, il fuoco li ha divorati” (Ez 19,12). Anche il salmista implora: “Dio delle Schiere, ritorna, guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, il giardino che la tua destra ha piantato! ... L'hanno bruciata col fuoco e l'hanno recisa ...” (Sal 80,15-17).

L'ultima parola del Signore non è però la distruzione, perché egli è fedele per sempre e sta per manifestarlo, come annuncia il secondo canto della vigna di Isaia: “In quel giorno sì dirà: «La vigna deliziosa, cantatela!» ... Nei giorni futuri Giacobbe metterà radici, Israele fiorirà e germoglierà e l 'universo si riempirà dei suoi frutti” (Is 27,2.6).

2. Gesù, la vera vite

Con ogni evidenza, il testo di Gv 15 si ispira alla tradizione biblica sulla vigna di Israele, in cui si narra la storia dell'elezione e dell'Alleanza. L'evangelista ne riprende la prospettiva e i termini (vite, tralci, frutti, potare, seccarsi, bruciare). «Portare frutto» si ripete come un ritornello e con la stessa finalità, che è la gloria del «vignaiolo».

Il lettore ebreo sente qui l'eco della tradizione profetica, mentre il lettore cristiano riconosce il linguaggio delle parabole dei vangeli sinottici, in cui la vigna indica Israele e il regno di Dio.

Alcuni testi rabbinici evidenziano che la tradizione su Israele “vigna del Signore” era viva al tempo dell'evangelista. Secondo gli storici Giuseppe e Tacito, una vite in oro di grandi dimensioni ornava il portale del «Santo» nel Tempio erodiano.

Gesù è la vite, noi i tralci. Perciò, dobbiamo rimanere uniti a Gesù, vera vite. Questo rimanere è un rimanere attivo, e anche è un rimanere reciproco. Perché? Perché Lui dice: “Rimanete in me e io in voi” (v. 4). Anche Lui rimane in noi, non solo noi in Lui. È un rimanere reciproco. In un’altra parte dice: Io e il Padre “verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23). Questo è un mistero, ma un mistero di vita, un mistero bellissimo. 

E questa è la vita cristiana. È vero, la vita cristiana è compiere i comandamenti (cfr Es 20,1-11), è andare sulla strada delle beatitudini (cfr Mt 5,1-13), è portare avanti le opere di misericordia, come il Signore ci insegna nel Vangelo (cfr Mt 25,35-36). 

Noi senza Gesù non possiamo fare nulla, come i tralci senza la vite. E Lui – mi permetta il Signore di dirlo – senza di noi sembra che non possa fare nulla, perché il frutto lo dà il tralcio, non l’albero, la vite, diceva Papa Francesco in una Messa a Santa Marta.

In questa comunità, in questa intimità del “rimanere” che è feconda, il Padre e Gesù rimangono in me e io rimango in Loro.

Qual è il “bisogno” che ha Gesù di noi? La testimonianza. Quando nel Vangelo dice che noi siamo luce, dice: “Siate luce, perché gli uomini «vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro» (Mt 5,16)”. Cioè la testimonianza è la necessità che ha Gesù di noi. Dare testimonianza del suo nome, perché la fede, il Vangelo cresce per testimonianza. Questo è un modo misterioso: Gesù anche glorificato in cielo, dopo aver passato la Passione, ha bisogno della nostra testimonianza per far crescere, per annunciare, perché la Chiesa cresca. E questo è il mistero reciproco del “rimanere”. Lui, il Padre e lo Spirito rimangono in noi, e noi rimaniamo in Gesù.

“Potati, voi lo siete già, grazie alla parola che vi ho detto. Rimanete in me ed io in voi!” (Gv 15.3-4). Collegandosi alla potatura dei tralci da parte del Padre vignaiolo, Gesù assicura ai discepoli che essi sono già stati potati: innestati nella vite, sono perciò adatti per principio a portare frutto. I discepoli, prima della loro risposta di fede, non potevano portare frutto: se ora lo possono, non dipende da loro, ma è grazie alla Parola che li ha potati. Dipende però da loro mantenersi in Cristo. Il tema della Parola sottolinea che la relazione del credente con Gesù è da persona a persona. «Rimanere in Gesù» esige da parte del discepolo una fedeltà che domina lo scorrere del tempo, e lo sguardo si porta al di là, verso il frutto da produrre, di cui l'unione con il Figlio è la condizione.

3. I frutti della vite: dare la vita per i propri amici

C’è un fatto significativo nella vita di Christian de Chergé, priore di Tibhirine. Da bambino, Christian aveva vissuto per tre anni in Algeria con la famiglia. Fu allora - aveva cinque anni-, che sua madre gli insegnò il rispetto per i musulmani e per i loro atteggiamenti nella preghiera, diversi da quelli di noi cattolici: “Stanno pregando Dio”. Nel 1959, da seminarista, tornò in Algeria per completare il servizio militare obbligatorio. Era il tempo della guerra d’indipendenza dalla Francia. Fece amicizia con un poliziotto di un villaggio, Mohammed, un analfabeta, dotato però di una profonda pietà. A Christian faceva molto bene conversare con lui. Un giorno erano insieme a pattugliare il territorio, quando s’imbatterono in un gruppo armato del Fronte di Liberazione Nazionale. Mohammed si frappose tra i loro fucili e il giovane seminarista, prendendo le sue difese. Disse: “È una persona di grande pietà ed è amico dei musulmani”. Quegli uomini armati li lasciarono andare, ma il giorno seguente Mohammed fu trovato morto, con la gola tagliata. Christian commentò così questo evento, che avrebbe segnato la sua vita: «nel sangue di quest’amico io compresi che la mia vocazione a seguire Cristo l’avrei vissuta, prima o poi, nello stesso Paese in cui avevo ricevuto la testimonianza dell’amore più grande di tutti».

4. L’esempio di San Daniele

San Daniele Comboni, dalla sua formazione alla vita sacerdotale nell’Istituto fondato dal servo di Dio Nicola Mazza, si sentì chiamato al dono della propria vita per l’annuncio evangelico in terra d’Africa. Questa consapevolezza lo accompagnò per tutta l’esistenza, lo sostenne nelle fatiche missionarie e nelle difficoltà pastorali. Si sentiva confortato in questa sua dedizione dalla parola udita dal Papa Pio IX: “Labora sicut bonus miles Christi pro Africa” (S 4085).

Nell’omelia per la Messa della Canonizzazione, il 5 ottobre 2003, commentando il versetto del Salmo responsoriale: “Tutti i popoli vedranno la gloria del Signore”, San Giovanni Paolo II sottolineò l’urgenza della missione ad gentes anche in questi nostri tempi.

“Sono necessari evangelizzatori dall’entusiasmo e dalla passione apostolica del vescovo Daniele Comboni, apostolo di Cristo tra gli Africani. Egli impegnò le risorse della sua ricca personalità e della sua solida spiritualità per far conoscere ed accogliere Cristo in Africa, continente che amava profondamente. Come non volgere, anche quest’oggi, lo sguardo con affetto e preoccupazione a quelle care popolazioni? Terra ricca di risorse umane e spirituali, l’Africa continua ad essere segnata da tante difficoltà e problemi”.

5. Conclusione

Affido i lavori di questo Capitolo generale all’intercessione del nostro Santo, insigne evangelizzatore e protettore del Continente Nero, affinché il nostro Istituto possa crescere nella fraternità solidale, e così portare il frutto abbondante atteso da Gesù-Vite, dando priorità ancora oggi alla missione ad gentes, da non posporre a nessun altro impegno, pur necessario, di carattere sociale e umanitario.

Radicati in Cristo insieme a Comboni
Vivere la Missione come “Cammino sinodale di fraternità”

Meditazione 2

Cari confratelli,
i lavori di questo Capitolo Generale ci pongono di fronte una domanda che è quella di come vivere la missione come cammino sinodale di fraternità. E’ un cammino fatto in comunione, partecipazione e missione. Un processo che facciamo radicati in Cristo e insieme a San Daniele Comboni per delineare il nostro servizio alla Chiesa e al Regno di Dio.

La vocazione missionaria e l'appartenenza a una famiglia missionaria sono un dono, non sono merito nostro. Siamo missionari perché Dio è stato buono e ha voluto servirsi di noi per mostrare il suo volto paterno a tanti fratelli e sorelle che ancora non lo conoscono.

Ricordo ciò che il Santo Padre ci disse nel 2015 in occasione dell’Udienza per i 150 anni dei Comboniani:

“Nella Parola di Dio c’è la saggezza che viene dall’alto, e che permette di trovare linguaggi, atteggiamenti, strumenti adatti per rispondere alle sfide dell’umanità che cambia. In quanto Comboniani del Cuore di Gesù, voi contribuite con gioia alla missione della Chiesa, testimoniando il carisma di san Daniele Comboni, che trova un punto qualificante nell’amore misericordioso del Cuore di Cristo per gli uomini indifesi. In questo Cuore c’è la fonte della misericordia che salva e genera speranza. Pertanto, come consacrati a Dio per la missione, siete chiamati ad imitare Gesù misericordioso e mite, per vivere il vostro servizio con cuore umile, prendendovi cura dei più abbandonati del nostro tempo” (Papa Francesco, Udienza per i 150 anni dei Comboniani).

Nel profondo del nostro essere missionari risuona la voce del Signore che ci invita a dire la sua parola, a offrire la sua proposta, a condividere il suo amore perché è soltanto lui che può salvare, è soltanto lui che può seminare nel cuore dei nostri contemporanei il seme del senso della vita che non esiste al di fuori dell’Amore che soltanto Dio può offrirci. Mi auguro perciò che il nostro Istituto possa crescere nella fraternità solidale e così, come tralci della Vigna del Signore, portare abbondante frutto.

Con “la saggezza che viene dall’alto” dobbiamo osservare i segni dei tempi e l’orizzonte che abbiamo innanzi a noi. Sappiamo bene che il Papa sogna una Chiesa dalle porte aperte, accogliente, un ospedale da campo, una Chiesa in uscita, per portare a tutti la fede e per avviarsi verso le periferie esistenziali e geografiche dove la gente vive e soffre. Una Chiesa che odori di pecora, che sia misericordiosa, e che non sia autoreferenziale ma poliedrica e sinodale.

Entrare nel dinamismo sinodale

“Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”. È questo il tema della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi indetta da Papa Francesco e che come popolo di Dio tutti noi stiamo vivendo. Il Santo Padre, durante il Pontificato, ha più volte ricordato che la sinodalità è una strada maestra nella vita della Chiesa. In occasione del 50.mo anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, il 17 ottobre del 2015, ha pronunciato queste parole: “Quello che il Signore ci chiede, in un certo senso, è già tutto contenuto nella parola Sinodo. Camminare insieme – laici, pastori, vescovo di Roma – è un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica”. La sinodalità quindi è il cammino che Dio attende dalla Chiesa nel terzo millennio ed anche la vita religiosa deve entrare in questa prospettiva. Ciò implica che ci inseriamo nel santo popolo di Dio che ha ricevuto lo Spirito. Non si tratta di rinunciare alla nostra identità, ma di condividerla con altri.

È importante evidenziare che Papa Francesco indicando il metodo sinodale intende dare vigore alla dimensione ecclesiale, che costituisce l’anima della Chiesa, così che sempre prevalga l’unità di tutto il Corpo di Cristo, quale bene primario ed essenziale dell’essere e dell’agire della Chiesa. È una modalità per mettere in luce che “l’unità prevale sul conflitto” (cfr. EG 226-230) e per rendere evidente che la Chiesa è Corpo di Cristo, e lo è in quanto Popolo unito a Lui nell’amore. È questo vincolo di amore che muove l’atteggiamento di rinnovamento incessante della Chiesa.

Missione come cammino sinodale di fraternità

Tempo fa ho avuto modo di leggere un Documento della Chiesa di Verona nel quale si delineavano gli Orizzonti Pastorali per il triennio 2019-2022 dal titolo: “Io sono la vite, voi i tralci”. Mi è tornato in mente pensando a cosa dire oggi ed ho trovato singolare e di buon auspicio che il testo si riferisse al medesimo brano evangelico che fa da guida al nostro cammino sinodale e di fraternità, come proposto in questo Capitolo Generale, e che provenisse dalla Chiesa di San Zeno, da quella Diocesi di Verona alla quale la nostra Congregazione è profondamente legata e debitrice. Per questo mi sono permesso di riprendere i tre verbi sottolineati negli Orizzonti Pastorali e che ricorrono spesso anche nei discorsi di Papa Francesco: rimanere, condividere, gioire.

Così diceva Papa Francesco durante il Regina Coeli del 2 maggio 2021: “Perché i tralci senza la vite non possono fare nulla, hanno bisogno della linfa per crescere e per dare frutto; ma anche la vite ha bisogno dei tralci, perché i frutti non spuntano sul tronco dell’albero. È un bisogno reciproco, è un rimanere reciproco per dare frutto. Noi rimaniamo in Gesù e Gesù rimane in noi”.

Primo passo: RIMANERE (Gv 15,5-10)

Come il tralcio se non è unito alla vite non può portare frutto, così è per ciascuno di noi. Nasciamo figli, riceviamo la nostra vita e la nostra identità dall’amore di chi ci precede, come un dono e non come una scelta nostra. Il sentirsi figli sgorga
dalla consapevolezza dell’amore che ci precede e nel quale siamo chiamati a
rimanere. La vita di Cristo racchiude in se stessa il tesoro dell’amore pieno e autentico: quello del Padre che viene per opera dello Spirito Santo. Siamo salvati come parte attiva di una comunione di amore, che ci lega insieme come fratelli nell’unico Corpo di Cristo, come tralci alla vite. Diceva Papa Francesco che è il rimanere reciproco che porta frutto.

L’essere figli dello stesso Padre allora ci chiede di metterci in ascolto della Parola di Dio perché solo così il tralcio trae dalla vite la linfa per vivere. Dall’ascolto della Parola nasce anche l’ascolto dei fratelli. L’ascolto diventa il primo atteggiamento da maturare nelle nostre comunità fra di noi e nella nostra opera di evangelizzazione.

San Daniele Comboni sognava una comunità di fratelli, di discepoli missionari: I nostri Missionari, siano Sacerdoti o Laici, vivono insieme da fratelli nella medesima vocazione, … senza gare o pretensioni, pronti a tutto quello che viene loro ordinato di fare, disposti a compatirsi e aiutarsi vicendevolmente” (S 1859). Vivere oggi la fraternità è una grande sfida.

Come non pensare allora all’Enciclica Fratelli tutti (3 ottobre 2020)? Sappiamo bene che l’Enciclica è rivolta sia ai credenti sia ai non credenti. Papa Francesco sottolinea la necessità di ripartire da una fratellanza universale, dalla pace, da una scelta di perdono. Ha una visione che è quella del padre, che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, è il padre di tutti, non è solo padre dei cristiani, dei cattolici. Lui ha questo sguardo, ma senza rinnegare l’identità cristiana, che comunque è un messaggio meraviglioso dell’amore ai nemici, dell’accoglienza dei poveri. Quindi il futuro dell’annuncio del Vangelo passa dall’agire con l’amore che Gesù ci chiede: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se vi amate gli uni gli altri” (Gv 13,35). Dalla nostra apertura al Padre di tutti, riconosciamo la nostra condizione universale di fratelli. Per noi cristiani, la sorgente della dignità umana e della fraternità è nel nostro rimanere radicati nel Vangelo di Gesù Cristo, da cui nascono le nostre azioni e i nostri impegni.

Secondo passo: CONDIVIDERE (Gv 15,12-15)

La Chiesa è una comunione di amore in Cristo dove nessuno vive per se stesso, ma tutti insieme siamo al servizio gli uni degli altri. La Chiesa è dunque un Corpo unico e molteplice, un Popolo dove ognuno riceve la sua vita nell’unità e vive al servizio dell’unità. Tralci di una stessa vite e da essa tutti, nelle proprie diversità, troviamo la fonte di vita.

San Daniele Comboni diceva del suo Istituto che non è tedesco, né italiano né spagnolo ma cattolico, ossia universale. In un mondo che si chiude sempre di più e che costruisce muri, la figura del nostro Fondatore è un invito costante ad aprirsi alla diversità, alla multiculturalità e al dialogo con credenti di altre religioni ma anche con uomini e donne di buona volontà.

Per noi missionari la partecipazione alla vita della Chiesa non è un dovere o uno sforzo, ma una esigenza di amore sentita e vissuta da tutti, ognuno secondo il suo dono e le sue possibilità. La condivisione quindi non nasce dall’urgenza del dovere ma dall’urgenza dell’amore. L’amore reciproco sappiamo bene che va condiviso nell’accoglienza che parte sempre dagli ultimi, i più piccoli, i più poveri perché dall’amore verso di loro e dall’amore vicendevole dipende il futuro della testimonianza evangelica.

In un mondo disumanizzato, nel quale la cultura dell’indifferenza e dell’avidità contraddistinguono i rapporti tra gli esseri umani, c’è bisogno di una solidarietà nuova e universale e di un nuovo dialogo basato sulla fraternità. Una società fraterna, dunque, sarà quella che promuove l’educazione al dialogo per sconfiggere “il virus dell’individualismo radicale” (Ft 105) e per permettere a tutti di dare il meglio di sé. Due, in particolare, gli ‘strumenti’ per realizzare questo tipo di società: la benevolenza, ossia il volere concretamente il bene dell’altro (Ft 112), e la solidarietà che ha cura delle fragilità e si esprime nel servizio alle persone e non alle ideologie, lottando contro povertà e disuguaglianze (Ft 115).

Noi Comboniani siamo chiamati a vivere la nostra vocazione e missione con gli occhi fissi nel Cuore trafitto del Buon Pastore, sui passi di S. Daniele Comboni che aveva ben compreso che in quel cuore aperto c’era il mistero dell’amore di Dio che vuole far vedere che il suo amore è fonte di vita e possibilità di un’umanità nuova per tutti.

Terzo passo: GIOIRE Testo di riferimento: Gv 15,11.16

Come possiamo gioire in un tempo segnato in maniera tragica dal dolore, dalla violenza, dalla guerra? Mai ci saremo aspettati di essere testimoni di un momento storico nel quale è davvero difficile, se non impossibile, vivere l’esperienza della gioia! Eppure la nostra fede e la nostra esperienza missionaria, vissuta anche in mezzo a tante guerre, ci dicono che l’amore che testimoniamo porta la gioia che è una realtà che si diffonde, si espande e si moltiplica. La Chiesa desidera coltivare relazioni gioiose e di amicizia tra tutti i suoi membri e con ogni persona perché si manifesti l’amore di Cristo e la volontà di trovare vie di pace, di dialogo perché, per dirla con Papa Francesco, non vinca il ‘cainismo’. Dobbiamo invece riscoprire la bellezza e la gioia della fratellanza umana e della ricchezza dell’incontro con altre culture e religioni cercando di vedere, pur nella diversità, più le cose che uniscono che quelle che dividono.

“Il Fondatore ha trovato nel mistero del Cuore di Gesù lo slancio per il suo impegno missionario” (RV 3). Comboni non aveva dubbi: ciò che spinge il missionario a partire e lo sostiene nelle difficoltà, è la carità che arde nel cuore di Cristo “vittima di propiziazione per tutto il mondo (S 3324) “e che è egli stesso la gioia, la speranza, la fortuna e il tutto dei suoi poveri Missionari” (S 5255).

È la gioia del buon pastore di cui parla il Vangelo, che conosce le pecore, le chiama per nome e dà la vita per loro.

La nostra gioia trova il suo fondamento nel rimanere radicati nell’amore di Cristo, la nostra linfa vitale, e dalla condivisione di questo amore che può far nascere un’umanità nuova dove tutte le persone possano godere della libertà, della giustizia e dell’essere riconosciuti come figli e figlie di Dio, che ci fa tutti uguali e tutti fratelli e sorelle.

Oggi, in un mondo sovrastato dalle ombre della violenza, dell’odio, della guerra, di tante ingiustizie di cui noi stessi siamo testimoni; oggi, nella nostra società che attraversa un periodo di confusione, d’incertezza, di apprensione di fronte al futuro, mentre aumenta la sfiducia e gli altri sono considerati una minaccia; in un’umanità che, nella crisi, sviluppa strategie per rinchiudersi in se stessa e costruisce muri, la missione diventa un’azione sempre più urgente in quanto annuncio dell’amore di Dio per questa umanità dolente.

Conclusione

L’insegnamento di Papa Francesco continua a tracciare una strada ben precisa e percorribile da tutti gli uomini di buona volontà. Davanti ai feriti dalle ombre di un mondo chiuso, che giacciono ai lati della strada, Papa Francesco ci chiama a fare nostro, e a realizzare, il desiderio mondiale di fratellanza, che parte dal riconoscimento che siamo ​fratelli tutti​. Dobbiamo mettere da parte pregiudizi, indugi e difficoltà. Pur non rinunciando in nulla alla nostra identità o rifacendosi ad un facile irenismo, con forza e con coraggio, si deve affermare la necessità della fraternità umana e dell’amicizia sociale quali condizioni necessarie per l’ottenimento di quella pace alla quale anela il mondo intero.

Il Cuore di Gesù ci aiuti a diventare inventori di una missione nuova per i nostri tempi e la nostra testimonianza missionaria sia per molti nostri fratelli e sorelle occasione per aprirsi all’Amore che Dio ha, senza limiti, per tutti. Comboni ci invita a guardare al Crocifisso: “si formeranno a questa disposizione essenzialissima con tener sempre gli occhi fissi in G.C. amandolo teneramente e procurando d’intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in Croce per la salvezza delle anime” (Regole 1871, X).

E’ mio auspicio che sappiamo tutti come Comboniani, trovare la strada giusta per una conversione personale, per un rinnovamento nella sequela del nostro Fondatore San Daniele Comboni, e per approfondire a livello personale e comunitario, quali siano le sfide che il mondo e la Chiesa ci pongono, perché per mezzo della cultura del dialogo, dell’incontro, della tenerezza, coi nostri sforzi e sacrifici, sappiamo portare questa fiducia in Dio di cui il mondo oggi ha una estrema necessità.

Rinnoviamoci con speranza, perché la nostra missione, la nostra responsabilità di rimanere radicati nella nostra fede e identità, di condividere l’amore di Dio e di diffondere la gioia che nasce dall’annuncio di questo amore gratuito sia sempre segno di fraternità e sia sempre condotta con tanta pazienza, comprensione e ascolto!

Nella foto, P. Pedro Andrés Miguel, leggendo la preghiera dei fedeli.

La giornata di ritiro si è conclusa con la celebrazione dell’Eucaristia, presieduta da S. Em. Card. Miguel Ángel Ayuso Guixot. Pubblichiamo qui di seguito l’omelia.

Omelia della Santa Messa

La Parola di Dio, che abbiamo appena proclamato, ci parla della nostra vocazione e dell'importanza della nostra missione di evangelizzatori. Perciò, siamo chiamati a rinnovarci per trasmettere la fede con la testimonianza e a non cessare mai di seguire il Signore nella nostra opera missionaria. Il Capitolo Generale che sta per iniziare ci aiuterà a operare un discernimento sulla nostra vita missionaria.

Abbiamo ascoltato, nella prima lettura, la fine degli Atti degli Apostoli che ci narra in maniera sintetica i due anni in cui Paolo fu a Roma, alloggiato in una casa ma agli arresti domiciliari. Il che non gli ha impedito di fare quello che ha sempre fatto: evangelizzare e predicare liberamente. Il Vangelo con Paolo è arrivato nel cuore del mondo, è predicato liberamente e senza ostacoli “fino a1 confini della terra”.

Paolo è uno dei tanti testimoni eroici e autorevoli di Gesù, ma non è l'unico. Egli ha compiuto la sua missione, una missione che è quella di ogni cristiano: essere testimone della risurrezione, avere il coraggio di annunciarla ovunque, trasformare ogni situazione, anche la più improbabile, in un'occasione per dire che Gesù è Signore e Salvatore. Esempio questo che ci ricorda la nostra missione: la forza della nostra missione sta nel donare noi stessi con generosità per annunciare la Buona Novella.

Infatti, il brano odierno del Vangelo, ci ricorda che tutti noi, che siamo stati toccati dal Signore, dobbiamo seguirlo. Ognuno con il proprio carisma. Non dobbiamo perdere tempo ad occuparci di quello che fanno gli altri fratelli, perché anche loro hanno ricevuto lo Spirito Santo, ma confidiamo in Dio e in loro. A Pietro che gli chiede: “Signore, che cosa sarà di lui?” Gesù risponde: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi”.

Preoccupiamoci quindi di seguire il Signore, soprattutto per quanto ci riguarda, poiché il Signore si prende cura di coloro che sono sulla buona strada.

Confidiamo in Lui e nei nostri fratelli perché assieme a loro possiamo testimoniare la ricchezza di tutto ciò che Gesù ha compiuto così da poter contribuire, come ci dice Giovanni, a scrivere tutti quei libri che il mondo stesso non basterebbe a contenere.

Molte volte siamo vittime dell'invidia e ci lasciamo trasportare da passioni basse, che, soprattutto nel caso di chi come noi segue un certo percorso, non dovrebbero esistere. Il nostro dovere è evangelizzare, cioè portare la Parola di Dio a coloro che non la conoscono, perché si convertano e siano battezzati. Questo è un compito comune perché tutti siamo stati chiamati dal Signore.

Ciascuno di noi è e resta un originale irripetibile! Pertanto curiamo il nostro sviluppo interiore e cerchiamo di vivere e agire con i nostri fratelli, per ognuno dei quali il Signore ha un progetto speciale, un progetto “personalizzato”. Non pretendiamo tutti di fare la stessa cosa, perché ci sono diversi carismi e quindi modi diversi di piacere a Dio. Non dobbiamo mai dimenticare che il Signore ci ha donato il suo Spirito.

Seguire Gesù e testimoniarlo con la nostra vita sia e resti sempre il nostro primo impegno. Gesù non esclude nessuno di noi, ma vuole che ci impegniamo a seguirlo, perché siamo un corpo unico con diverse membra che devono muoversi in armonia e sincronia confidando pienamente nel Signore e, come abbiamo letto negli Atti: “annunciando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchezza e senza impedimento”.

Mentre ringraziamo il Signore per averci chiamati alla sua sequela nella Famiglia comboniana, preghiamo perché il lavoro capitolare che state per iniziare possa essere sorgente di rinnovamento per noi tutti comboniani e per la nostra missione.
Così sia.