Il ricordo che p. Coccia ha lasciato di sé è quello di un uomo buono, mite, remissivo e sempre sorridente. Anche da bambino non era diverso. Nella sua pagella di quinta elementare, tra una serie di "buono", spicca un "lodevole" in condotta. Il suo parroco, don Francesco Antonelli, ha scritto di lui: "Ha serbato sempre lodevolissima condotta, crescendo pio, umile, obbediente".
Quando, affascinato dalle parole del "reclutatore" che aveva presentato il problema della missioni ai ragazzi di quinta elementare, chiese a papà Vincenzo di farsi missionario, ricevette una risposta affermativa perché la famiglia era profondamente cristiana anche se la mamma, Maria Michela Antenozzi, ebbe un sussulto al pensiero di vedere quel suo ragazzino (era tanto piccolo) "sperduto in mezzo all'Africa".
Siro entrò nel seminario missionario di Sulmona nel 1939 per iniziare le medie e il ginnasio. Non si distinse in grandi cose se non nella remissività e nella capacità di "prenderle" di fronte a qualche compagno un po' prepotente.
Visse gli anni della guerra con tutte le conseguenze di povertà e di ristrettezze che ciò comportava, anche se Sulmona, zona prettamente agricola, non fece mancare l'indispensabile ai suoi futuri missionari.
Con un po' di timore
Dal seminario comboniano di Sulmona, Siro passò al noviziato di Firenze dove il 6 gennaio 1945 fece la vestizione e il 7 ottobre 1946 la prima professione.
Come gli altri novizi, anche fr. Coccia doveva andare alla questua dell'olio nelle fattorie del circondario. A lui costava enormemente quella mansione. Si vergognava a chiedere a gente povera che viveva esclusivamente con l'introito proveniente dall'olio. "Quando alla sera rincasava - dice un confratello - era tutto rosso in viso, vuoi per la fatica, vuoi per lo sforzo fatto a tendere la mano".
P. Giuseppe Galeotti, che fu suo superiore in Africa, afferma che p. Coccia fu uno dei pochi comboniani che non aveva benefattori, proprio per questa sua istintiva ripulsione a chiedere. Non perché si vergognasse, ma perché sapeva che coloro che davano erano normalmente i poveri.
Affrontò i due anni di noviziato con impegno e serietà. I difetti contro i quali concentrò le sue "batterie" furono la cocciutaggine e una certa rigidezza di carattere. Il padre maestro, tuttavia, riconobbe che "la bontà del cuore supplisce egregiamente la durezza del temperamento, e lo spirito di obbedienza pronta, cieca e allegra smussa l'attaccamento alle sue idee, per cui sarà un missionario col quale sarà possibile andare d'accordo benissimo".
Quando fu il momento di fare la domanda per i Voti, Siro ebbe un attimo di esitazione. "Rev.mo Padre - scrisse al Generale - lei un giorno mi disse di considerare i Voti come il Suddiaconato. Come tale li considero, ma le mie debolezze e la responsabilità del passo mi fanno temere alquanto". Il padre maestro, però, intervenne dando le più ampie assicurazioni sull'ammissibilità di Siro. E non si sbagliò.
Subito ci comprendemmo
Dopo i due anni di liceo a Rebbio (uno lo aveva fatto a Firenze) andò a Venegono per la teologia.
Il 7 giugno 1952 venne ordinato sacerdote a Milano, e subito fu inviato a Londra per lo studio dell'inglese. La sua destinazione, infatti, era l'Uganda.
Partì alla fine del 1953. Le tappe del suo ministero furono: Aliwang, Lira, Aduku, Minakulu, Aboke, con gli incarichi prima di coadiutore e poi di superiore e parroco.
Per delineare lo stile missionario di p. Siro Coccia, riportiamo una testimonianza di p. Giuseppe Galeotti:
"Dopo un anno e mezzo dal mio arrivo in missione a Lira-Ngeta, centro del distretto Lango, fui mandato da p. Tarantino come cappellano stabile nella cappella di Aliwang, a 50 chilometri di distanza, per preparare il posto a una nuova missione.
Ero ancora giovane e pieno di tanta voglia di lavorare. Le missioni vivevano il momento dello sviluppo delle scuole che assumevano un'importanza tutta particolare per il lavoro di evangelizzazione. Il territorio di Aliwang aveva 25 chilometri di raggio, ed una sola persona non poteva seguire i lavori materiali di sviluppo scolastico e insieme il lavoro apostolico di visite ai villaggi e alle cappelle disseminate nel circondario.
Nel 1953 arrivò p. Siro Coccia. Era la prima volta che venivo a contatto con lui, ma subito ci comprendemmo a meraviglia. Era un tipo semplice, umile, buono, pieno di zelo e di tanta carità anche se un po' timido. Si rivelò subito una benedizione per la missione grazie alla sua volontà di aiutare tutti.
Mise subito un grande impegno nello studio della lingua locale ed in breve cercò di rendersi utile nell'istruzione dei catecumeni che venivano molto numerosi alla missione.
Il vecchio catechista Bilemo, che conosceva tutti i missionari passati nel distretto, lo ammirava, aveva stima di lui e cercava di aiutarlo ad imparare gli usi e i costumi della gente. Con lui p. Siro fece i suoi primi safari per visitare le cappelle, riunire i cristiani per la preghiera e i sacramenti, incoraggiarli nelle assemblee di zona a mettere in piede scuolette locali, tanto richieste dagli abitanti dei villaggi. Sorsero così tante capanne di pali e fango con tetti di paglia, si trovò un maestro locale in modo che i bambini potessero leggere e scrivere usando una lavagnetta o... la polvere del cortile, dato che quaderni e matite non ce n'erano.
Con il catechista visitava le famiglie dei cristiani sparsi nei boschi, li esortava a sposarsi in chiesa e a battezzare i loro bambini. Trattava gli operai, i maestri e i catechisti con tanta affabilità e pazienza, lasciando in tutti un caro ricordo.
Siamo rimasti insieme quattro anni - conclude p. Galeotti - lui più giovane di me di non molto, ma più pio e più umile. Non ha fatto cose straordinarie, ma le ha fatte tutte con bontà straordinaria. Per me è stato un vero fratello; ci siamo voluti bene, abbiamo portato insieme i pesi della missione. In seguito è passato ad uffici di responsabilità in altre missioni. Ovunque ha lasciato un ricordo indimenticabile di bontà e coerenza missionaria".
Delicatezza di coscienza e senso pratico
Sfogliando le lettere che p. Coccia scriveva ai superiori, notiamo una grande delicatezza di coscienza e una squisita carità. Mai una parola di critica nei confronti dei confratelli, anzi abbondava in elogi nei confronti di chi gli stava accanto.
Un giorno aveva ricevuto un'offerta inviatagli dal procuratore del tempo con la dicitura "per i lebbrosi della sua missione". P. Siro aveva grande bisogno di aiuti per terminare il tetto della chiesa. Tuttavia non toccò quei soldi. Poi si decise a scrivere al padre generale in questi termini: "La ringrazio sentitamente della sua bontà e interessamento per la mia missione, ma l'indicazione che p. Gasparini ha messo, mi ha fatto venire gli scrupoli. Nella mia parrocchia non ho lebbrosi, per cui non posso usare quel denaro". Il padre generale lo autorizzò a cambiare l'intenzione dell'offerta. Solo allora mise mano al lavoro di copertura della chiesa di Minakulu.
Quanto al senso pratico, cito una frase scritta nel 1969 riguardante la situazione economica. I missionari ricevevano dalla procura solo quanto bastava per il cibo, e anche questo "magro" perché i tempi erano difficili, senza alcun margine per i viaggi e le visite ai villaggi. Ebbene, p. Coccia scrisse: "Cosa serve mangiare se poi non si può lavorare?". Più chiaro di così!
Amore per i Fratelli
E' interessante vedere come parla dei Fratelli. Per tutti stima e ammirazione. I superiori gliene avevano mandato uno che era in crisi e che voleva abbandonare l'Istituto. Egli, scrivendo al Generale, disse: "Parecchi difetti che i superiori avevano notato, io non li ho notati. Invece trovo molto di positivo. E' umile, laborioso, obbediente, prega. Cosa si vuole di più? Forse gli è mancata una seria e forte formazione al momento giusto. Essendo un carattere sensibile e sentimentale avrebbe avuto bisogno di una mano paterna e forte nello stesso tempo. Se altri hanno notato dei limiti, non è colpa sua. Io gli voglio molto bene e lo apprezzo per quanto sa fare". Il Fratello di cui parla è ancora in Congregazione ed è bravissimo. Un po' di merito, probabilmente, va anche a p. Coccia.
Quella volta si arrabbiò
Il Padre si è "inquietato" una sola volta. E fu a motivo di fr. Vittorio Fanti. Ma sentiamo il brano di lettera che esprime molto bene il carattere, la rettitudine e la carità dello scrivente.
"Aboke 3 aprile 1961. Reverendissimo Padre Generale, prima di tutto le chiedo scusa per non averle scritto gli auguri di Pasqua. Ad ogni modo le assicuro che l'ho ricordata nella messa. Le dico subito che scrivo questa lettera per lamentarmi un po' di una cosa di cui ho sentito lamentarsi moltissimi altri missionari di qui, compreso il nostro vescovo.
Il lamento è a proposito di fr. Fanti che mons. Tarantino non vuole assolutamente lasciare per i lavori di decorazione nelle varie chiese della diocesi di Gulu, che sono state costruite in questi ultimi anni. (Fanti era della diocesi di Arua e Coccia di Gulu n.d.r.). Attualmente fr. Fanti si trova a Kitgum per decorare la chiesa di quella missione. P. Romanò è riuscito a strapparlo dal West Nile per qualche mese. Dopo sarebbe dovuto venire qui ad Aboke dove abbiamo una bella chiesa, la più grande del distretto Lango, che da quattro anni aspetta fr. Fanti. Ma ora sembra che mons. Tarantino e il Provinciale del West Nile abbiano scritto perentoriamente richiedendo il Fratello perché torni immediatamente. Se mons. Tarantino richiedesse il Fratello per decorare le chiese della sua diocesi, nessuno si lamenterebbe, ma lo chiede per lavori che qualsiasi fratello è capace di fare, mentre di Fanti, cioè di fratelli capaci di decorare, ce n'è uno solo. Ho sentito molti missionari dire che è un vero peccato sprecare le belle qualità e possibilità di fr. Fanti in tal maniera, mentre ci sono tante chiese che il bravo Fratello potrebbe, ed avrebbe piacere anche, decorare a gloria di Dio. Per di più ormai è anziano, e nel lavoro che è suo proprio renderebbe molto di più che non nel lavoro di costruzioni. Più volte ho sentito il nostro vescovo parlare di ciò in maniera molto addolorata.
Reverendissimo Padre, se ho fatto male a criticare un vescovo, mi perdoni, ma se potesse interporre la sua autorità per risolvere la situazione, stia certo che tutti i missionari la benedirebbero. Sarebbe una bella soluzione se fr. Fanti potesse essere a disposizione di ambedue le diocesi ma solo per lavori di decorazione.
Ho scritto io che non ho nessuna autorità, perché mi sento interessato per la mia chiesa. Ho scritto più volte a p. Albrigo e al vescovo, ma essi hanno tentato invano presso mons. Tarantino. Hanno offerto anche un fratello in cambio di fr. Fanti, ma inutilmente.
Mi scusi molto reverendo Padre della mia tirata, ma forse è meglio che le critiche siano note a chi può rimediare, in modo che la causa delle stesse possa essere tolta".
La risposta di p. Briani fu quanto mai salomonica: "Fanti è un uomo che chi ce l'ha se lo tiene". Ma poi corresse il tiro aggiungendo: "A Dio piacendo spero di venire costì nei primi mesi del prossimo anno, e vedremo di combinare anche questa faccenda". Dal seguito della storia sappiamo che, proprio da quel periodo, fr. Fanti poté dedicarsi quasi esclusivamente alla decorazione delle chiese.
In Italia
Nel 1982, dopo 29 anni di vita missionaria, comprese le vacanze in Italia, p. Coccia ricevette l'ordine dal padre generale di rientrare per rimettersi in salute (soffriva di ernia allo stomaco) e per un servizio alla Provincia italiana. La chiusura da parte di quest'ultima della casa di Sulmona, dove il Padre aveva intrapreso il suo cammino nella vita missionaria, gli causò un particolare dolore. Ma seppe farsi coraggio e mandò giù il boccone amaro. Tuttavia, da alcune lettere intercorse tra p. Masserdotti, assistente generale, e p. Coccia, sappiamo che quest'ultimo si era battuto per una presenza comboniana nell'Abruzzo-Molise.
I superiori intanto lo destinarono alla comunità comboniana di Casavatore, Napoli, come incaricato delle attività pastorali della rettoria (o cappella) inserita nel complesso della casa. Celebrava la messa giornaliera e domenicale, aiutava il parroco e accostava la gente molta della quale risentiva ancora delle conseguenze del terremoto.
Scrive p. Consonni, superiore a Casavatore: "Durante tutto questo tempo, p. Siro si conquistò la stima e la benevolenza della gente e l'amicizia con il parroco dal quale aveva avuto l'incarico di preparare i bambini alla prima comunione. Svolgeva questa attività in collaborazione con alcune catechiste.
Dopo poco tempo dal suo arrivo, mons. Pace, direttore della Caritas di Napoli, lo pregò di assumere l'incarico di coordinare il 'centro di ascolto' per gli immigrati extracomunitari con sede presso la Curia vescovile, usufruendo di un locale della stessa Caritas.
Affrontò il lavoro con dedizione e costanza come testimoniano i suoi quaderni zeppi di note, appunti, indirizzi, e lo stesso mons. Pace e collaboratori.
Ultimamente era impegnato a estendere la rete di collaborazione sia nell'ambito del volontariato, sia in quello degli istituti missionari presenti in diocesi in modo da offrire maggiori e migliori servizi al crescente numero di extracomunitari presenti in città.
Si sentiva a suo agio nella comunità e anche i confratelli si trovavano bene con lui. Il suo carattere bonario, la sua disponibilità all'accoglienza contribuivano a creare un clima di serenità e di fiducia nella casa.
Apprezzava particolarmente la sincerità e la cordialità nei rapporti interpersonali, anche rispetto alle inevitabili divergenze di opinioni proprie di un gruppo formato da persone di diversa età ed esperienza di missione. Cercava di capire il perché e il senso delle divergenze e con molta franchezza esprimeva il proprio punto di vista".
Dall'Uganda sollecitano
Il 28 aprile 1986 il padre generale gli scrisse: "Dall'Uganda sollecitano il tuo ritorno. Con l'esperienza che hai e con la conoscenza della lingua, la tua presenza è quanto mai preziosa. La stessa Provincia italiana, di fronte all'urgenza dell'Uganda, farà un sacrificio per lasciarti libero".
Il Signore aveva disposto diversamente. L'ernia che lo tormentava da anni si acuì per cui la partenza venne continuamente rimandata, anche se il Padre aveva più volte insistito di poter ripartire.
Intanto svolgeva i suoi compiti, come la salute gli consentiva, a Casavatore. Finalmente aveva stabilito la data della partenza per la missione. Ma proprio a questo punto un infarto lo colse improvvisamente verso le ore 14 del 28 gennaio, mentre stava vedendo il telegiornale. I confratelli e il medico subito accorsi non potevano che constatare il decesso.
La partecipazione alle esequie è stata molto sentita dalla gente, sia a Casavatore, sia al paese natale dove è stato portato. Ora giace nel locale cimitero, accanto alle spoglie della mamma.
P. Siro Coccia ci lascia un luminoso esempio di bontà, di umiltà e di mitezza. Ci ha inoltre insegnato come si possa vivere l'avventura missionaria con il costante sorriso sulle labbra, segno di una profonda pace interiore e di un senso di piena realizzazione della propria personalità nella vocazione di missionario comboniano. P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 168, ottobre 1990, pp. 41-46