Sabato 6 settembre 2025
Quella che segue è una riflessione personale, un tentativo di fare bilancio di un periodo significativo della mia vita di Fratello comboniano. Non ha altra pretesa se non quella di condividere alcune esperienze vissute in Ciad, nelle comunità comboniane e nella Chiesa locale. [A sinistra nella foto: Fratel Enrico Gonzales, mccj]

Presentare un paese come il Ciad non è semplice: le sfide sono molteplici. È una nazione in piena transizione da una società prevalentemente agropastorale a una che intende inserirsi sempre più marcatamente nella globalizzazione, con tutti i suoi limiti ma anche con le sue molte potenzialità.

Il Ciad è un Paese multietnico e multireligioso. Le élite che, negli anni ’60, lo condussero all’indipendenza dalla Francia provenivano soprattutto dal meridione. Dopo anni sanguinosi di guerra civile, il potere è passato a gruppi del nord, in particolare a un solo gruppo etnico che, di fatto, ha “sequestrato” la dinamica politica. L’accesso ai ruoli amministrativi e dirigenziali resta condizionato e ristretto: la presenza di quadri provenienti da diverse etnie e religioni è maggiore oggi rispetto al passato, ma le posizioni apicali restano quasi esclusivamente appannaggio degli zagawa (e in parte dei goran), appartenenti all’islam o convertiti ad esso.

Fratel Enrico Gonzales con altri confratelli in Ciad.

Le differenti tradizioni culturali, politiche e religiose dei popoli ciadiani pesano in modo decisivo sulla vita sociale, in particolare nei momenti cruciali dell’esistenza: la nascita, l’istruzione, il matrimonio, la morte. Non pretendo di aver visto o compreso tutto in questi anni: ho vissuto in realtà molto diverse tra loro, in un paese costituito da villaggi e alcuni centri urbani che, come la capitale N’Djamena, attraggono soprattutto i giovani. Il mio sguardo, inevitabilmente, è stato quello di chi ha conosciuto più da vicino il Ciad delle città.

N’Djamena, capitale politico-amministrativa sin dall’indipendenza, vive uno sviluppo urbano caotico. I nuovi quartieri spuntano a sud come funghi, in aree fino a poco tempo fa disabitate, dando vita a un tessuto urbano disordinato e sovraffollato. Il cuore storico della città si sviluppa lungo le sponde ciadiane del fiume Chari. Dopo le distruzioni della guerra civile, anche le zone settentrionali hanno conosciuto una forte crescita demografica, connotata da una prevalenza musulmana. Ne è risultato un vero e proprio apartheid spaziale e religioso: i quartieri settentrionali sono quasi interamente musulmani, mentre quelli centrali e meridionali sono abitati soprattutto da ciadiani del sud, in larga parte cristiani.

La comunità comboniana si trova nel quartiere di Am Ruguebe, a maggioranza musulmana. Vi ho vissuto sei anni, alla “Tenda di Abramo”, centro di dialogo con l’islam e di formazione per i giovani. Sono stati anni intensi e belli, che mi hanno permesso di conoscere una realtà per me nuova (venivo dal Sudan e dall’Egitto).

In seguito, mi è stato chiesto di trasferirmi ad Abéché, nel nord-est del paese, considerata la “culla” dell’islam ciadiano. Situata lungo l’antica rotta carovaniera verso Egitto, Libia e Sudan, ancora oggi è un importante crocevia commerciale. Ricordo un’immagine significativa: non lontano dalla parrocchia si estende un grande spiazzo, dove un tempo sostavano le carovane di cammelli e che oggi accoglie decine di TIR carichi di merci. Il camion ha preso il posto del dromedario.

Abéché fu la capitale del sultanato del Ouaddai, una realtà politico-religiosa di grande rilievo. I francesi riuscirono a sottometterla con molta difficoltà e solo formalmente. Fino agli anni ’60, la regione rimase sotto amministrazione militare.

Noi comboniani siamo responsabili della parrocchia di Santa Teresa di Gesù Bambino, che appartiene al vicariato apostolico di Mongo. Il suo territorio si estende fino al Sudan, alla Libia, al Niger e alla Nigeria. Una peculiarità della nostra presenza è la dispersione delle comunità cattoliche: negli anni, a causa dei movimenti migratori interni, della ricerca di istruzione (Abéché ospita due università) e di servizi sociali, si sono formati piccoli nuclei cattolici in diversi luoghi.

Abéché è una città dinamica, centro di traffici leciti e illeciti. Il conflitto in corso nel vicino Darfur ha generato una gravissima emergenza: circa un milione di sudanesi si sono rifugiati in Ciad. Le condizioni di vita dei profughi, nonostante gli sforzi delle agenzie ONU e delle Ong internazionali, restano al limite della sopravvivenza.

Visitando le comunità cattoliche, sono rimasto colpito dalla loro vitalità: una fede semplice, concreta, vissuta nonostante i problemi legati alle distanze e alla mobilità. Quanto ai ciadiani, non sono un popolo di grandi emigrazioni: esistono comunità della diaspora in Francia, Canada, Stati Uniti, Italia, ma la maggior parte degli studenti che vanno all’estero rientra in patria. Anche i paesi della penisola arabica attirano lavoratori e professionisti, ma i tassi migratori restano più bassi rispetto a quelli dei paesi vicini.

Il Ciad è in lento ma inarrestabile cambiamento. È facile notare, persino per un osservatore esterno, come le norme sociali si stiano trasformando sotto l’influsso della cultura globale del “tutto e subito”: lo si vede nel modo di vestirsi (soprattutto tra le giovani), nel linguaggio (sempre più influenzato dai social, in particolare Tik Tok e Facebook), nelle relazioni familiari. La religione, sia l’islam che il cristianesimo, resta molto sentita e praticata, ma anche qui si diffonde un certo formalismo: il cattolico è orgoglioso di dirsi tale, così come il musulmano mostra la sua fede partecipando alla preghiera del venerdì e custodendo le tradizioni.

In questi dieci anni, vissuti in due realtà tanto simili quanto diverse, ho potuto incontrare persone animate da grande buona volontà, capaci di affrontare le difficoltà con coraggio e fede nel Signore della Vita.

Lascio, almeno per ora, Abéché e il Ciad con il cuore colmo di volti, esperienze e ricordi, nella speranza di poter tornare un giorno.

Fratel Enrico Gonzales, mccj
Abéché, settembre 2025