In Pace Christi

Rebucini Riccardo

Rebucini Riccardo
Geburtsdatum : 14/01/1921
Geburtsort : Gerosa BG/I
Zeitliche Gelübde : 19/03/1947
Ewige Gelübde : 19/03/1950
Datum der Priesterweihe : 04/03/1944
Todesdatum : 07/10/1992
Todesort : Arco/I

Sul registro dei morti che si trova nella parrocchia di Berbenno, accanto al nome della mamma di p. Rebucini - Caterina Anconetti - ivi deceduta una ventina d'anni fa, c'è una nota che non si trova per nessun'altra defunta e che contrasta con l'uso dei parroci di mettere aggettivi o attributi accanto al nome di chi era passato a miglior vita. Ebbene, questa umile donna è chiamata "Piissima donna". Nel cuore di questa creatura trovano origine le vocazioni missionarie di p. Riccardo e di p. G. Battista.

Benché nato, battezzato e cresimato a Gerosa, p. Riccardo (e anche p, G. Battista) ha frequentato la scuola elementare di Brembilla: tre anni a Cadifoglia e due a Brembilla centro nella cui chiesa ha ricevuto la prima comunione.

Fin da piccolo, accompagnato dalla mamma, andava ogni giorno a pregare e a fare il chierichetto nella chiesa di Cadifoglia e talvolta anche nella chiesa prepositurale di Brembilla. P. G. Battista farà anche il curato per quasi due anni a Brembilla

Il Papà, di nome Battista, era commerciante di legnami e carrettiere. Acquistava dei boschi, li faceva tagliare e mandava i tronchi agli artigiani di Brembilla o li trasportava a Bergamo. Al ritorno portava le merci per rifornire del necessario il paesino di Gerosa. Era un gran lavoratore per cui riuscì a sostenere dignitosamente la sua famiglia anche nel periodo della guerra.

Il patto con Dio

La mamma, da ragazza era andata a Parigi come operaia, insieme al papà. Qui sentì la chiamata alla vita religiosa ma l'opposizione paterna fu tale, che dovette desistere dal suo proposito. Prima di andare in Francia, il futuro papà di p. Riccardo, le aveva espresso i suoi sentimenti di amore in vista di una futura famiglia, ma la, giovane le aveva risposto che nel suo cuore aveva fatto un'altra scelta.

Di fronte al'opposizione del padre, convinto anticlericale, si consigliò con il suo confessore il quale le chiese se non avesse mai avuto proposte di matrimonio.

Rispose di sì, ma avendo opposto un netto rifiuto il pretendente non si era fatto più vivo da anni.

"Se in questi giorni riceverai una sula lettera, è segno che il Signore ha stabilito per te la via del matrimonio e non quella della vita religiosa", le rispose il sacerdote.

Pochi giorni dopo, infatti, inaspettatamente giunse a Caterina una lettera di Battista nella quale rinnovava la sua richiesta. La giovane capì chiaramente qual era la volontà di Dio nei suoi riguardi, tuttavia, nel segreto del suo cuore, chiese al Signore due cose in cambio della sua rinuncia alla vita religiosa: primo, che almeno uno dei figli che il Signore le avrebbe dato, diventasse sacerdote; secondo, che suo padre si convertisse alla pratica della religione.

Il Signore, che non si lascia mai vincere in generosità, chiamò due dei suoi figli, non solo alla vita sacerdotale, ma a quella missionaria, e suo padre, il nonno di p. Riccardo, si convertì così radicalmente che per molti anni fece parlare di sé tutto il vicinato.

Mamma Caterina, tutte le mattine, incurante delle intemperie e della notevole distanza (3 km) era alla prima messa e poi rincasava svelta per accudire ai sei figli che il Signore le aveva dato.

Come il fratello

In questo clima la famiglia cresceva sana di corpo e di spirito. Intanto G. Battista entrò nel seminario di Bergamo, divenne sacerdote e fu inviato a Roma dal Vescovo per laurearsi in vista dell'insegnamento in seminatio.

Riccardo, il quartogenito, fin dai primi anni della sua infanzia manifestò il desiderio di seguire il fratello maggiore. Intanto frequentava la parocchia,serviva l'altare come chierichetto e, appena terminate le elementari, prese la via del seminario.

Si era durante la guerra. Riccardo era un ragazzo robusto e di buon appetito ,a in seminario dovette patire anche la fame e il freddo. Ciò fu deleterio per la sua salute specialmente per un periodo così importante per la crescita. Infatti si ammalò di artrite che gli lasciò un soffio al cuore e fu colpito da un persistente eesaurimento con frequenti dolori di testa. Nessuna meraviglia, quindi, se la poca salute gli giocò dei brutti scherzi durante la formazione al sacerdozio.

Una lunga strada

Nel 1949, al termine degli studi liceali, Riccardo fece domanda di entrare tra i Comboniani. La sua richiesta fu inoltrata dal fratello G. Battista, sacerdote da 5 anni e che da due aveva terminato il noviziato tra i Comboniani.

"Ho il piacere e la soddisfazione di spedirle la domanda di ammissione al noviziato di mio fratello Riccardo...", scrisse al p. Generale.

La salute, mai completamente ristabilita, e il carattere forte, volitivo, indipendente, permaloso... di Riccardo contribuirono a mettere qualche punto interrogativo sulla sua riuscita. Gia i superiori del seminario lo avevano giudicato "assente, estraniato dalla scuola, instabile, cocciuto", subito, però, aggiunsero "ma questo non per colpa sua bensì come effetto dell'esaurimento". Il rettore del seminario gli aveva proposto di attendere un anno e, intanto andare come assistente  nel Collegio Dante Alighieri di Bergamo. Invece Riccardo optò decisamente per il noviziato.

Entrò a Firenze il 26 novembre 1949 e fece la vestizione l'8 dicembre, solennità dell'Immacolata.

Già dai primi giorni apparve evidente che il giovane novizio aveva una lunga strada da percorrere per raggiungere quel grado di perfezione che la Congregazione esigeva dai suoi membri, e il p. maestro, Giovanni Audisio, non mancò di rimarcarlo. Quando giunse il tempo della professione, Riccardo si vide prolungare il noviziato di sei mesi.

Fu una prova bruciante che il giovane, tuttavia, accettò con fede. "Ringrazio la sua squisita bontà, rev.mo Padre Generale - scrisse Riccardo - che mi dà tempo e modo di modificare e riparare i miei falli e dar prova di miglioramento. Perciò io la ringrazio di tutto cuore e le chiedo sentitamente perdono d'averla tanto amareggiata con la mia condotta. Con la grazia di Dio e l'aiuto di Maria Santissima Immacolata mi sono messo d'impegno a lavorare per una soda formazione religiosa".

Poi parla della sua salute non troppo robusta, della sua digestione difficile che gli causa mal di testa, del bisogno di camminare... Essendo più avanti, come studi, rispetto ai suoi compagni, insegnava greco e italiano ai connovizi e frequentava contemporaneamente il primo anno di teologia a Fiesole e anche questo gli imponeva uno sforzo notevole... Fortunatamente non faceva difficoltà per la scuola in quanto gli bastava ascoltare il professore per apprendere la lezione.

Una ragazzata

La pagella scolastica negli esami finali dell'anno 1950-1951, rilasciata dal seminario vescovile di Fiesole, è tutta otto e nove salvo in Diritto Canonico. Accanto a questa voce c'è scritto: "La prova fu annullata per indisciplinatezza". Cos'era successo? Contrariamente al regolamento, Riccardo si era portato il Commento al Diritto Canonico, e fu pescato. Una ragazzata, che, tuttavia, gli costò una duplice ammonizione: dei superiori e del rettore del seminario. Ma, diciamolo onestamente, alzi la mano chi in vita sua non ha fatto qualcosa di simile. Il torto di Riccardo è stato quello di essere stato colto in fragrante.

"Credo che si possa essere soddisfatti della prova impostagli - scrive p. Giovanni Audisio al termine del noviziato. - Ha dimostrato un reale attaccamento alla vocazione. Ha vissuto la sua vita di noviziato regolarmente e nel suo ufficio di insegnante ha dimostrato grande impegno e senso di responsabilità".

Il 31 maggio del 1952 emise la professione temporanea e poi passò a Venegono Superiore per completare la teologia. Anche in questo periodo dovette lottare non poco per combattere i suoi difetti che continuavano a spuntar fuori con rinnovata veemenza. Se fosse stato per i formatori, Riccardo non sarebbe diventato sacerdote; fortunatamente il p. Generale (p. Todesco) si assunse personalmente la responsabilità, e lo mandò avanti.

Sacerdote con fatica

In questo avvicendarsi di alti e bassi, di delusioni e di speranze, è stata determinante la presenza silenziosa di mamma Caterina. Conosceva quel suo figlio; era al corrente dei suoi difetti e dei suoi slanci di generosità e per lui pregava e si sacrificava per ottenere dal Signore ciò che gli uomini sembravano negare. "Capitò più di una volta che la nostra mamma - dice p. G. Battista - ricevesse le nostre due lettere nello stesso giorno. Per prima apriva quella di Riccardo. 'Questo figliolo mi preoccupa più dell'altro - diceva - devo starle più vicina perché è più debole". Il Signore ascoltò quelle preghiere ferventi condite da infiniti piccoli e grandi sacrifici e, il 26 giugno 1955 Riccardo venne ordinato sacerdote a Milano dall'allora arcivescovo Giovanni Battista Montini. Dobbiamo, anzi, dire che Riccardo era stato ammesso alla professione dei Voti perpetui tre mesi prima della scadenza dei Voti temporanei; una piccola rivincita sui sei mesi accuimulati alla fine del noviziato, ma segno anche di un buon cammino fatto nella via della perfezione.

Volle celebrare la sua prima messa nel santuario della Madonna della Foppa di cui era particolarmente devoto. Fin da piccolo, infatti, con la mamma e i fratelli frequentava quasi quotidianamente questo santuario assai vicino alla sua casaq dove la Madre di Dio era apparsa a due pastorelli e aveva fatto scaturire una sorgente di acqua miracolosa durante un lungo periodo di siccità. Inoltre considerava quella Madonna come la protagonista del suo sacerdozio, Colei che lo aveva aiutato a superare tante difficoltà e a concedergli di raggiungere la meta tanto agognata.

Il santuario della Foppa rappresenterà una meta ideale anche durante gli anni di missione e soprattutto di malattia. Lo constatiamo dalle numerose lettere nella quali parla spesso di questa Madonna sempre larga di benedizioni e di favori nei confronti dei suoi devoti.

Insegnante a Sulmona e ad Asmara

Dopo l'ordinazione fu destinato al piccolo seminario comboniano di Sulmona, in provincia de L'Aquila (Abruzzo) come insegnante. Si dimostrò un uomo capace, anche se un po' duro ed esigente. Voleva che i ragazzi uscissero dalla scuola con una seria preparazione intellettuale e che, di fronte agli esaminatori esterni, tenessero alto il nome dell'Istituto.

Alla domenica si prestava volentieri per il ministero anche se ciò gli comportava qualche fatica sempre per via della salute che non fu mai ottimale.

Ogni anno, durante le vacanze estive, andava a Parigi a sostituire i cappellani di un sanatorio assenti per le loro vacanze, e per studiare la lingua francese.

Dopo un corso di inglese a Londra nel 1959, partì per l'Etiopia, con destinazione Asmara per insegnare lingue nel Collegio Comboni che allora contava 1.200 alunni. Negli ultimi due anni (1965-1966) fu anche l'amministratore di quell'immenso complesso.

Ma la salute cominciò a perseguitarlo. Insonnia, mal di testa, stanchezza diventarono le sue compagne inseparabili per cui dovette rimpatriare.

Cappellano, fratello ed amico

Fu inviato a Yverdon, in Svizzera (1866), tra gli emigranti italiani. P. Riccardo era un uomo dalla parola facile, dal discorso piacevole, dalla compagnia gradevole. S'intratteneva con quei giovani e con quelli uomini sradicati dalle loro famiglie e li sosteneva nei loro immancabili momenti di difficoltà e di scoraggiamento.

Molti che, lasciando il paese d'origine, avevano dimenticato la pratica religiosa o addirittura avevano perso la fede, ricondusse a Dio. Si adoperò non solo per il loro bene spirituale, ma anche per una dignitosa sistemazione materiale. Insomma, in tre parole, divenne, oltre che sacerdote, anche amico e fratello di tanti tribolati.

Tra il 1967 e il 1968 frequentò il Corso di aggiornamento a Roma e poi tornò nuovamente in Svizzera. Una nota del Consolato italiano di Losanna recita: "E' da un po' di tempo che a Yverdon si nota un bel clima di distensione tra gli italiani, e questo grazie alla missione cattolica italiana, mentre prima era una guerra spietata tra le varie fazioni, e su quella povera missione si riversavano valanghe di odio e di disprezzo". Prima di lui avevano lavorato p. Malugani "un santo" e p. Buffoni "un lavoratore formidabile. Anche a questi confratelli va il merito dell'ottimo successo per la missione irtaliana in Svizzera. Ogni domenica doveva celebrare 4 messe in luoghi distanti uno dall'altro, visitare ammalati e prigionieri, famiglie e circoli italiani. Durante la settimana c'erano le varie scuole di catechismo da animare.

Nel 1971 fu inviato a Londra come cappellano in una parrocchia dove fece analoga esperienza con gli emigrati italiani in Inghilterra. Sembrava che per questo genere di apostolato avesse un carisma tutto particolare. Contemporaneamente si perfezionò nella lingua inglese.

Nuovamente in Africa

Ma il "mal d'Africa" si fece presto sentire. Ristabilito nella salute, chiese di tornare in missione. Ed ecco che nel 1976 lo troviamo a Minakulu (Uganda) come vice parroco. Dal 1976 al 1977 fu parroco della stessa missione.

Stando alle testimonianze dobbiamo dire che p. Rebucini dimostrò di avere una cura tutta particolare per i poveri. Era di buon cuore e,di fronte a certe povertà fisiche e spirituali del suo popolo, si commoveva e adoperava tutti i mezzi per alleviare le sofferenze.

Si distinse anche nella catechesi: aveva la capacità di rendere chiare e accessibili anche le verità più impegnative del Cristianesimo, e col suo modo di fare teneva desta l'attenzione negli ascoltatori.

Animatore missionario

Dopo cinque anni, nel 1977, rientrò in Italia per le regolari vacanze. Sperava di poter ritornare in missione al più presto, ma i medici gli riscontrarono serie carenze quanto a salute per cui i superiori pensarono di valorizzare la sua capacità di buon parlatore utilizzandolo per l'animazione missionaria di base. Possiamo dire che dal 1978 al 1989 battè molte parrocchie del Veronese e del Bergamasco tenendo quasi settimanalmente la Giornata missionaria.

Nel 1979 fu ricoverato alla clinica Gavazzeni di Bergamo e poi all'ospedale Niguarda di Milano per una fistola orosinusale che lo affliggeva da diversi mesi e che era stata inutilmente operata per ben tre volte. "Questo male - scrisse - è stato causato da una pessima estrazione di un dente qui a Verona, non in Africa". Dopo quelle tre, seguiranno altre quattro operazioni in bocca. Inoltre il fegato perdeva colpi, l'anemia gli procurava uno strano pallore in volto e tanta debolezza.

Nel 1980 presso gli Istituti Ospitalieri di Verona gli viene esaminato un frammento di fegato. La sentenza dice: "La normale struttura epatica appare completamente sovvertita per notevole proliferazione di connettivo fibroso".

"Alla grave cirrosi epatica - scrisse - si aggiunge la splenomegalia, cioè l'ingrossamento della milza che è ben sette volte la norma e mi divora le piastrine".

Proprio in calce a questo foglio inviato al p. Generale, p. Riccardo aggiunge: "Ora mi sembra di stare meglio per cui spero di poter ripartire per l'Africa in aprile-maggio. Come poteva partire in simili condizioni? I superiori pensarono bene di fargli continuare l'incarico di animatore dove riusciva così bene.

Equilibrato, aperto al nuovo ma ben agganciato alla sicura teologia tradizionale procedeva nel suo dire, dice un parroco, "come un motore ben oleato". Un uomo così era ben accolto nelle parrocchie e trovava consensi.

Furono dieci anni molto intensi di attività. Poté resistere così a lungo alla non indifferente fatica dell'animatore, grazie alla possibilità di riposarsi durante la settimana. "I primi tre giorni per rifare le forze, i secondi tre per immagazzinare energie per la prossima fatica", diceva scherzosamente. Che ce la mettesse tutta era evidente, ed era evidente che quel lavoro gli pesava perché la malattia che lo avrebbe condotto alla tomba era già presente nel suo organismo.

Le varie operazioni alla fistola recidiva in bocca, gli avevano forato il palato per cui, quando beveva, era costretto a tenersi un dito premuto contro la guencia affiché il liquido non gli invadesse il naso. Tuttavia continuava imperterrito il suo lavoro di animatore.

Un posto per morire

Nel 1982 i superiori lo assegnarono alla provincia italiana nella quale già operava da cinque anni. Accettò l'obbedienza con realismo e serenità... "Capisco anch'io che in missione sarei più di impiccio che di aiuto. E' meglio che quel poco che posso fare lo faccia qui", scrisse.

Il Signore gli concesse ancora sette anni di attività, sempre come animatore, in gran parte passati a Verona. Si può dire che non c'è paese del veronese e del bergamasco dove p. Riccardo non sia conosciuto e ricordato. I suoi mali, tenuti a freno con la regolarità della vita, i controlli ospedalieri e il riposo settimanale, cominciavano ad avere il sopravvento. Scrive p. Branchesi, superiore della casa di Arco: "Ho incontrato per la prima volta p. Riccardo Rebuccini ai primi di settembre del 1989 a Verona. In quell'occasione mi prese in disparte e mi disse che stava pensando di ritirarsi in una casa della Congregazione per un periodo di totale riposo, dato che le sue condizioni di salute peggioravano.

Allora non si dilungò troppo a descrivermi i suoi malanni anche perchè, avendo intuito il suo desiderio, lo interruppi quasi subito per dirgli che, sia io che i miei confratelli di Arco avremmo considerato una vera grazia di Dio se lui si fosse deciso di venire a stare con noi.

Qualche giorno dopo il Padre ci fece visita ad Arco. Volle rendersi conto del posto, della stanza, della comunità, dell'orario quotidiano, degli ospedali e medici della zona e, finalmente mi disse che aveva deciso di rimanere. A quanto mi risulta p. Rebuccini fu sempre soddisfatto di questa scelta e parlava spesso con ammirazione di ciascun confratello, della comunità e dell'assistenza che riceveva".

Tumore con serenità

In una visita a Verona, i sanitari diagnosticarono che il male al fegato si stava trasformando in tumore. Il Padre accolse la notizia con apparente serenità e cominciò a collaborare con i medici in modo da rellentare più possibile il decorso della malattia.

Prosegue p. Branchesi: "Avendo passato la vita quasi sempre come ammalato, il Padre era diventato meticoloso nella cura della sua salute, e aveva l'abitudine di autogestirsi. Si era scelto il suo medico, faceva i suoi appuntamenti con gli ospedali, comperava le sue medicine e faceva promemoria di ogni informazione o sintomo a riguardo della salute. Circa ogni due mesi lo portavo all'istituto dei tumori a Milano da dove poi passava dai suoi a Berbenno.

Dopo le visite a Milano, e dopo quelle che faceva nei vari ospedali di Arco, Riva del Garda, Verona e Rovereto, mi faceva un rendiconto molto dettagliato sulle sue condizioni di salute. Questi rendiconti duravano oltre un'ora ogni volta e spesso richiedevano una seconda seduta. Sembrava assaporasse la morte che vedeva ogni giorno più vicina, ma sempre con molta serenità.

Durante i viaggi da un ospedale all'altro, alle solite preghiere il Padre aggiungeva molte altro invocazioni che non avevo mai sentito, a Santi che non avevo mai conosciuto. Alla fine diceva: 'Queste sono preghiere che mi ha insegnato mia madre. Le recito ogni giorno in sua memoria'.

Negli ultimi tempi si teneva piuttosto appartato, anche perché, come diceva lui stesso, non voleva sentire da nessuno parole di compassione o espressioni di dispiacere per la sua sorte, perché non ne aveva bisogno. Mi assicurava che nel suo intimo si sentiva profondamente sereno.

Da questa sua attitudine e dalle conversazioni che facevamo, specie durante i nostri lunghi viaggi a Berganmo e a Milano, o a casa di sua sorella a Berbenno, a me cresceva in cuore un senso di confusione e ammirazione perché non riuscivo a capire come un malato di quel genere, che si rendeva conto di avere i giorni contati, riuscisse a parlare con tanta serenità della propria morte imminente.

Questo suo coraggio, questa rassegnazione, frutto indubbiamente di una solida fede, sorprendeva non solo noi di casa, ma anche i medici e il personale degli ospedali che frequentava. So di alcune persone che nelle ultime settimane della sua vita andavano a trovarlo proprio per vedere con i loro occhi e imparare come si può vincere anche la morte con lucidità di mente e serenità di spirito.

Quelli che hanno conosciuto p. Riccardo, però, sanno che non aveva improvvisato questa sua suprema lezione: l'aveva preparata per tutta la vita".

Un bacio alla Madonna

L'anno prima di morire, in uno delle sue visite al paese, volle recarsi al santuario della Foppa per quella che riteneva la sua ultima messa. Parlando del suo male ai fedeli, disse tra l'altro: "Sì, Padre, sia fatta la tua volontà". Lo disse con una tale serenità che sbalordì tutti. Lo disse scoccando un bacio verso la statua della Madonna. Un anziano presente, fuori chiesa commentò: Quando si parla così, c'è la stoffa del santo".

P. Pietro Ravasio scrive: "Ho ricevuto da p. Riccardo, specie negli ultimi mesi della sua malattia, un esempio quasi unico di lucidità di fronte alla morte. La sua resterà per me un esempio di morte veramente cristiana. Potrei scrivere diverse cose sui nostri incontri e soprattutto sulla convivenza nella medesima comunità nel Collegio Comboni di Asmara dal 1959 al 1956, ma non credo sia così importante. Ho passato con lui buona parte del giorno 1° settembre u. s. nella casa di sua sorella Lina a Berbenno (BG).Alcuni mesi prima di quell'incontro mi aveva scritto e, fortunatamente non ho stracciata la lettera dalla quale trascrivo alcune righe:

'Il mio male viene curato all'istituto dei tumori a Milano. Talora danno tenui speranze, ma non m'illudo: mi sento sempre molto stanco... Dopo essersi curati, ciò che importa è accettare con serenità di spirito la volontà di Dio. Ciò che mi interessa, e che mi è sempre interessato, del resto, è di vivere e morire in grazia di Dio. Dopo... succeda ciò che Dio vuole'.

Durante il nostro incontro approfondì questo concetto e dimostrò un fede veramente cristallina. Disse che riteneva quello il nostro ultimo incontro: le cose si erano aggravate ma lui era pronto. Poi disse che almeno alla domenica riusciva a celebrare la messa in parrocchia sebbene ne uscisse sfinito. 'Si deve dare l'esempio ai cristiani, specialmente quando non si sta bene', disse. Penso proprio che p. Riccardo poterbbe essere uno che ci aiuta a redigere un codice della morte comboniana".

Ho combattuto la buona battaglia

Qualche giorno prima di entrare in coma all'ospedale di Arco, il Padre non riusciva più a parlare. Ad un certo punto fece un cenno a p. Branchesi che lo assisteva, indicandogli di prendere un libretto dal comodino. Era il registro delle sante messe che aveva tenuto aggiornato fino a quel momento, 27 settembre 1992. Quella mattina, sul libretto il Padre aveva scritto le sue ultime parole: "Fino ad oggi ho celebrato 13.920 sante messe". Ogni mese aveva riportato la somma precedente. Poi si appisolò e, poco dopo, rese la sua anima a Dio.

P. Riccardo può ben dire con san Paolo: "Ho combattuto la buona battaglia, sono arrivato al traguardo, ho conservato la fede. Ora spetto la corona che Dio riserva ai suoi servi". L'uomo dal lungo cammino era arrivato al traguardo, un traguardo guadagnato a prezzo di lotte e sforzi non comuni. Ma la grazia di dio non gli è venuta meno.

Per i funerali del Padre, Berbenno ha vissuto una giornata di transito pasquale. Ventuno i sacerdoti che si sono riuniti all'altare per celebrare l'Eucaristia in suffragio del confratello. Poi la salma è stata tumulata tra i sacerdoti della parrocchia per essere segno di benedizione e luce sulla strada dell'eternità.

Approfittiamo di queste pagine per rinnovare il nostro cordoglio a p. Giambattista che si rtrova nel reparto infermeria del Centro Assistenza Malati di Verona. Siamo certi che dal cielo, il fratello p. Riccardo gli otterrà serenità e quel tanto di salute in modo da poter fare ancora tanto bene ai confratelli e a chi viene a visitarlo.            P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 179, luglio 1993, pp.45-51