Con la stella in fronte
Giuseppe è nato a Milano il 20 dicembre 1935 da Stefano e Anna Cocini. Insieme a lui venne alla luce anche il gemello Angelo, due maschi gli ultimi - di una famiglia che contava già quattro femmine. Il papà, originario di Cannobio sul lago Maggiore, dove i Roncari hanno una villa e la tomba di famiglia, pianse di gioia alla nascita dei due. Egli, a Milano, possedeva e dirigeva una fiorente industria di oggetti in smalto per la casa. Finalmente erano arrivati coloro che avrebbero continuato il suo lavoro.
Alla laboriosità e all'intraprendenza, papà Stefano univa uno spirito di fede e una vita cristiana a tutta prova. Da giovane avrebbe voluto farsi sacerdote. Sennonché il suo direttore spirituale gli disse che non era quella la sua strada. Allora si sposò, mettendo le basi di una famiglia veramente cristiana. Giuseppe, alla nascita, aveva una stella in fronte, che i medici si affrettarono a far sparire.
Egli, tuttavia, commentando il fatto, dirà: "Certamente si è trattato di un caso; io, però, leggo l'avvenimento come un segno di predilezione da parte di Dio che mi aveva scelto fin dal seno materno".
La peste della famiglia
Guardando l'infanzia e la fanciullezza di Giuseppe non si scorgevano particolari segni di predilezione divina o di vocazione, anzi. Era un ragazzino ribelle, cocciuto, niente affatto incline alla preghiera e alle pratiche religiose. In scuola era una vera peste per cui veniva spesso rimandato a casa dalla maestra per indisciplina e disturbo.
Di fronte ai rimproveri faceva il menefreghista. "In scuola - dirà - ero sempre tra i cattivi o dietro la lavagna, perché insofferente della disciplina. Le mie vere preoccupazioni erano i piccoli traffichi di gomma americana, o cose del genere, con i compagni con i quali spesso litigavo".
Era appassionato delle escursioni in montagna, degli sci e delle gite in barca e in bicicletta. La natura lo affascinava e infondeva un senso di pace nella sua vita turbolenta.
Come Dio volle terminò le elementari. Mentre il fratello Angelo fu iscritto al Manzoni, Giuseppe frequentò il Collegio Leone XIII tenuto dai Gesuiti. Durante l'anno di prima media, però, studiò a casa, assistito dalla sorella Maria. Il papà, bontà sua, giustificò l'assenza adducendo la scusa che Giuseppe non stava bene. In realtà il ragazzo mal sopportava la disciplina del collegio. Inoltre stava maturando una crisi che sarebbe scoppiata l'anno dopo. Tuttavia agli esami di prima media fu promosso con bei voti.
La ragazzina e la Madonna
Con la seconda media Giuseppe cominciò a frequentare regolarmente il Leone XIII. Andando a scuola in tram, si trovava fianco a fianco con una ragazzina della sua età che gli piaceva. Giuseppe già faceva progetti per una vita matrimoniale. L'esempio della sua famiglia, del resto, lo spingeva in questo senso. Avrebbe anche voluto iscriversi al gruppo scout come aveva fatto a Cannobio con don Piero. Ma nella sua parrocchia (Sant'Ambrogio) non esisteva tale organizzazione per cui avrebbe dovuto inserirsi in un'altra realtà parrocchiale. Il papà lo sconsigliò ed egli, a malincuore, mandò giù la pillola.
Dietro suggerimento di p. Fossati, rettore del collegio, si iscrisse alla Congregazione mariana che era molto viva presso il Leone XIII e che serviva ad animare cristianamente molti ragazzi. Giuseppe vi si trovò bene.
Il cambio di vita gli produsse una crisi di scrupoli. Gli pareva che la sua vita passata fosse stata "ad damnationem". Cominciò a frequentare la chiesa e i sacramenti insieme alla mamma e alle sorelle, a pregare e a fare mortificazioni. S'impegnò ancora di più nello studio riuscendo, alla fine dell'anno, il primo della classe.
Con l'inizio del mese di maggio p. Filipetto cominciò a tenere una brevissima meditazione quotidiana ai ragazzi della Congregazione mariana. Un giorno parlò della vocazione missionaria. "Se qualcuno si sente di darsi agli altri, deve farlo", disse il buon gesuita.
Quelle parole s'impressero nell'anima di Giuseppe. Tentò più volte di cacciare l'idea, anche perché non s'accordava con l'altra della ragazzina. Ma ecco il primo segno di Dio. "Un giorno - dirà - mentre pensavo all'eventualità di una vita missionaria, fui preso da una gioia intensissima che mi invase l'anima. Era una gioia tutta spirituale e meravigliosa". Anche dopo la prima messa a Lourdes, p. Giuseppe esperimenterà un simile momento di gioia, che egli interpreterà come una particolare presenza di Dio nella sua vita.
Fino alla morte sostenne che la sua vocazione missionaria è stata un dono della Madonna e che la Madonna gliel'ha conservata nonostante tante difficoltà incontrate. Anche la domanda di entrare tra i Comboniani è stata fatta nel 1954, anno mariano. Circostanza, questa, che Giuseppe non mancò di sottolineare.
Parlò di questa sua esperienza e del richiamo alla missione a p. Fossati, cercando di minimizzare la cosa, quasi attribuendo il pensiero a un sentimento passeggero di ragazzo.
"Credo che sia un desiderio che presto o tardi viene a tutti i ragazzi", disse Giuseppe nell'intento di pilotare la risposta.
"No, non viene a tutti. Normalmente viene a chi è veramente chiamato da Dio", rispose l'esperto.
"Dove mi chiama il Signore, secondo lei?".
"È chiaro! Tra i Gesuiti. Siamo l'Ordine che conta il maggior numero di missionari sparsi un po' in tutto il mondo".
(omissis)
Duplice addio
Appena conclusi gli esami, la famiglia fece un viaggio al Sud in automobile, arrivando fino a Pompei. Al ritorno, Giuseppe si fermò nel noviziato comboniano di Firenze e Angelo in quello dei Gesuiti a Lonigo (Vicenza). Era il 20 ottobre 1954.
P. Fossati, nella sua qualità di rettore del Collegio Leone XIII, scrisse una lettera ai superiori dei Comboniani nella quale afferma tra l'altro: "...Giuseppe ha sempre fatto parte della Congregazione mariana che raccoglie gli elementi migliori, distinguendosi per pietà e per spirito di apostolato... È di ingegno più che mediocre, più portato verso le scienze e le cose pratiche che per la speculazione. È di grande bontà, molto dedito alla preghiera, di costumi angelici. Da tempo mi aveva manifestato il desiderio di dedicarsi alle missioni. Egli lascia una famiglia ricca, ove potrebbe trovare tutti gli agi e i divertimenti sani come la macchina, la barca a vela, etc. È mosso a questo passo unicamente dall'amore a nostro Signore. Suo fratello, della stessa età e della stessa classe, ha chiesto di entrare da noi. La famiglia è rimasta sorpresa da questa doppia decisione dei gemelli, ma non si è opposta, anzi ha visto la cosa come un dono del Signore. Essi sono gli unici maschi: le altre sono ragazze".
Firenze e Gozzano
Con la vestizione, che ebbe luogo il 13 novembre 1954, Giuseppe iniziò l'anno canonico di noviziato. I novizi erano una sessantina: 30 del primo anno e altrettanti del secondo. Giuseppe, pur avendo 18 anni, era uno dei più grandi. I suoi compagni, infatti, erano alunni che provenivano dai seminari comboniani e avevano appena terminato la quinta ginnasio.
Il Maestro era p. Giordani, ex tenente cappellano in Etiopia nel 1936 e poi missionario in Kenya, un uomo che Giuseppe definì "simpatico e maturo". A lui Giuseppe si affidò con entusiasmo perché gli insegnasse a "diffondere il Vangelo in mezzo alle genti".
In Giuseppe, però, si nascondeva ancora il ragazzino terribile di un tempo. "Il passo che ha fatto - scrive p. Giordani - lasciando dopo il liceo un avvenire bene assicurato e genitori affettuosi, denota già di per sé serietà di propositi. In pratica, però, non ha corrisposto con pari generosità nell'osservanza di tutte le Regole e nell'attendere a più soda pietà. Ha, alle volte, il fare del giovanotto di liceo: leggero quando non dovrebbe, insistente alle volte nel volere aver ragione, ma sincero, aperto, equilibrato".
Consapevole di questa sua situazione, Giuseppe cercò di impegnarsi con tutte le sue forze nel cammino verso la perfezione religiosa e missionaria, anche se con scarsi risultati.
Al termine del primo anno dovette trasferirsi nell'altro noviziato che i Comboniani avevano in Italia, quello di Gozzano in provincia di Novara. Il motivo era semplice: prima di affrontare gli studi teologici era opportuno approfondire la filosofia secondo San Tommaso. A Gozzano altri due novizi erano nelle condizioni di Giuseppe, inoltre c'era un valido insegnante di filosofia, p. Pietro Gasparotto, "uomo brillante e ben preparato" dirà Giuseppe, che era disponibile all'insegnamento. Durante quell'anno il nostro novizio lesse moltissimo per essere in grado di dare risposte valide ai quesiti che si affacciano alla mente dell'uomo.
P. Rossi, nuovo Maestro, scrisse del giovane: "Vedo in lui profonda convinzione di ciò che fa e ferma decisione a vivere come è convinto. Non ha entusiasmi, ma è costante. Pietà buona e convinta. Riservato, un po' innovatore, duro nelle discussioni, deciso e sodo. Lo studio della filosofia lo ha maturato molto".
Con queste credenziali, il 9 settembre 1956 Giuseppe Roncari emise i Voti temporanei di povertà, castità e obbedienza che lo consacrarono missionario.
Crisi di fede
Nel settembre del 1956 Giuseppe si trasferì a Venegono Superiore (Varese) per i quattro anni di teologia prima del sacerdozio. Durante il primo anno il giovane fu preso da una profonda crisi di fede. Erano tutte vere le cose che gli venivano insegnate a scuola? La vita sacerdotale-missionaria comportava sacrifici e rinunce non indifferenti. Prima di impegnarvisi voleva essere sicuro di non sbagliare. La sua mentalità "scientifica" avrebbe voluto la prova dei fatti mentre, nel campo dello spirito, tutto si basava sulla fede. Il Cristo per il quale intendeva dare la vita era veramente esistito? Era veramente Dio? Questi erano gli interrogativi che lo angosciavano.
Cercò la risposta leggendo tutti i libri di teologia che gli capitavano tra le mani. Approfondì gli errori, rendendosi conto che tutto ciò che la mente umana poteva pensare era già stato pensato e aveva avuto, lungo duemila anni di storia, una risposta adeguata. Si fece aiutare dai professori, dal superiore p. Giuseppe Baj che gli diede un aiuto determinante, e pregò per avere da Dio quella luce e quella certezza che non può venire solamente dalle risorse umane. "Non volevo andare avanti tanto per andare avanti", dirà.
La fede fu il punto forte della vita di p. Roncari. Visse la fede. Fu il predicatore della fede. La difese con la parola e gli scritti, si arrabbiava tremendamente contro chi pretendeva di saperla lunga in materia senza aver studiato, senza aver approfondito. "Quanti libri hai letto su questo argomento prima di dire le stupidaggini che stai dicendo?", protestava con l'incauto interlocutore. Al termine del primo anno aveva raggiunto l'assoluta certezza umana sulla validità della sua scelta. Nel secondo, cominciò a studiare la Bibbia con vera passione e a nutrirsi di quella che sapeva essere la Parola di Dio.
Suona il carillon: annuncio di guerra
Giuseppe era uno dei pochi studenti in possesso della patente di guida, per cui si prestava nelle mille faccende che occorrevano in una casa grande come quella di Venegono. Inoltre, in forza delle amicizie che la sua famiglia aveva con gli industriali di Milano, si dava d'attorno per fornire di oggetti l'annuale pesca di beneficenza che veniva allestita in occasione del presepio, e che contribuiva al mantenimento degli oltre cento studenti di teologia.
P. Giuseppe Baj, un vero amico dei giovani ed educatore di gran vaglia, abituava i futuri missionari a guardare all'essenziale delle cose, senza fermarsi alle quisquilie. Questi, nel 1959, venne eletto economo generale della Congregazione. Al suo posto arrivò un altro superiore di stile completamente diverso. Il cambiamento creò un certo disagio tra gli studenti, abituati com'erano a una certa libertà di movimento e di iniziativa.
Giuseppe una mattina (notiamo bene che era già diacono) arrivò in classe con un carillon che aveva raccolto nei suoi giri pro pesca. E lo fece suonare. Intanto entrò il professore di morale e iniziò la preghiera. L'incauto suonatore infilò in tasca lo strumento, ma non riuscì a fermarlo, per cui si recitò l'Ave Maria accompagnati da una musica gradevole e sommessa.
Qualche giorno dopo Giuseppe venne chiamato nell'ufficio del superiore dove si prese una solenne lavata di capo, con la minaccia di essere mandato via su due piedi, per appropriazione indebita di cose della comunità, ostruzionismo durante la preghiera e leggerezza nei confronti della teologia morale e del suo professore.
"Sinceramente non mi sento un delinquente per aver fatto uno scherzetto di fronte al quale il suo predecessore avrebbe riso con noi - si giustificò Giuseppe. - Comunque se mi vuole mandar via per questo faccia pure. Sarà un segno che io non ho la vocazione e che non devo diventare sacerdote... Si ricordi, però, che la responsabilità sarà tutta sua". Questa risposta denota una continua esigenza di certezza in Giuseppe, anche se era più che convinto dell'autenticità della sua vocazione. Il malinteso finì sul tavolo dei superiori maggiori di Verona i quali sorrisero divertiti. E non se ne parlò più. Il 4 aprile 1960 Giuseppe venne ordinato sacerdote nel Duomo di Milano da mons. Schiavini. Per la prima messa a Cannobio si premurò di invitare il "famoso" superiore per il discorso di occasione. "Lo feci - dirà - per sottolineare che nel mio cuore non c'era ombra di risentimento". (omissis)
Studente e animatore
Dopo il pellegrinaggio a Lourdes, chiese ai superiori di studiare medicina. Gli pareva che quelle di medico e di sacerdote-missionario fossero due vocazioni complementari.
Invece fu deciso che si laureasse in scienze biologiche. Con questa prospettiva fu inviato a Milano, in Via Saldini, dove stava sorgendo la casa comboniana che avrebbe ospitato i futuri laureandi. Con p. Bevilacqua, superiore, s'interèssò per arredare la sede che venne inaugurata il 9 ottobre di quel 1960.
Giuseppe si fermò a Milano tre anni. In questo lasso di tempo scrisse un libro sui missionari comboniani e fondò l'ISMI (Incontri Studenteschi Missionari). Si trattava di un gruppo giovanile universitario formato da una cinquantina di membri che si radunavano periodicamente per incontri di animazione missionaria.
Secondo l'intenzione del fondatore, da quei gruppi dovevano scaturire vocazioni missionarie laicali per il Terzo Mondo, e anche vocazioni sacerdotali-missionarie. L'idea verrà ripresa e sviluppata dai gruppi GIM.
La sede di Via Saldini, che era aperta anche ai confratelli di passaggio da Milano, non era più un ambiente adatto per chi aveva bisogno di silenzio e di quiete per studiare. P. Giuseppe si accorse che, se non avesse cambiato dimora, non solo non avrebbe terminato la tesi, ma si sarebbe preso un solenne esaurimento. Dietro suggerimento dei superiori, andò a Firenze nella sede del noviziato a continuare i suoi studi. Si iscrisse all'università fiorentina e, contemporaneamente, assunse l'incarico di insegnante di biologia nel liceo comboniano di Carraia, dove si recava due giorni alla settimana.
Nell'occhio del ciclone
Il Concilio Vaticano II sfornava riforme (come quella liturgica) che creavano entusiasmi da una parte, brontolamenti dall'altra e un certo subbuglio dappertutto. La contestazione giovanile del "68" fu preceduta da quella ecclesiale. Con la morte di p. Stefano Patroni, maestro dei novizi a Firenze, venne meno una colonna di stabilità e di salvaguardia delle tradizioni nella congregazione comboniana.
Seguirono altri due padri maestri (p. Colussi e p. Malugani) che dovettero ritirarsi in fretta logorati dalla fatica per tenere testa ai novizi che campavano richieste di libertà, di aggiornamento, di aperture che facevano a pugni con il sistema fino allora adottato.
Da una parte i novizi avevano ragione, in quanto non potevano abbracciare la vita religiosa-missionaria senza conoscere ciò che lasciavano. Per questo alcuni chiedevano di fare esperienze simili a quelle dei preti operai o dei contemplativi. Altri volevano leggere riviste "spinte" o frequentare locali ambigui per provare se stessi prima di una scelta definitiva, e cose del genere ...
I giovani non avevano chiaro in testa che il noviziato non è il posto della scelta vocazionale, bensì quello del cammino verso la perfezione indicata dalla scelta precedentemente fatta. In seguito si convenne di posporre il periodo del noviziato a un paio d'anni di postulato, durante il quale il giovane potesse fare la propria scelta. Un Documento della Congregazione dei Religiosi del 1968 renderà obbligatorio questo metodo.
Roncari, trovandosi nell'occhio del ciclone, seguiva gli avvenimenti del noviziato con commenti, indicazioni e suggerimenti che dimostravano serio ragionamento e chiarezza di idee. Pareva che lui possedesse la ricetta per mettere d'accordo il vecchio col nuovo, la tradizione con l'innovazione. I superiori lo presero in parola eleggendolo, il 9 dicembre 1967, "p. maestro sostituto", in attesa di una soluzione definitiva.
Fu un'esperienza atroce. Alcuni accusavano il giovane maestro di lassismo, quasi fosse un paladino delle idee rivoluzionarie. Altri, specialmente i diretti interessati, cioè i novizi, trovarono in lui un "rullo compressore", uno che credeva nei sistemi antichi e che voleva a tutti i costi rimetterli in vigore in forza appunto del principio che in noviziato non si sceglie, ma si cammina. Venticinque, su cinquanta novizi, furono rimandati nelle loro famiglie "a decidere sulla loro vocazione". Alcuni ritornarono e diventarono ottimi missionari. Domandando a due di questi una testimonianza sul p. Giuseppe di questo periodo, si misero le mani nei capelli e commentarono: "Parce sepulto".
Roncari, dopo cinque mesi di esperienza, fu sostituito da p. Colombo Antonio e, dopo aver conseguito la laurea in biologia, si trasferì definitivamente a Carraia come professore.
Costruttore di ospedali
Dopo un anno di studio della lingua inglese a Londra, fu inviato in Uganda come insegnante di scienze nel seminario di Nadiket, nella diocesi di Moroto.
Roncari - e qui appare una costante del suo carattere - si fece precedere da una lettera nella quale metteva precise condizioni alla accettazione da parte sua del ruolo di insegnante. Diceva cose giuste, dimostrava ancora una volta chiarezza di idee, come si era già visto a Firenze, ma non sempre le idee chiare ben si accordano con la molteplicità delle situazioni. Inutile dirlo, il suo nome non apparve sulla lista dei professori.
Egli masticò amaro e scrisse lettere di fuoco. Poi, ignorando il seminario, tirò diritto fino ad approdare a Kaabong, nel nord del Karamoja.
Qui la situazione era piuttosto triste: la missione era povera e circondata dal deserto. La mortalità infantile mieteva vittime senza pietà; gli uomini, salvo rare eccezioni, non arrivavano ai 45 anni di età. Chi non moriva di fame era vittima delle razzie.
Il nuovo venuto fu particolarmente impressionato dal modo in cui viveva la gente e si diede subito d'attorno per creare una specie di ospedaletto. Con l'aiuto dei benefattori riuscì a tirar su due stanzoni che contenevano una ventina di degenti l'uno, e due localetti: uno per le medicazioni e l'altro come deposito per i medicinali. Egli stesso si prestava per qualche medicazione.
Fuga da Gulu
I superiori del Seminario di Gulu, 350 chilometri da Kaabong, avevano bisogno di un professore di scienze nel seminario, dato che il titolare doveva tornare in patria. P. Giuseppe si era ormai affezionato alla sua missione, ma il vescovo Mazzoldi gli disse: "Se ti hanno fatto studiare è giusto che tu metta a frutto i tuoi talenti, perciò è bene che tu vada, anche se a me dispiace moltissimo".
Il Padre caricò le sue cose sulla jeep e partì, non senza essersi fatto precedere da una lettera nella quale diceva che si sarebbe fermato a Gulu solo fino a quando sarebbe saltato fuori un insegnante locale, sacerdote o laico.
Questa volta non solo venne accolto ma, allo scopo di vincolarlo per tre anni, fu fatto superiore del seminario.
Si era nell'ottobre del 1971. In dicembre dello stesso anno uscì una circolare del Provinciale nella quale si diceva che era necessario rivedere gli incarichi dei missionari di Gulu. Nelle elezioni che seguirono, p. Giuseppe si trovò a livello di soldato semplice. Senza far commenti, ma con una overdose di bile in corpo, caricò nuovamente le sue cose sulla jeep che - si può dire - aveva ancora il motore caldo, e fuggì nel Karamoja. Si fermò nella missione di Kanawat. P. Del Pero lo accolse come un vero fratello.
Missionario di savana
"Riconosco - dirà - che il mio non fu un gesto da buon religioso, ma volevo dare una lezione a chi mi aveva preso in giro in maniera così plateale. Se non mi volevano né a Gulu, né in Uganda, ero disposto a procedere fino a Kampala per imbarcarmi sull'aereo per Italia".
Mons. Mazzoldi, vescovo di quella zona, ottenuto il benestare del Provinciale, lo ricevette tra i suoi missionari con la frase: "L'Africa è così grande che c'è posto per tutti. Sii il benvenuto".
P. Giuseppe si mise subito all'opera per preparare una grammatica italiano-karimojon basandosi su dei fogli che erano stati scritti da p. Farina, prematuramente deceduto, e facendosi aiutare da p. Mantovani che conosceva alla perfezione la lingua.
Per venire incontro alla situazione di estrema povertà della gente, ripeté l'esperienza di Kaabong, costruendo un mini ospedale che poi venne gestito dalle suore comboniane.
A Gulu aveva fatto amicizia col dottor Pecorella che era capitato in Africa per dare una mano a un collega ammalato, nel frattempo guarito. Si rivolse a lui e lo convinse a trascorrere le ferie in Africa, a Kanawat. Il dottore, diventato intimo amico di Giuseppe, non solo accettò, ma per molti anni ripeté l'esperimento a tutto vantaggio di quelle popolazioni. Sicché la fuga da Gulu trasformò un professore di biologia in un autentico missionario di savana.
Come san Paolo
Le avventure missionarie durante i nove anni e mezzo di missione di p. Roncari sono tante e sono soprattutto importanti per il fatto che il loro ricordo costituirà motivo di pace e di abbandono alla volontà del Signore durante la lunga malattia del Padre.
Un giorno, mentre cercava di colpire con uno sgabello un serpente velenoso che si era intrufolato nella sua camera, venne morsicato alle dita. Ebbe la presenza di spirito di succhiarsi immediatamente il veleno salvando, così, la vita. "Ho rivissuto l'avventura di san Paolo a Malta", scrisse.
Per ben due volte capottò con la jeep carica di medicinali mentre portava in missione il dottor Pecorella. Tutti e due rimasero perfettamente illesi.
Durante una battuta di caccia insieme a p. Delpero, venne aggredito da un bufalo ferito. Si salvò rifugiandosi sopra una pianta, e lì rimase finché la bestia, colpita con l'ultima pallottola disponibile, non stramazzò finita.
Rimasto in panne con l'auto, sopraggiunse la notte e fu visitato dal leone. Si rannicchiò raccomandandosi alla Madonna finché la belva cambiò direzione.
Nella guerra d'Uganda un gruppo di ladri andarono a rubare nella casa delle suore. P. Giuseppe, sentendo dei rumori sospetti, accese la pila elettrica (era di notte) e si recò sul posto per vedere che cosa stava succedendo. I ladri, che erano i poliziotti del luogo i quali approfittavano dell'anarchia generale per mettere da parte qualcosa, lo accolsero con una sventagliata di mitra fortunatamente andata a vuoto.
Una seconda volta, mentre i soliti ladri scaricavano le armi contro la porta e la finestra della stanza di p Giuseppe con la chiara intenzione di liquidarlo, egli si trovava poco lontano e seguiva, non visto, la scena. Per smascherare i colpevoli chiese al capitano di polizia di mettere in fila i suoi uomini in modo da poter individuare chi aveva sparato. La cosa irritò molto il comandante che era d'accordo con i suoi uomini, e si irritò ancora di più quando p. Giuseppe fece presidiare stabilmente la missione dai soldati tanzaniani che, come è noto, avevano liberato l'Uganda mettendo in fuga Amin e le sue truppe. Dopo questi fatti, i superiori consigliarono il Padre di lasciare l'Uganda. Cosa che egli fece il 10 luglio 1979.
Animatore in Italia
Dal 1980 al 1984 p. Giuseppe coprì il ruolo di animatore missionario nei seminari diocesani d'Italia. A nome delle Pontificie Opere Missionarie visitava i seminari per presentare il problema missionario ai futuri sacerdoti. È un lavoro che richiede responsabilità, competenza e notevole spirito di sacrificio. Bisogna, infatti, cambiar letto quasi ogni sera, adattarsi ai cibi che variano a seconda delle regioni, affrontare lunghi viaggi portandosi dietro libri e riviste, pellicole cinematografiche e proiettore, e di essere sempre disponibili a parlare e ad ascoltare per lunghe ore del giorno e della notte.
Dopo quattro anni di una simile vita, p. Giuseppe, che non era più un giovanotto, cominciò. ad accusare una notevole stanchezza. I superiori gli proposero, allora, di prendere la direzione del Piccolo Missionario, la nota rivista missionaria di 132 pagine per ragazzi.
P. Giuseppe vi si buttò con entusiasmo. Guidato dalla sua mentalità scientifica e perfezionista, volle fare della rivista per ragazzi una palestra di idee che suscitavano ampie discussioni su temi di attualità quali la fede, la morale, la droga, la conoscenza dei popoli ...
Il Piemme, un po' alla volta, si trasformò in una rivista più per giovani, che per ragazzi. Ciò richiedeva uno sforzo sempre maggiore per curarne sia la redazione che i contenuti. P. Giuseppe era solo come, del resto, lo erano stati i suoi predecessori. Né si preoccupava se gli abbonamenti diminuivano: egli puntava sulla qualità dei lettori, più che sulla quantità.
Suona l'allarme
All'inizio dell'86, la corda già troppo tesa cominciò a dare segni di cedimento. Spasmi viscerali, inappetenza con perdita di peso, nausea, vertigini e senso di svenimento erano i sintomi che qualche cosa non funzionava più.
Scrisse più volte ai superiori denunciando la situazione: "Non riesco più a dormire di notte se non con l'aiuto di pastiglie... Sono più di tre anni che non posso fare gli Esercizi, che non prendo una vacanza vera. Ora, lavorare in continuazione, sabato e domenica compresi, per 365 giorni all'anno, sempre in tensione per arrivare in tempo con le scadenze, è qualcosa che toglie il respiro e provoca l'esaurimento nervoso" (18 marzo 1986).
I superiori non gli fecero molto caso, forse perché il suo ritmo di lavoro non era propriamente da ammalato. Tuttavia pregarono un Padre di dargli una mano, ma dall'esterno, senza far parte della redazione e quasi di contrabbando. Questa collaborazione durò poco perché non era facile lavorare con una personalità forte come quella di p. Giuseppe.
Il 14 aprile 1986 scriveva al Superiore generale: "Spero che la Pasqua porti anche a me il miracolo (quanto lo desidererei!) di stare un po' meglio. Purtroppo la croce sta dando segni di simpatizzare con i seguaci del Comboni e quindi anche con me. Devo prendere certe medicine che mi stanno avvelenando... Ho paura che anche per me il Paradiso non sia poi così lontano. In fondo il Comboni alla mia età era già lassù; quindi potrei accettare questa lunga e 'benedetta' croce come un'adeguata preparazione a quel passo. Sono nelle mani di Dio, della Madonna e del Comboni e anch'io sto aspettando di capire i disegni dell'Altissimo".
Sclerosi laterale
Roncari sperava nel miracolo e, parlando di croce, diceva "purtroppo", pur sforzandosi di conformarsi ai disegni di Dio.
Qualche anno più tardi i suoi ragionamenti saranno ben diversi, come vedremo.
Alla fine di giugno (sempre del 1986) p. Roncari era fisicamente finito, tanto che fu chiesto a p. L. Gaiga di preparare il Piemme di ottobre.
Nel frattempo, al Piccolo Missionario era arrivato un aiutante stabile, seguito a breve distanza da un secondo. P. Giuseppe scriveva con un certo spirito di rivalsa: "Si è avverato ciò che da mesi vado ripetendo ai superiori: che, cioè, dovranno metterne due di persone al Piemme, e in più ne avranno una terza ammalata, il sottoscritto".
Nel gennaio del 1987 la fibrillazione ai muscoli si era estesa a tutto il corpo. Il cognato di p. Giuseppe (medico) e la sorella s'interessarono per ricoverarlo nella clinica S. Raffaele di Milano, reparto neurologia. Il responso fu: sclerosi laterale, una malattia piuttosto rara che interessa il midollo spinale e dal corso letale.
Sempre più in alto
A questo punto inizia una nuova fase nella vita di p. Roncari. Una fase che permetterà a tutti di constatare giorno dopo giorno l'opera meravigliosa di Dio in questo suo missionario.
P. Giuseppe consultò i testi di medicina e si fotocopiò ciò che riguardava la sua malattia. In questo modo poté conoscere tutto del suo male e calcolare il tempo che gli restava da vivere e il tipo di morte che lo attendeva. "Morirò soffocato causa l'atrofia dei muscoli respiratori. Mi restano ancora due anni di vita". La prospettiva non era allettante.
In data 16 luglio 1987 scriveva al Superiore generale: "I dottori dell'ospedale S. Raffaele mi hanno dimesso dato che non c'è nulla da fare, se non aspettare come si evolve la malattia. Dio ha i suoi piani che non sempre coincidono con i nostri... Io, con l'aiuto di Dio e di Maria, sono pronto a qualunque eventualità. Può darsi che abbia combattuto la buona battaglia e terminata la corsa e, spero, di aver conservato la fede, così non ho che da sperare, se non c'è nulla da fare umanamente, nella corona che Dio giusto giudice, ecc. Non voglio dare la colpa a nessuno e perdono coloro che, ovviamente, potevano fare qualcosa a suo tempo, ma non riuscirono. Sono certo che tutto fa parte del grande disegno imperscrutabile di Dio il quale può fare anche dei miracoli. Quindi c'è sempre speranza. Sono sereno e prego. Offro le mie sofferenze per la mia conversione e per quella di tanti confratelli e persone amiche che in questi tempi mi hanno lasciato molto perplesso per il loro 'tipo' di fede".
In questa lettera notiamo un paio di cose: innanzitutto non si tratta di quei lunghissimi scritti battaglieri, suddivisi in paragrafi: uno, due, tre, ecc., con forti sottolineature, come era solito fare. Non ci sono recriminazioni contro l'uno o contro l'altro, anzi c'è un'esplicita dichiarazione di perdono nei confronti di coloro che "non riuscirono a fare". Si nota, inoltre, una stupenda disponibilità ad accettare la volontà di Dio. P. Giuseppe si trovava all'inizio di un cammino aspro che lo avrebbe purificato da tutte le sue scorie per essere gradito al Signore. E in questo spirito si lasciava portare sulle ali di Dio verso il monte della santità. Non solo, ma si sentiva più missionario che mai, ora che la malattia lo conduceva piano piano alla tomba.
L'avvenimento "morte", visto così da vicino, costituisce per p. Giuseppe motivo di conversione per sé e per alcune "persone amiche". Qui si inserisce un altro aspetto della sofferenza del Padre: pagare per gli altri.
Non conviene dire chi fossero queste "persone amiche", sappiamo, tuttavia, che per esse offrì la sua vita e, dalla bara, le vide attorno all'altare del Signore, ridiventate amiche di Dio.
Il lungo calvario di redenzione
Dopo la "sentenza di morte", p. Giuseppe chiese ai superiori di essere accolto nella casa del noviziato di Venegono Superiore. "Mi sembra che questo luogo sia il più adatto per la preghiera e per disporsi meglio alla volontà di Dio, qualunque essa sia", scrisse. Con lettera del 21 settembre 1987, il Superiore provinciale assegnava p. Giuseppe alla comunità di Venegono Superiore, a partire dal 28 ottobre "centenario di primi Voti nell'Istituto".
Il pensiero della prossima fine non spaventava il malato, anzi gli diventava di giorno in giorno più familiare. "Nel mondo ci sono tanti guai scriveva - perché si pensa troppo poco a questa realtà che, presto o tardi, toccherà a tutti: la morte". Poi, volgendosi alle "persone amiche" che andavano a trovarlo e per le quali offriva la sua vita, proseguiva: "Il vostro guaio è che vi siete dimenticati della morte. Godete tutti ottima salute, l'ultimo morto nella vostra famiglia risale a molti anni fa ed era assai anziano; non vi sono mai capitati incidenti stradali o disavventure di altro genere, state benissimo... ma attenzione! Io sono un segno profetico. Faccio l'apri pista, poi ... È giusto che io me ne vada per primo, che inizi la salita al calvario. Sarà un calvario lungo, lento, faticoso. Ma voglio percorrerlo come lo ha percorso Cristo, perché sia di redenzione per me e per voi".
Queste parole scendevano come lame di rasoio e lasciavano il segno, facevano riflettere, mettevano in crisi. (omissis)
Il fremito della carne
La malattia progrediva lenta e inesorabile. I dolori si accentuavano nei muscoli delle gambe e delle braccia. "Mi convinco sempre più che c'è un meraviglioso piano di Dio in questa mia malattia – disse. - Ne sto vedendo i frutti in me, nei miei familiari, nei confratelli e nella gente che viene a trovarmi. A volte mi fa paura pensare che soffrirò molto, perché la mia morte sarà per soffocamento, ma sono sicuro che il Signore provvederà... Dio vuole da me una missione più vasta, universale. Penso a Comboni che era molto più importante di me per la Chiesa e per le missioni, eppure è morto più giovane di me. Non è il numero dei giorni che conta, ma l'intensità dell'amore e la generosità nell'accettare la croce. Senza croce non c'è redenzione. Dio dà vita lunga a chi deve riparare, a chi deve ricuperare il passato. Dio è un padre e vuole il nostro bene. Questo è lo schema nel quale dobbiamo entrare. La gioia è sapersi un tassello di un mosaico meraviglioso. Se manca il tassello o se non è come lo ha ideato l'autore, il quadro non è completo... Spesso mi domando come sarà il paradiso. La risposta mi viene senza dubbi: Dio ci porta con sé, al sicuro, nella dimora definitiva. E sarà una realtà meravigliosa, senz’altro superiore ad ogni aspettativa. Per questo, nonostante il fremito della carne, ripeto con una certa frequenza: Esultai quando mi dissero: andremo nella casa del Signore… Vado con molta gioia anche se sento il dolore del distacco da chi amo. Lo ha sentito anche Cristo, quindi sono in buona compagnia... Poi ci sono i salmi che mi danno conforto. Salmo 55: Nell'ora della paura in te confido e non avrò timore, mi rifugio all'ombra delle tue ali… All'ombra delle ali di Dio c'è pace".
Mi piace far conoscere Cristo
Segno di fedeltà alla missione fu anche la nuova edizione della "Vita di Cristo", in lingua karimojon, che aveva fatto stampare la prima volta nel 1980. "A Cristo ho consacrato la vita; mi piace farlo conoscere". Il 3 dicembre del 1987 consegnò alla tipografia le bozze corrette.
All'inizio del 1988 cominciò ad usare il bastone per poter camminare. Pochi passi alla volta perché si stancava. I crampi gli afferravano i muscoli e la nausea gli rovesciava lo stomaco. I sanitari gli praticarono delle iniezioni speciali che avrebbero dovuto rigenerargli il midollo spinale. Non solo non gli fecero bene, ma lo sconquassarono maggiormente.
"Quando sono stato ordinato prete ho chiesto 25 anni di sacerdozio. Il Signore me ne ha già concessi 28. È sempre abbondante il Signore. Cristo ha redento il mondo con la sofferenza. Chi soffre ha un grande compito nella storia della Chiesa. Vivo l'oggi senza preoccuparmi del domani. È anche questo il segno di una particolare predilezione divina. Se è risorto Cristo, risorgerò anch'io. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Cos'è dunque la morte? Noi la vediamo come una partenza. In realtà è un arrivo".
Dio mi prova con gentilezza
"Dio mi prova con gentilezza" - incise sul registratore il 26 marzo 1988. E si paragonava con altra gente che soffriva in situazioni di disagio. "Non sono tra i peggiori. Altri soffrono più di me. Penso ai paralizzati, ai torturati, a coloro che sono in carcere. Io sono circondato da cure, dall’affetto dei familiari, dei confratelli, della gente. Anche nella sofferenza Dio ha usato con me un tocco di predilezione, di riguardo. Io, poi, ho già vissuto una bella fetta di vita, ho avuto tante soddisfazioni di ministero, sono stato in Africa, ho fatto il missionario. Altri cominciano a soffrire dai primi anni della ragione in su, senza aver realizzato niente se non ciò che si costruisce con la sofferenza cristianamente accettata. È vero che questo è il massimo dei capolavori, l'unico che resta alla fine, anche se fa piangere, anche se cresce e si sviluppa nell'assoluta oscurità. So che la mia malattia e la mia morte avranno come conclusione la risurrezione. Penso a coloro che soffrono senza speranza. Questa sì è disperazione. Il pensiero della risurrezione per una nuova vita non è un placebo, è una realtà che ti riempie di consolazione".
Ci vuole la mia morte
In queste condizioni fu portato ad Arconate per una testimonianza missionaria. Parlò a fatica, le sue parole si incisero profondamente nell'anima degli ascoltatori.
Il 10 maggio 1988 si recò a Milano nella chiesa di Sant'Eustorgio dove padre Tardif, per mezzo del quale si dice che Dio operi spesso guarigioni, pregava. I confratelli di Venegono speravano ancora in un miracolo. P. Giuseppe era scettico, tuttavia volle dar loro questa soddisfazione. "Vedi - gli disse un confratello - il miracolo della tua guarigione convertirebbe quelle persone care che tanto ti stanno a cuore".
Dovette stare in movimento per sei ore accumulando una stanchezza infinita. Alcuni, quella sera, guarirono realmente. I più tornarono a casa con la loro malattia, confortati, però, da una particolare presenza di Dio che si rivela nella preghiera comune.
"Quando ho visto tanti giovani che soffrivano più di me, mi sono vergognato di chiedere la guarigione. Perché io sì e loro no? Ho chiesto solo di fare la volontà di Dio, perchè è questa e solo questa che conta per il Regno di Dio e per me che faccio parte di questo Regno". Poi confidò a un fratello: "Non sarebbe sufficiente il miracolo della mia guarigione per convertire quelle persone. Ci vuole la morte, la mia morte".
Il primo luglio 1988 cominciò ad usare la carrozzella. "Da solo non riesco neppure ad alzarmi dalla poltrona e dal water. Non faccio più un passo, non mi reggo sulla persona. Faccio una gran fatica anche a reggere un libro".
L'ultima illusione
Il professor Pecorella seguiva da Roma il decorso della malattia e si angustiava nel constatare come questo suo amico deperisse di giorno in giorno. Egli sperava che, applicando delle tecniche nuove a base di onde elettromagnetiche, si potesse, se non far retrocedere, almeno arrestare il male.
Dal 2 settembre al 17 novembre 1988 p. Roncari fu a Roma nella Casa generalizia dei Comboniani presso l'Eur. "Proviamo anche questa" - disse il padre sottoponendosi alla nuova terapia senza troppa convinzione.
Infatti, non costatando alcun miglioramento, insisté per tornare a Venegono. Le cellule nervose erano ormai spente. "Sono contento di aver fatto da cavia a questo tipo di cura. Non mi è servita a niente. Adesso che ho saputo quant'è l'onorario del Dr. Pecorella per seduta, gli sono grato, perché non mi ha chiesto niente. Questo depone a suo favore. Con me deve aver tentato, perché si tratta di una malattia a cui non c'è rimedio".
La vigilia della partenza da Roma nel corso della Messa comunitaria disse: "A tutti chiedo preghiere per poter fare fino in fondo quanto Dio mi sta chiedendo".
"Venegono – disse ad un amico - con il clima di preghiera e di raccoglimento che lo caratterizza è il posto ideale per prepararsi alla morte".
P. Roncari faticava a respirare, la voce si indeboliva. Stentava ad alzare il braccio per portare il bicchiere alla bocca. "Conto i giorni e le settimane che mi separano dall'incontro col Signore e lo ringrazio di questa preparazione, di questa purificazione. Non riesco ad espellere il catarro perché non ho la forza di tossire. Ma non ho perso in serenità. Dio e la Madonna accettano questa mia sofferenza e spero ne terranno conto al momento della morte".
La logica di Cristo
Attorno al letto di questo sacerdote malato, ormai immobile per la totale atrofia muscolare, eppure così sereno, si alternavano confratelli, amici, anime bisognose di una spinta per ritornare a Dio. Sovente arrivano anche quelle "persone amiche" per le quali Giuseppe era disposto a morire. Ecco un dialogo intercorso tra loro e il malato.
"Quando nel 1970 sono partito per l'Africa eravate gente da messa e comunione quotidiana e da rosario tutte le sere. Ora non credete neppure in Dio". "È vero. È successo qualcosa di terribile nella nostra vita. Ma tu non devi soffrire così per noi. Tu sei innocente, siamo noi i colpevoli, quindi dovremmo essere noi, caso mai, al tuo posto".
"Si vede che non capite niente di Cristo. Nella logica del cristianesimo è l'innocente che paga per il peccatore. Cristo era innocente e ha pagato per noi".
"Tu non sei Cristo".
"Sono partecipe del suo sacerdozio; devo avvicinarmi a lui il più possibile. Devo far mia la sua logica. Quindi è giusto che sia io, che voi chiamate innocente (non lo sono, ma dovrei esserlo per vocazione) a pagare per voi che vi riconoscete colpevoli... Perciò va bene così e non angustiatevi".
Ciò che conta è il Regno di Dio
Un giorno arrivò anche colui che gli avrebbe scritto il necrologio e col quale il padre era in sincera amicizia. "Se hai il raffreddore stattene alla larga - gli disse p. Giuseppe - perchè non sono più in grado neanche di tossire".
"Sei conciato per le feste, Joe", gli rispose l'amico.
"Non parlare troppo forte perché ormai restano pochi salti anche a te, sai!"
"Una volta per uno non fa male a nessuno! Ma senti, se strappassimo un miracolo a Comboni, sarebbe un colpaccio".
"Parli come il solito pagano: ciò che conta in questa faccenda non è né la mia salute, né la mia morte. Conta il Regno di Dio. Se per il Regno è meglio la malattia e la morte, ben vengano. A noi queste cose non devono riguardare più di tanto". Poi, diventando un po’ più buono, continuò: "Tu sei venuto per il necrologio. Ti conosco ormai. Ti ho voluto dare una mano. Ho inciso otto cassette da novanta minuti l'una. Lì c'è tutto. Mi sono scelta la foto da mettere sulla tomba e sull'immaginetta-ricordo. Ho scelto anche la dicitura da scrivere sotto. Metti quella, non altre storie."
P. Giuseppe era steso su di una sedia a sdraio, aveva davanti un piccolo leggio sul quale teneva la Bibbia. Con notevole sforzo riusciva appena appena a girare le pagine. La voce era esile, quasi impercettibile. Solo gli occhi brillavano.
"Mi mettono a letto alla sera e poi, per otto ore, resto immobile senza poter muovere neppure un piede. Alla mattina mi sistemano qui e così passo la mia giornata. Ciò che maggiormente mi costa è che devo dipendere dagli latri in tutto, anche per i miei bisogni. Ma accetto volentieri anche questa limitazione se è per il Regno di Dio".
Ormai sulla vetta
P. Giuseppe capiva con sempre maggior chiarezza che la sofferenza era una nuova vocazione alla quale il Signore lo chiamava. "Sono un tassello piccolo e peccatore, eppure Dio mi ha dato grandi vocazioni. Mi ha concesso di nascere in una famiglia cristiana, mi ha chiamato al sacerdozio, mi ha mandato come missionario. Ho esercitato anche il giornalismo missionario. Ho dialogato sulla fede con migliaia di ragazzi e di famiglie, ho predicato con la rivista di Dio, sulla Madonna, sulla Chiesa. Ciò che ho scritto sulla carta resta ... Ed ora ecco questa ulteriore chiamata: la malattia. È una vocazione, quella della sofferenza, che Dio dà a pochi privilegiati. Io sono uno di questi. Nella mia vita ho sentito qualcuno che, nella sofferenza, diceva: "Perchè proprio a me?" Io ora capisco che bisognerebbe dire: "Perché non a me?", specialmente se si è missionari e sacerdoti. La sofferenza è qualcosa di grande, è una grazia che Dio concede a chi ama di più, a chi egli vuole far più simile a Cristo. Ora sento la gioia di essere arrivato alla fine della mia corsa. È un traguardo magnifico. Tra poco vedrò Cristo in persona, la Madonna, i santi, gli amici, il papà. Veramente ho solo da ringraziare e lodare il Signore. La sua promessa: il centuplo in questa vita l'ho sperimentata anch'io, perché tanta serenità, tanta pace interiore, tanta assistenza sia fisica che spirituale, tanta fraternità in congregazione, è tutto parte di quel centuplo in questa vita promesso dal Signore, e poi ci sarà anche il resto, la vita eterna".
Queste dichiarazioni, dette con sincerità e convinzione mentre era nella morsa del dolore, ci mostrano un p. Giuseppe trasformato dalla grazia di Dio e giunto, ormai, al vertice.
Il mio segreto con Dio
"La corsa è stata breve - ha continuato p. Roncari - ma intensa. La mia sofferenza la capisco solo io. Non riesco più a parlare, a respirare. La mia sofferenza è ormai un segreto tra me e Dio. È bello avere un segreto in comune con Dio. La sofferenza è la parte più personale, più intima, più mia. Non si può delegare nessuno in questo".
Alle ore 16,45 del 2 marzo 1989 p. Giuseppe incise le sue ultime parole sul nastro: "D'ora in poi non inciderò più niente. Non ho fiato, non reggo il microfono e poi è bello chiudersi nel proprio segreto con Dio. Ora chiedo perdono a tutti coloro che ho offeso con la mia vita, con le mie parole. Ne ho dette tante di parole inutili, alle volte pungenti, mortificando specie i più sensibili. Alle volte ho offeso anche senza volerlo. In questi mesi ho cercato di riparare con parole che ho inciso su questi nastri. Che Dio mi aiuti a incontrarlo con la coscienza più pulita".
E qui finisce la voce. Il resto del nastro è occupato da una canzone che dice, tra l'altro: "Cristo, mi hai sedotto e io ti sono venuto dietro"; poi c'è una marcia con parole in tedesco, che esprimono la forza e la fatica di chi cammina con entusiasmo, nonostante tutto.
L'intrepido protagonista di tante battaglie, aveva deposto le armi e si voltava indietro a guardare il suo passato. Ora lo vedeva nella luce di Dio che è misericordia. E si appellava a questa misericordia e a quella di coloro che aveva fatto soffrire.
Sciolti gli ormeggi, la nave aveva preso il largo. Ma la traversata era ancora lunga e il mare in burrasca più che mai. Alla morte, infatti, mancavano ancora tre mesi e mezzo.
Sono qui
Solo a vederlo, p. Giuseppe costituiva uno strazio. In quel corpo immobile solo il cuore, il cervello e gli occhi funzionavano a meraviglia. Il resto era come un pezzo di legno. Dio, con cesello inesorabile, dava gli ultimi tocchi al suo missionario per cavarne un grande capolavoro. Egli non protestava, non si lamentava, anzi si sforzava di sorridere.
Allo scopo di facilitargli la respirazione, i sanitari vollero che fosse ricoverato all'ospedale di Tradate per la trachetomia. Appena adagiato sul letto nel reparto, p. Giuseppe, con un filo di voce, chiese di essere riportato a casa. "Con questo intervento potremo prolungarti la vita di qualche mese", gli dessero. Appellandosi a un preciso riferimento biblico rispose: "Desidero ardentemente mangiare questa Pasqua". La frase, oltre che ispirata dalla fede per la quale p. Giuseppe aveva sempre combattuto, andava a pennello con la sua mentalità: se quel Dio che lo aveva salvato tante volte ora gli porgeva il calice, egli non doveva tentare di allontanarlo neppure di un centimetro.
Ritornato a Venegono, ricevette tutti i sacramenti e attese la sua ora. Celebrò messa fino al giorno della morte, disteso sul letto, senza riuscire più a muovere nemmeno la testa. E non ci fu verso di convincerlo a "lasciar perdere". Le sue messe, che erano un doppio sacrificio - quello di Cristo e il suo - commovevano i presenti tanto erano celebrate con devozione e con fede.
L'ultima notte fu meravigliosa. Chiese che gli venissero lette le lodi di Maria, adagio, in modo da poterle seguire con la mente e assaporarle col cuore. Venne il nuovo giorno, l'ultimo della sua tribolata e gioiosa esistenza. Ad un certo momento, una delle persone che lo assistevano disse: "Presto verranno il Signore e la Madonna a prenderti". "Sono già qui e mi fanno cenno di andare", rispose con un soffio di voce. Tentò di sollevare il capo e spirò.
Erano le ore 14 del 25 giugno 1989.
Ed ora ecco ciò che volle fosse scritto accanto alla fotografia dell'immaginetta ricordo: "Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne. Sappiamo, infatti, che quando verrà disfatto questo corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un'abitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mano d'uomo, nei cieli. Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste" (S. Paolo 2Cor 4,18; 5,1-2)
E dall'altra parte: "Quel che m'importa non è la vita, ma portare a termine la mia corsa e la missione che il Signore Gesù mi ha affidato: annunciare a tutti che Dio ama gli uomini" (S. Paolo in Atti 20,24)
P. Giuseppe Roncari è sepolto nella tomba di famiglia nel cimitero di Cannobio (Novara). P. Lorenzo Gaiga
Da Mccj Bulletin n. 166, aprile 1990, pp.67-88