In Pace Christi

Roncari Giuseppe

Roncari Giuseppe
Geburtsdatum : 20/12/1935
Geburtsort : Milano/I
Zeitliche Gelübde : 09/09/1956
Ewige Gelübde : 09/09/1959
Datum der Priesterweihe : 02/04/1960
Todesdatum : 25/06/1989
Todesort : Venegono Sup. VA/I

Con la stella in fronte

Giuseppe è nato a Milano il 20 di­cembre 1935 da Stefano e Anna Co­cini. Insieme a lui venne alla luce an­che il gemello Angelo, due maschi ­gli ultimi - di una famiglia che conta­va già quattro femmine. Il papà, ori­ginario di Cannobio sul lago Mag­giore, dove i Roncari hanno una villa e la tomba di famiglia, pianse di gio­ia alla nascita dei due. Egli, a Mila­no, possedeva e dirigeva una fioren­te industria di oggetti in smalto per la casa. Finalmente erano arrivati coloro che avrebbero continuato il suo lavoro.

Alla laboriosità e all'intraprenden­za, papà Stefano univa uno spirito di fede e una vita cristiana a tutta pro­va. Da giovane avrebbe voluto farsi sacerdote. Sennonché il suo diretto­re spirituale gli disse che non era quella la sua strada. Allora si sposò, mettendo le basi di una famiglia ve­ramente cristiana. Giuseppe, alla na­scita, aveva una stella in fronte, che i medici si affrettarono a far sparire.

Egli, tuttavia, commentando il fat­to, dirà: "Certamente si è trattato di un caso; io, però, leggo l'avvenimen­to come un segno di predilezione da parte di Dio che mi aveva scelto fin dal seno materno".

La peste della famiglia

Guardando l'infanzia e la fanciul­lezza di Giuseppe non si scorgevano particolari segni di predilezione divi­na o di vocazione, anzi. Era un ra­gazzino ribelle, cocciuto, niente af­fatto incline alla preghiera e alle pratiche religiose. In scuola era una vera peste per cui veniva spesso ri­mandato a casa dalla maestra per in­disciplina e disturbo.

Di fronte ai rimproveri faceva il menefreghista. "In scuola - dirà - ero sempre tra i cattivi o dietro la lava­gna, perché insofferente della disci­plina. Le mie vere preoccupazioni erano i piccoli traffichi di gomma america­na, o cose del genere, con i compa­gni con i quali spesso litigavo".

Era appassionato delle escursioni in montagna, degli sci e delle gite in barca e in bicicletta. La natura lo af­fascinava e infondeva un senso di pace nella sua vita turbolenta.

Come Dio volle terminò le ele­mentari. Mentre il fratello Angelo fu iscritto al Manzoni, Giuseppe fre­quentò il Collegio Leone XIII tenu­to dai Gesuiti. Durante l'anno di pri­ma media, però, studiò a casa, assi­stito dalla sorella Maria. Il papà, bontà sua, giustificò l'assenza addu­cendo la scusa che Giuseppe non stava bene. In realtà il ragazzo mal sopportava la disciplina del collegio. Inoltre stava maturando una crisi che sarebbe scoppiata l'anno dopo. Tuttavia agli esami di prima me­dia fu promosso con bei voti.

La ragazzina e la Madonna

Con la seconda media Giuseppe cominciò a frequentare regolarmente il Leone XIII. Andando a scuola in tram, si trovava fianco a fianco con una ragazzina della sua età che gli piaceva. Giuseppe già faceva proget­ti per una vita matrimoniale. L'e­sempio della sua famiglia, del resto, lo spingeva in questo senso. Avrebbe anche voluto iscriversi al gruppo scout come aveva fatto a Cannobio con don Piero. Ma nella sua parroc­chia (Sant'Ambrogio) non esisteva tale organizzazione per cui avrebbe dovuto inserirsi in un'altra realtà parrocchiale. Il papà lo sconsigliò ed egli, a malincuore, mandò giù la pil­lola.

Dietro suggerimento di p. Fossati, rettore del collegio, si iscrisse alla Congregazione mariana che era molto viva presso il Leone XIII e che serviva ad animare cristiana­mente molti ragazzi. Giuseppe vi si trovò bene.

Il cambio di vita gli produsse una crisi di scrupoli. Gli pareva che la sua vita passata fosse stata "ad dam­nationem". Cominciò a frequentare la chiesa e i sacramenti insieme alla mamma e alle sorelle, a pregare e a fare mortificazioni. S'impegnò anco­ra di più nello studio riuscendo, alla fine dell'anno, il primo della classe.

Con l'inizio del mese di maggio p. Filipetto cominciò a tenere una bre­vissima meditazione quotidiana ai ragazzi della Congregazione maria­na. Un giorno parlò della vocazione missionaria. "Se qualcuno si sente di darsi agli altri, deve farlo", disse il buon gesuita.

Quelle parole s'impressero nell'a­nima di Giuseppe. Tentò più volte di cacciare l'idea, anche perché non s'accordava con l'altra della ragazzina. Ma ecco il primo segno di Dio. "Un giorno - dirà - mentre pensavo all'eventualità di una vita missiona­ria, fui preso da una gioia intensissi­ma che mi invase l'anima. Era una gioia tutta spirituale e meravigliosa". Anche dopo la prima messa a Lour­des, p. Giuseppe esperimenterà un simile momento di gioia, che egli in­terpreterà come una particolare pre­senza di Dio nella sua vita.

Fino alla morte sostenne che la sua vocazione missionaria è stata un do­no della Madonna e che la Madonna gliel'ha conservata nonostante tante difficoltà incontrate. Anche la do­manda di entrare tra i Comboniani è stata fatta nel 1954, anno mariano. Circostanza, questa, che Giuseppe non mancò di sottolineare.

Parlò di questa sua esperienza e del richiamo alla missione a p. Fos­sati, cercando di minimizzare la co­sa, quasi attribuendo il pensiero a un sentimento passeggero di ragazzo.

"Credo che sia un desiderio che presto o tardi viene a tutti i ragazzi", disse Giuseppe nell'intento di pilota­re la risposta.

"No, non viene a tutti. Normalmen­te viene a chi è veramente chiamato da Dio", rispose l'esperto.

"Dove mi chiama il Signore, secon­do lei?".

"È chiaro! Tra i Gesuiti. Siamo l'Ordine che conta il maggior nume­ro di missionari sparsi un po' in tutto il mondo".

(omissis)

Duplice addio

Appena conclusi gli esami, la fami­glia fece un viaggio al Sud in auto­mobile, arrivando fino a Pompei. Al ritorno, Giuseppe si fermò nel novi­ziato comboniano di Firenze e An­gelo in quello dei Gesuiti a Lonigo (Vicenza). Era il 20 ottobre 1954.

P. Fossati, nella sua qualità di ret­tore del Collegio Leone XIII, scrisse una lettera ai superiori dei Combo­niani nella quale afferma tra l'altro: "...Giuseppe ha sempre fatto parte della Congregazione mariana che raccoglie gli elementi migliori, di­stinguendosi per pietà e per spirito di apostolato... È di ingegno più che mediocre, più portato verso le scien­ze e le cose pratiche che per la spe­culazione. È di grande bontà, molto dedito alla preghiera, di costumi an­gelici. Da tempo mi aveva manifestato il desiderio di dedicarsi alle missioni. Egli lascia una famiglia ricca, ove potrebbe trovare tutti gli agi e i di­vertimenti sani come la macchina, la barca a vela, etc. È mosso a questo passo unicamente dall'amore a no­stro Signore. Suo fratello, della stes­sa età e della stessa classe, ha chie­sto di entrare da noi. La famiglia è rimasta sorpresa da questa doppia decisione dei gemelli, ma non si è opposta, anzi ha visto la cosa come un dono del Signore. Essi sono gli unici maschi: le altre sono ragazze".

Firenze e Gozzano

Con la vestizione, che ebbe luogo il 13 novembre 1954, Giuseppe iniziò l'anno canonico di noviziato. I novizi erano una sessantina: 30 del primo anno e altrettanti del secondo. Giu­seppe, pur avendo 18 anni, era uno dei più grandi. I suoi compagni, in­fatti, erano alunni che provenivano dai seminari comboniani e avevano appena terminato la quinta ginnasio.

Il Maestro era p. Giordani, ex te­nente cappellano in Etiopia nel 1936 e poi missionario in Kenya, un uomo che Giuseppe definì "simpatico e maturo". A lui Giuseppe si affidò con entu­siasmo perché gli insegnasse a "dif­fondere il Vangelo in mezzo alle genti".

In Giuseppe, però, si nascondeva ancora il ragazzino terribile di un tempo. "Il passo che ha fatto - scrive p. Giordani - lasciando dopo il liceo un avvenire bene assicurato e geni­tori affettuosi, denota già di per sé serietà di propositi. In pratica, però, non ha corrisposto con pari genero­sità nell'osservanza di tutte le Rego­le e nell'attendere a più soda pietà. Ha, alle volte, il fare del giovanotto di liceo: leggero quando non do­vrebbe, insistente alle volte nel vole­re aver ragione, ma sincero, aperto, equilibrato".

Consapevole di questa sua situa­zione, Giuseppe cercò di impegnarsi con tutte le sue forze nel cammino verso la perfezione religiosa e mis­sionaria, anche se con scarsi risulta­ti.

Al termine del primo anno dovette trasferirsi nell'altro noviziato che i Comboniani avevano in Italia, quello di Gozzano in provincia di Novara. Il motivo era semplice: prima di af­frontare gli studi teologici era op­portuno approfondire la filosofia se­condo San Tommaso. A Gozzano al­tri due novizi erano nelle condizioni di Giuseppe, inoltre c'era un valido insegnante di filosofia, p. Pietro Ga­sparotto, "uomo brillante e ben pre­parato" dirà Giuseppe, che era di­sponibile all'insegnamento. Durante quell'anno il nostro novizio lesse moltissimo per essere in grado di dare risposte valide ai quesiti che si affacciano alla mente dell'uomo.

P. Rossi, nuovo Maestro, scrisse del giovane: "Vedo in lui profonda convinzione di ciò che fa e ferma de­cisione a vivere come è convinto. Non ha entusiasmi, ma è costante. Pietà buona e convinta. Riservato, un po' innovatore, duro nelle discus­sioni, deciso e sodo. Lo studio della filosofia lo ha maturato molto".

Con queste credenziali, il 9 settem­bre 1956 Giuseppe Roncari emise i Voti temporanei di povertà, castità e obbedienza che lo consacrarono missionario.

Crisi di fede

Nel settembre del 1956 Giuseppe si trasferì a Venegono Superiore (Varese) per i quattro anni di teolo­gia prima del sacerdozio. Durante il primo anno il giovane fu preso da una profonda crisi di fede. Erano tutte vere le cose che gli venivano in­segnate a scuola? La vita sacerdota­le-missionaria comportava sacrifici e rinunce non indifferenti. Prima di impegnarvisi voleva esse­re sicuro di non sbagliare. La sua mentalità "scientifica" avrebbe volu­to la prova dei fatti mentre, nel cam­po dello spirito, tutto si basava sulla fede. Il Cristo per il quale intendeva dare la vita era veramente esistito? Era veramente Dio? Questi erano gli interrogativi che lo angosciavano.

Cercò la risposta leggendo tutti i libri di teologia che gli capitavano tra le mani. Approfondì gli errori, rendendosi conto che tutto ciò che la mente umana poteva pensare era già stato pensato e aveva avuto, lungo duemi­la anni di storia, una risposta ade­guata. Si fece aiutare dai professori, dal superiore p. Giuseppe Baj che gli diede un aiuto determinante, e pre­gò per avere da Dio quella luce e quella certezza che non può venire solamente dalle risorse umane. "Non volevo andare avanti tanto per anda­re avanti", dirà.

La fede fu il punto forte della vita di p. Roncari. Visse la fede. Fu il predicatore della fede. La di­fese con la parola e gli scritti, si ar­rabbiava tremendamente contro chi pretendeva di saperla lunga in mate­ria senza aver studiato, senza aver approfondito. "Quanti libri hai letto su questo ar­gomento prima di dire le stupidaggi­ni che stai dicendo?", protestava con l'incauto interlocutore. Al termine del primo anno aveva raggiunto l'as­soluta certezza umana sulla validità della sua scelta. Nel secondo, comin­ciò a studiare la Bibbia con vera pas­sione e a nutrirsi di quella che sape­va essere la Parola di Dio.

Suona il carillon: annuncio di guer­ra

Giuseppe era uno dei pochi stu­denti in possesso della patente di guida, per cui si prestava nelle mille faccende che occorrevano in una ca­sa grande come quella di Venegono. Inoltre, in forza delle amicizie che la sua famiglia aveva con gli industriali di Milano, si dava d'attorno per for­nire di oggetti l'annuale pesca di be­neficenza che veniva allestita in oc­casione del presepio, e che contri­buiva al mantenimento degli oltre cento studenti di teologia.

P. Giuseppe Baj, un vero amico dei giovani ed educatore di gran va­glia, abituava i futuri missionari a guardare all'essenziale delle cose, senza fermarsi alle quisquilie. Que­sti, nel 1959, venne eletto economo generale della Congregazione. Al suo posto arrivò un altro superiore di stile completamente diverso. Il cambiamento creò un certo disagio tra gli studenti, abituati com'erano a una certa libertà di movimento e di iniziativa.

Giuseppe una mattina (notiamo bene che era già diacono) arrivò in classe con un carillon che aveva raccolto nei suoi giri pro pesca. E lo fece suonare. Intanto entrò il professore di morale e iniziò la pre­ghiera. L'incauto suonatore infilò in tasca lo strumento, ma non riuscì a fermarlo, per cui si recitò l'Ave Ma­ria accompagnati da una musica gra­devole e sommessa.

Qualche giorno dopo Giuseppe venne chiamato nell'ufficio del supe­riore dove si prese una solenne lava­ta di capo, con la minaccia di essere mandato via su due piedi, per appropriazione indebita di cose della comunità, ostruzionismo durante la preghiera e leggerezza nei confronti della teologia morale e del suo pro­fessore.

"Sinceramente non mi sento un de­linquente per aver fatto uno scher­zetto di fronte al quale il suo prede­cessore avrebbe riso con noi - si giu­stificò Giuseppe. - Comunque se mi vuole mandar via per questo faccia pure. Sarà un segno che io non ho la vocazione e che non devo diventare sacerdote... Si ricordi, però, che la responsabilità sarà tutta sua". Que­sta risposta denota una continua esi­genza di certezza in Giuseppe, an­che se era più che convinto dell'au­tenticità della sua vocazione. Il malinteso finì sul tavolo dei su­periori maggiori di Verona i quali sorrisero divertiti. E non se ne parlò più. Il 4 aprile 1960 Giuseppe venne or­dinato sacerdote nel Duomo di Mi­lano da mons. Schiavini. Per la prima messa a Cannobio si premurò di invitare il "famoso" supe­riore per il discorso di occasione. "Lo feci - dirà - per sottolineare che nel mio cuore non c'era ombra di ri­sentimento".      (omissis)

Studente e animatore

Dopo il pellegrinaggio a Lourdes, chiese ai superiori di studiare medi­cina. Gli pareva che quelle di medi­co e di sacerdote-missionario fosse­ro due vocazioni complementari.

Invece fu deciso che si laureasse in scienze biologiche. Con questa pro­spettiva fu inviato a Milano, in Via Saldini, dove stava sorgendo la casa comboniana che avrebbe ospitato i futuri laureandi. Con p. Bevilacqua, superiore, s'interèssò per arredare la sede che venne inaugurata il 9 otto­bre di quel 1960.

Giuseppe si fermò a Milano tre an­ni. In questo lasso di tempo scrisse un libro sui missionari comboniani e fondò l'ISMI (Incontri Studenteschi Missionari). Si trattava di un gruppo giovanile universitario formato da una cinquantina di membri che si ra­dunavano periodicamente per in­contri di animazione missionaria.

Secondo l'intenzione del fondatore, da quei gruppi dovevano scaturire vocazioni missionarie laicali per il Terzo Mondo, e anche vocazioni sa­cerdotali-missionarie. L'idea verrà ripresa e sviluppata dai gruppi GIM.

La sede di Via Saldini, che era aperta anche ai confratelli di passag­gio da Milano, non era più un am­biente adatto per chi aveva bisogno di silenzio e di quiete per studiare. P. Giuseppe si accorse che, se non avesse cambiato dimora, non solo non avrebbe terminato la tesi, ma si sarebbe preso un solenne esauri­mento. Dietro suggerimento dei superiori, andò a Firenze nella sede del novi­ziato a continuare i suoi studi. Si iscrisse all'università fiorentina e, contemporaneamente, assunse l'in­carico di insegnante di biologia nel liceo comboniano di Carraia, dove si recava due giorni alla settimana.

Nell'occhio del ciclone

Il Concilio Vaticano II sfornava ri­forme (come quella liturgica) che creavano entusiasmi da una parte, brontolamenti dall'altra e un certo subbuglio dappertutto. La contest­azione giovanile del "68" fu precedu­ta da quella ecclesiale. Con la morte di p. Stefano Patroni, maestro dei novizi a Firenze, venne meno una colonna di stabilità e di salvaguardia delle tradizioni nella congregazione comboniana.

Seguirono altri due padri maestri (p. Colussi e p. Malugani) che do­vettero ritirarsi in fretta logorati dal­la fatica per tenere testa ai novizi che campavano richieste di libertà, di aggiornamento, di aperture che facevano a pugni con il sistema fino allora adottato.

Da una parte i novizi avevano ra­gione, in quanto non potevano ab­bracciare la vita religiosa-missiona­ria senza conoscere ciò che lasciava­no. Per questo alcuni chiedevano di fare esperienze simili a quelle dei preti operai o dei contemplativi. Al­tri volevano leggere riviste "spinte" o frequentare locali ambigui per pro­vare se stessi prima di una scelta de­finitiva, e cose del genere ...

I giovani non avevano chiaro in testa che il noviziato non è il posto della scelta vocazionale, bensì quello del cammino verso la perfezione in­dicata dalla scelta precedentemente fatta. In seguito si convenne di po­sporre il periodo del noviziato a un paio d'anni di postulato, durante il quale il giovane potesse fare la pro­pria scelta. Un Documento della Congregazione dei Religiosi del 1968 renderà obbligatorio questo metodo.

Roncari, trovandosi nell'occhio del ciclone, seguiva gli avvenimenti del noviziato con commenti, indicazioni e suggerimenti che dimostravano se­rio ragionamento e chiarezza di idee. Pareva che lui possedesse la ri­cetta per mettere d'accordo il vec­chio col nuovo, la tradizione con l'innovazione. I superiori lo presero in parola eleggendolo, il 9 dicembre 1967, "p. maestro sostituto", in attesa di una soluzione definitiva.

Fu un'esperienza atroce. Alcuni accusavano il giovane maestro di las­sismo, quasi fosse un paladino delle idee rivoluzionarie. Altri, special­mente i diretti interessati, cioè i no­vizi, trovarono in lui un "rullo com­pressore", uno che credeva nei siste­mi antichi e che voleva a tutti i costi rimetterli in vigore in forza appunto del principio che in noviziato non si sceglie, ma si cammina. Venticinque, su cinquanta novizi, furono rimandati nelle loro famiglie "a decidere sulla loro vocazione". Al­cuni ritornarono e diventarono otti­mi missionari. Domandando a due di questi una testimonianza sul p. Giuseppe di questo periodo, si mise­ro le mani nei capelli e commentaro­no: "Parce sepulto".

Roncari, dopo cinque mesi di esperienza, fu sostituito da p. Co­lombo Antonio e, dopo aver conse­guito la laurea in biologia, si trasferì definitivamente a Carraia come pro­fessore.

Costruttore di ospedali

Dopo un anno di studio della lin­gua inglese a Londra, fu inviato in Uganda come insegnante di scienze nel seminario di Nadiket, nella dio­cesi di Moroto.

Roncari - e qui appare una costan­te del suo carattere - si fece prece­dere da una lettera nella quale met­teva precise condizioni alla accetta­zione da parte sua del ruolo di inse­gnante. Diceva cose giuste, dimostrava an­cora una volta chiarezza di idee, co­me si era già visto a Firenze, ma non sempre le idee chiare ben si accord­ano con la molteplicità delle situa­zioni. Inutile dirlo, il suo nome non apparve sulla lista dei professori.

Egli masticò amaro e scrisse lette­re di fuoco. Poi, ignorando il semi­nario, tirò diritto fino ad approdare a Kaabong, nel nord del Karamoja.

Qui la situazione era piuttosto triste: la missione era povera e circondata dal deserto. La mortalità infantile mieteva vittime senza pietà; gli uo­mini, salvo rare eccezioni, non arri­vavano ai 45 anni di età. Chi non moriva di fame era vittima delle raz­zie.

Il nuovo venuto fu particolarmente impressionato dal modo in cui viveva la gente e si diede subito d'attorno per creare una specie di ospedalet­to. Con l'aiuto dei benefattori riuscì a tirar su due stanzoni che conteneva­no una ventina di degenti l'uno, e due localetti: uno per le medicazioni e l'altro come deposito per i medici­nali. Egli stesso si prestava per qualche medicazione.

Fuga da Gulu

I superiori del Seminario di Gulu, 350 chilometri da Kaabong, avevano bisogno di un professore di scienze nel seminario, dato che il titolare doveva tornare in patria. P. Giusep­pe si era ormai affezionato alla sua missione, ma il vescovo Mazzoldi gli disse: "Se ti hanno fatto studiare è giusto che tu metta a frutto i tuoi talenti, perciò è bene che tu vada, anche se a me dispiace moltissimo".

Il Padre caricò le sue cose sulla je­ep e partì, non senza essersi fatto precedere da una lettera nella quale diceva che si sarebbe fermato a Gu­lu solo fino a quando sarebbe saltato fuori un insegnante locale, sacerdote o laico.

Questa volta non solo venne accol­to ma, allo scopo di vincolarlo per tre anni, fu fatto superiore del semi­nario.

Si era nell'ottobre del 1971. In di­cembre dello stesso anno uscì una circolare del Provinciale nella quale si diceva che era necessario rivedere gli incarichi dei missionari di Gulu. Nelle elezioni che seguirono, p. Giu­seppe si trovò a livello di soldato semplice. Senza far commenti, ma con una overdose di bile in corpo, caricò nuovamente le sue cose sulla jeep che - si può dire - aveva ancora il motore caldo, e fuggì nel Karamo­ja. Si fermò nella missione di Kana­wat. P. Del Pero lo accolse come un vero fratello.

Missionario di savana

"Riconosco - dirà - che il mio non fu un gesto da buon religioso, ma vo­levo dare una lezione a chi mi aveva preso in giro in maniera così platea­le. Se non mi volevano né a Gulu, né in Uganda, ero disposto a procedere fino a Kampala per imbarcarmi sul­l'aereo per Italia".

Mons. Mazzoldi, vescovo di quella zona, ottenuto il benestare del Pro­vinciale, lo ricevette tra i suoi missio­nari con la frase: "L'Africa è così grande che c'è po­sto per tutti. Sii il benvenuto".

P. Giuseppe si mise subito all'ope­ra per preparare una grammatica italiano-karimojon basandosi su dei fogli che erano stati scritti da p. Fa­rina, prematuramente deceduto, e facendosi aiutare da p. Mantovani che conosceva alla perfezione la lin­gua.

Per venire incontro alla situazione di estrema povertà della gente, ripe­té l'esperienza di Kaabong, co­struendo un mini ospedale che poi venne gestito dalle suore combonia­ne.

A Gulu aveva fatto amicizia col dottor Pecorella che era capitato in Africa per dare una mano a un col­lega ammalato, nel frattempo guari­to. Si rivolse a lui e lo convinse a tra­scorrere le ferie in Africa, a Kana­wat. Il dottore, diventato intimo ami­co di Giuseppe, non solo accettò, ma per molti anni ripeté l'esperimento a tutto vantaggio di quelle popolazio­ni. Sicché la fuga da Gulu trasformò un professore di biologia in un au­tentico missionario di savana.

Come san Paolo

Le avventure missionarie durante i nove anni e mezzo di missione di p. Roncari sono tante e sono soprattut­to importanti per il fatto che il loro ricordo costituirà motivo di pace e di abbandono alla volontà del Signo­re durante la lunga malattia del Pa­dre.

Un giorno, mentre cercava di col­pire con uno sgabello un serpente velenoso che si era intrufolato nella sua camera, venne morsicato alle di­ta. Ebbe la presenza di spirito di succhiarsi immediatamente il veleno salvando, così, la vita. "Ho rivissuto l'avventura di san Paolo a Malta", scrisse.

Per ben due volte capottò con la je­ep carica di medicinali mentre por­tava in missione il dottor Pecorella. Tutti e due rimasero perfettamente illesi.

Durante una battuta di caccia in­sieme a p. Delpero, venne aggredito da un bufalo ferito. Si salvò rifugian­dosi sopra una pianta, e lì rimase finché la bestia, colpita con l'ultima pallottola disponibile, non stramaz­zò finita.

Rimasto in panne con l'auto, so­praggiunse la notte e fu visitato dal leone. Si rannicchiò raccomandan­dosi alla Madonna finché la belva cambiò direzione.

Nella guerra d'Uganda un gruppo di ladri andarono a rubare nella casa delle suore. P. Giuseppe, sentendo dei rumori sospetti, accese la pila elettrica (era di notte) e si recò sul posto per vedere che cosa stava suc­cedendo. I ladri, che erano i poli­ziotti del luogo i quali approfittava­no dell'anarchia generale per mette­re da parte qualcosa, lo accolsero con una sventagliata di mitra fortu­natamente andata a vuoto.

Una seconda volta, mentre i soliti ladri scaricavano le armi contro la porta e la finestra della stanza di p Giuseppe con la chiara intenzione di liquidarlo, egli si trovava poco lontano e seguiva, non visto, la scena. Per smascherare i colpevoli chiese al capitano di polizia di mettere in fila i suoi uomini in modo da poter individuare chi aveva sparato. La co­sa irritò molto il comandante che era d'accordo con i suoi uomini, e si irri­tò ancora di più quando p. Giuseppe fece presidiare stabilmente la mis­sione dai soldati tanzaniani che, co­me è noto, avevano liberato l'Ugan­da mettendo in fuga Amin e le sue truppe. Dopo questi fatti, i superiori consi­gliarono il Padre di lasciare l'Ugan­da. Cosa che egli fece il 10 luglio 1979.

Animatore in Italia

Dal 1980 al 1984 p. Giuseppe coprì il ruolo di animatore missionario nei seminari diocesani d'Italia. A nome delle Pontificie Opere Missionarie visitava i seminari per presentare il problema missionario ai futuri sa­cerdoti. È un lavoro che richiede re­sponsabilità, competenza e notevole spirito di sacrificio. Bisogna, infatti, cambiar letto quasi ogni sera, adat­tarsi ai cibi che variano a seconda delle regioni, affrontare lunghi viag­gi portandosi dietro libri e riviste, pellicole cinematografiche e proiet­tore, e di essere sempre disponibili a parlare e ad ascoltare per lunghe ore del giorno e della notte.

Dopo quattro anni di una simile vi­ta, p. Giuseppe, che non era più un giovanotto, cominciò. ad accusare una notevole stanchezza. I superiori gli proposero, allora, di prendere la direzione del Piccolo Missionario, la nota rivista missionaria di 132 pagi­ne per ragazzi.

P. Giuseppe vi si buttò con entu­siasmo. Guidato dalla sua mentalità scientifica e perfezionista, volle fare della rivista per ragazzi una palestra di idee che suscitavano ampie di­scussioni su temi di attualità quali la fede, la morale, la droga, la cono­scenza dei popoli ...

Il Piemme, un po' alla volta, si tra­sformò in una rivista più per giovani, che per ragazzi. Ciò richiedeva uno sforzo sempre maggiore per curarne sia la redazione che i contenuti. P. Giuseppe era solo come, del resto, lo erano stati i suoi predecessori. Né si preoccupava se gli abbonamenti diminuivano: egli puntava sulla qua­lità dei lettori, più che sulla quantità.

Suona l'allarme

All'inizio dell'86, la corda già trop­po tesa cominciò a dare segni di ce­dimento. Spasmi viscerali, inappe­tenza con perdita di peso, nausea, vertigini e senso di svenimento erano i sintomi che qualche cosa non fun­zionava più.

Scrisse più volte ai superiori de­nunciando la situazione: "Non riesco più a dormire di notte se non con l'aiuto di pastiglie... Sono più di tre anni che non posso fare gli Esercizi, che non prendo una vacanza vera. Ora, lavorare in continuazione, sa­bato e domenica compresi, per 365 giorni all'anno, sempre in tensione per arrivare in tempo con le scaden­ze, è qualcosa che toglie il respiro e provoca l'esaurimento nervoso" (18 marzo 1986).

I superiori non gli fe­cero molto caso, forse perché il suo ritmo di lavoro non era propriamen­te da ammalato. Tuttavia pregarono un Padre di dargli una mano, ma dall'esterno, senza far parte della re­dazione e quasi di contrabbando. Questa collaborazione durò poco perché non era facile lavorare con una personalità forte come quella di p. Giuseppe.

Il 14 aprile 1986 scriveva al Superiore ge­nerale: "Spero che la Pasqua porti anche a me il miracolo (quanto lo desidererei!) di stare un po' meglio. Purtroppo la croce sta dando segni di simpatizzare con i seguaci del Comboni e quindi anche con me. Devo prendere certe medicine che mi stanno avvelenando... Ho paura che anche per me il Paradiso non sia poi così lontano. In fondo il Combo­ni alla mia età era già lassù; quindi potrei accettare questa lunga e 'be­nedetta' croce come un'adeguata preparazione a quel passo. Sono nel­le mani di Dio, della Madonna e del Comboni e anch'io sto aspettando di capire i disegni dell'Altissimo".

Sclerosi laterale

Roncari sperava nel miracolo e, parlando di croce, diceva "purtrop­po", pur sforzandosi di conformarsi ai disegni di Dio.

Qualche anno più tardi i suoi ra­gionamenti saranno ben diversi, co­me vedremo.

Alla fine di giugno (sempre del 1986) p. Roncari era fisicamente fi­nito, tanto che fu chiesto a p. L. Gai­ga di preparare il Piemme di otto­bre.

Nel frattempo, al Piccolo Missio­nario era arrivato un aiutante stabi­le, seguito a breve distanza da un secondo. P. Giuseppe scriveva con un certo spirito di rivalsa: "Si è avverato ciò che da mesi vado ripetendo ai superiori: che, cioè, dovranno met­terne due di persone al Piemme, e in più ne avranno una terza ammalata, il sottoscritto".

Nel gennaio del 1987 la fibrillazio­ne ai muscoli si era estesa a tutto il corpo. Il cognato di p. Giuseppe (medico) e la sorella s'interessarono per ricoverarlo nella clinica S. Raf­faele di Milano, reparto neurologia. Il responso fu: sclerosi laterale, una malattia piuttosto rara che interessa il midollo spinale e dal corso letale.

Sempre più in alto

A questo punto inizia una nuova fase nella vita di p. Roncari. Una fa­se che permetterà a tutti di constata­re giorno dopo giorno l'opera mera­vigliosa di Dio in questo suo missio­nario.

P. Giuseppe consultò i testi di me­dicina e si fotocopiò ciò che riguar­dava la sua malattia. In questo modo poté conoscere tutto del suo male e calcolare il tempo che gli restava da vivere e il tipo di morte che lo atten­deva. "Morirò soffocato causa l'atrofia dei muscoli respiratori. Mi restano ancora due anni di vita". La prospet­tiva non era allettante.

In data 16 luglio 1987 scriveva al Superiore generale: "I dottori dell'ospedale S. Raffaele mi hanno dimesso dato che non c'è nulla da fare, se non aspetta­re come si evolve la malattia. Dio ha i suoi piani che non sempre coinci­dono con i nostri... Io, con l'aiuto di Dio e di Maria, sono pronto a qua­lunque eventualità. Può darsi che abbia combattuto la buona battaglia e terminata la corsa e, spero, di aver conservato la fede, così non ho che da sperare, se non c'è nulla da fare umanamente, nella corona che Dio giusto giudice, ecc. Non voglio dare la colpa a nessuno e perdono coloro che, ovviamente, potevano fare qualcosa a suo tempo, ma non riuscirono. Sono certo che tutto fa parte del grande disegno im­perscrutabile di Dio il quale può fa­re anche dei miracoli. Quindi c'è sempre speranza. Sono sereno e prego. Offro le mie sofferenze per la mia conversione e per quella di tanti confratelli e persone amiche che in questi tempi mi hanno lasciato mol­to perplesso per il loro 'tipo' di fe­de".

In questa lettera notiamo un paio di cose: innanzitutto non si tratta di quei lunghissimi scritti battaglieri, suddivisi in paragrafi: uno, due, tre, ecc., con forti sottolineature, come era solito fare. Non ci sono recrimi­nazioni contro l'uno o contro l'altro, anzi c'è un'esplicita dichiarazione di perdono nei confronti di coloro che "non riuscirono a fare". Si nota, inol­tre, una stupenda disponibilità ad accettare la volontà di Dio. P. Giu­seppe si trovava all'inizio di un cam­mino aspro che lo avrebbe purificato da tutte le sue scorie per essere gra­dito al Signore. E in questo spirito si lasciava portare sulle ali di Dio verso il monte della santità. Non solo, ma si sentiva più missionario che mai, ora che la malattia lo conduceva pia­no piano alla tomba.

L'avvenimento "morte", visto così da vicino, costituisce per p. Giusep­pe motivo di conversione per sé e per alcune "persone amiche". Qui si inserisce un altro aspetto della soffe­renza del Padre: pagare per gli altri.

Non conviene dire chi fossero que­ste "persone amiche", sappiamo, tut­tavia, che per esse offrì la sua vita e, dalla bara, le vide attorno all'altare del Signore, ridiventate amiche di Dio.

Il lungo calvario di redenzione

Dopo la "sentenza di morte", p. Giuseppe chiese ai superiori di esse­re accolto nella casa del noviziato di Venegono Superiore. "Mi sembra che questo luogo sia il più adatto per la preghiera e per disporsi meglio al­la volontà di Dio, qualunque essa sia", scrisse. Con lettera del 21 set­tembre 1987, il Superiore provinciale asse­gnava p. Giuseppe alla comunità di Venegono Superiore, a partire dal 28 ottobre "centenario di primi Voti nell'Istituto".

Il pensiero della prossima fine non spaventava il malato, anzi gli diven­tava di giorno in giorno più familia­re. "Nel mondo ci sono tanti guai ­scriveva - perché si pensa troppo po­co a questa realtà che, presto o tar­di, toccherà a tutti: la morte". Poi, volgendosi alle "persone amiche" che andavano a trovarlo e per le quali offriva la sua vita, proseguiva: "Il vostro guaio è che vi siete di­menticati della morte. Godete tutti ottima salute, l'ultimo morto nella vostra famiglia risale a molti anni fa ed era assai anziano; non vi sono mai capitati incidenti stradali o disavven­ture di altro genere, state benissi­mo... ma attenzione! Io sono un se­gno profetico. Faccio l'apri pista, poi ... È giusto che io me ne vada per primo, che inizi la salita al calvario. Sarà un cal­vario lungo, lento, faticoso. Ma vo­glio percorrerlo come lo ha percorso Cristo, perché sia di redenzione per me e per voi".

Queste parole scendevano come lame di rasoio e lasciavano il segno, facevano riflettere, mettevano in crisi. (omissis)

Il fremito della carne

La malattia progrediva lenta e ine­sorabile. I dolori si accentuavano nei muscoli delle gambe e delle braccia. "Mi convinco sempre più che c'è un meraviglioso piano di Dio in que­sta mia malattia – disse. - Ne sto ve­dendo i frutti in me, nei miei familia­ri, nei confratelli e nella gente che viene a trovarmi. A volte mi fa paura pensare che soffrirò molto, perché la mia morte sarà per soffocamento, ma sono sicuro che il Signore prov­vederà... Dio vuole da me una mis­sione più vasta, universale. Penso a Comboni che era molto più impor­tante di me per la Chiesa e per le missioni, eppure è morto più giova­ne di me. Non è il numero dei giorni che conta, ma l'intensità dell'amore e la generosità nell'accettare la cro­ce. Senza croce non c'è redenzione. Dio dà vita lunga a chi deve ripara­re, a chi deve ricuperare il passato. Dio è un padre e vuole il nostro be­ne. Questo è lo schema nel quale dobbiamo entrare. La gioia è sapersi un tassello di un mosaico meravi­glioso. Se manca il tassello o se non è come lo ha ideato l'autore, il qua­dro non è completo... Spesso mi do­mando come sarà il paradiso. La ri­sposta mi viene senza dubbi: Dio ci porta con sé, al sicuro, nella dimora definitiva. E sarà una realtà meravigliosa, senz’altro superiore ad ogni aspettativa. Per questo, nonostante il fremito della carne, ripeto con una certa frequenza: Esultai quando mi dissero: andremo nella casa del Signore… Vado con molta gioia anche se sento il dolore del distacco da chi amo. Lo ha sentito anche Cristo, quindi sono in buona compagnia... Poi ci sono i salmi che mi danno conforto. Salmo 55: Nell'ora della paura in te confido e non avrò timo­re, mi rifugio all'ombra delle tue ali…  All'ombra delle ali di Dio c'è pace".

Mi piace far conoscere Cristo

Segno di fedeltà alla missione fu anche la nuova edizione della "Vita di Cristo", in lingua karimojon, che aveva fatto stampare la prima volta nel 1980. "A Cristo ho consacrato la vita; mi piace farlo conoscere". Il 3 dicembre del 1987 consegnò alla ti­pografia le bozze corrette.

All'inizio del 1988 cominciò ad usare il bastone per poter cammina­re. Pochi passi alla volta perché si stancava. I crampi gli afferravano i muscoli e la nausea gli rovesciava lo stomaco. I sanitari gli praticarono delle iniezioni speciali che avrebbe­ro dovuto rigenerargli il midollo spi­nale. Non solo non gli fecero bene, ma lo sconquassarono maggiormente.

"Quando sono stato ordinato prete ho chiesto 25 anni di sacerdozio. Il Signore me ne ha già concessi 28. È sempre abbondante il Signore. Cri­sto ha redento il mondo con la soffe­renza. Chi soffre ha un grande com­pito nella storia della Chiesa. Vivo l'oggi senza preoccuparmi del do­mani. È anche questo il segno di una particolare predilezione divina. Se è risorto Cristo, risorgerò an­ch'io. Dov'è, o morte, la tua vitto­ria? Cos'è dunque la morte? Noi la vediamo come una partenza. In real­tà è un arrivo".

Dio mi prova con gentilezza

"Dio mi prova con gentilezza" - inci­se sul registratore il 26 marzo 1988. E si paragonava con altra gente che soffriva in situazioni di disagio. "Non sono tra i peggiori. Altri soffrono più di me. Penso ai paralizzati, ai torturati, a coloro che sono in carce­re. Io sono circondato da cure, dall’affetto dei familiari, dei confratelli, della gente. Anche nella sofferenza Dio ha usato con me un tocco di predilezione, di riguardo. Io, poi, ho già vissuto una bella fetta di vita, ho avuto tante soddisfazioni di ministe­ro, sono stato in Africa, ho fatto il missionario. Altri cominciano a soffrire dai pri­mi anni della ragione in su, senza aver realizzato niente se non ciò che si costruisce con la sofferenza cri­stianamente accettata. È vero che questo è il massimo dei capolavori, l'unico che resta alla fine, anche se fa piangere, anche se cresce e si svi­luppa nell'assoluta oscurità. So che la mia malattia e la mia morte avran­no come conclusione la risurrezione. Penso a coloro che soffrono senza speranza. Questa sì è disperazione. Il pensiero della risurrezione per una nuova vita non è un placebo, è una realtà che ti riempie di consola­zione".

Ci vuole la mia morte

In queste condizioni fu portato ad Arconate per una testimonianza missionaria. Parlò a fatica, le sue parole si incisero profondamente nell'anima degli ascoltatori.

Il 10 maggio 1988 si recò a Milano nella chiesa di Sant'Eustorgio dove padre Tardif, per mezzo del quale si dice che Dio operi spesso guarigio­ni, pregava. I confratelli di Venego­no speravano ancora in un miracolo. P. Giuseppe era scettico, tuttavia volle dar loro questa soddisfazione. "Vedi - gli disse un confratello - il miracolo della tua guarigione con­vertirebbe quelle persone care che tanto ti stanno a cuore".

Dovette stare in movimento per sei ore accumulando una stanchezza in­finita. Alcuni, quella sera, guarirono realmente. I più tornarono a casa con la loro malattia, confortati, però, da una particolare presenza di Dio che si rivela nella preghiera comune.

"Quando ho visto tanti giovani che soffrivano più di me, mi sono vergo­gnato di chiedere la guarigione. Per­ché io sì e loro no? Ho chiesto solo di fare la volontà di Dio, perchè è questa e solo questa che conta per il Regno di Dio e per me che faccio parte di questo Regno". Poi confidò a un fratello: "Non sarebbe sufficiente il miraco­lo della mia guarigione per convertire quelle persone. Ci vuole la mor­te, la mia morte".

Il primo luglio 1988 cominciò ad usare la carrozzella. "Da solo non rie­sco neppure ad alzarmi dalla poltro­na e dal water. Non faccio più un passo, non mi reggo sulla persona. Faccio una gran fatica anche a reg­gere un libro".

L'ultima illusione

Il professor Pecorella seguiva da Roma il decorso della malattia e si angustiava nel constatare come questo suo amico deperisse di giorno in giorno. Egli sperava che, applicando delle tecniche nuove a base di onde elettromagnetiche, si potesse, se non far retrocedere, almeno arrestare il male.

Dal 2 settembre al 17 novembre 1988 p. Roncari fu a Roma nella Ca­sa generalizia dei Comboniani pres­so l'Eur. "Proviamo anche questa" - disse il padre sottoponendosi alla nuova te­rapia senza troppa convinzione.

Infatti, non costatando alcun mi­glioramento, insisté per tornare a Venegono. Le cellule nervose erano ormai spente. "Sono contento di aver fatto da cavia a questo tipo di cura. Non mi è servita a niente. Adesso che ho saputo quant'è l'onorario del Dr. Pecorella per seduta, gli sono grato, perché non mi ha chiesto niente. Questo depone a suo favore. Con me deve aver tentato, perché si tratta di una malattia a cui non c'è rimedio".

La vigilia della partenza da Roma nel corso della Messa comunitaria disse: "A tutti chiedo preghiere per poter fare fino in fondo quanto Dio mi sta chiedendo".

"Venegono – disse ad un amico ­- con il clima di preghiera e di racco­glimento che lo caratterizza è il po­sto ideale per prepararsi alla morte".

P. Roncari faticava a respirare, la voce si indeboliva. Stentava ad alza­re il braccio per portare il bicchiere alla bocca. "Conto i giorni e le settimane che mi separano dall'incontro col Signo­re e lo ringrazio di questa preparazione, di questa purificazione. Non riesco ad espellere il catarro perché non ho la forza di tossire. Ma non ho perso in serenità. Dio e la Madonna accettano questa mia sofferenza e spero ne terranno conto al momento della morte".

La logica di Cristo

Attorno al letto di questo sacerdo­te malato, ormai immobile per la to­tale atrofia muscolare, eppure così sereno, si alternavano confratelli, amici, anime bisognose di una spinta per ritornare a Dio. Sovente arriva­no anche quelle "persone amiche" per le quali Giuseppe era disposto a morire. Ecco un dialogo intercorso tra loro e il malato.

"Quando nel 1970 sono partito per l'Africa eravate gente da messa e co­munione quotidiana e da rosario tut­te le sere. Ora non credete neppure in Dio". "È vero. È successo qualco­sa di terribile nella nostra vita. Ma tu non devi soffrire così per noi. Tu sei innocente, siamo noi i colpevoli, quindi dovremmo essere noi, caso mai, al tuo posto".

"Si vede che non capite niente di Cristo. Nella logica del cristianesimo è l'innocente che paga per il pecca­tore. Cristo era innocente e ha paga­to per noi".

"Tu non sei Cristo".

"Sono partecipe del suo sacerdo­zio; devo avvicinarmi a lui il più pos­sibile. Devo far mia la sua logica. Quindi è giusto che sia io, che voi chiamate innocente (non lo sono, ma dovrei esserlo per vocazione) a pagare per voi che vi riconoscete colpevoli... Perciò va bene così e non angustiatevi".

Ciò che conta è il Regno di Dio

Un giorno arrivò anche colui che gli avrebbe scritto il necrologio e col quale il padre era in sincera amicizia. "Se hai il raffreddore stattene alla larga - gli disse p. Giuseppe - perchè non sono più in grado neanche di tossire".

"Sei conciato per le feste, Joe", gli rispose l'amico.

"Non parlare troppo forte perché ormai restano pochi salti anche a te, sai!"

"Una volta per uno non fa male a nessuno! Ma senti, se strappassimo un miracolo a Comboni, sarebbe un colpaccio".

"Parli come il solito pagano: ciò che conta in questa faccenda non è né la mia salute, né la mia morte. Conta il Regno di Dio. Se per il Re­gno è meglio la malattia e la morte, ben vengano. A noi queste cose non devono riguardare più di tanto". Poi, diventando un po’ più buono, conti­nuò: "Tu sei venuto per il necrologio. Ti conosco ormai. Ti ho voluto dare una mano. Ho inciso otto cassette da novanta minuti l'una. Lì c'è tutto. Mi sono scelta la foto da mettere sulla tomba e sull'immaginetta-ricordo. Ho scelto anche la dicitura da scri­vere sotto. Metti quella, non altre storie."

P. Giuseppe era steso su di una se­dia a sdraio, aveva davanti un picco­lo leggio sul quale teneva la Bibbia. Con notevole sforzo riusciva appena appena a girare le pagine. La voce era esile, quasi impercettibile. Solo gli occhi brillavano.

"Mi mettono a letto alla sera e poi, per otto ore, resto immobile senza poter muovere neppure un piede. Alla mattina mi sistemano qui e così passo la mia giornata. Ciò che mag­giormente mi costa è che devo di­pendere dagli latri in tutto, anche per i miei bisogni. Ma accetto volen­tieri anche questa limitazione se è per il Regno di Dio".

Ormai sulla vetta

P. Giuseppe capiva con sempre maggior chiarezza che la sofferenza era una nuova vocazione alla quale il Signore lo chiamava. "Sono un tassello piccolo e pecca­tore, eppure Dio mi ha dato grandi vocazioni. Mi ha concesso di nascere in una famiglia cristiana, mi ha chia­mato al sacerdozio, mi ha mandato come missionario. Ho esercitato an­che il giornalismo missionario. Ho dialogato sulla fede con migliaia di ragazzi e di famiglie, ho predicato con la rivista di Dio, sulla Madonna, sulla Chiesa. Ciò che ho scritto sulla carta resta ... Ed ora ecco questa ulteriore chia­mata: la malattia. È una vocazione, quella della sofferenza, che Dio dà a pochi privilegiati. Io sono uno di questi. Nella mia vita ho sentito qualcuno che, nella sofferenza, dice­va: "Perchè proprio a me?" Io ora capisco che bisognerebbe dire: "Per­ché non a me?", specialmente se si è missionari e sacerdoti. La sofferenza è qualcosa di gran­de, è una grazia che Dio concede a chi ama di più, a chi egli vuole far più simile a Cristo. Ora sento la gioia di essere arrivato alla fine della mia corsa. È un traguardo magnifico. Tra poco vedrò Cristo in persona, la Madonna, i santi, gli amici, il pa­pà. Veramente ho solo da ringrazia­re e lodare il Signore. La sua pro­messa: il centuplo in questa vita l'ho sperimentata anch'io, perché tanta serenità, tanta pace interiore, tanta assistenza sia fisica che spirituale, tanta fraternità in congregazione, è tutto parte di quel centuplo in que­sta vita promesso dal Signore, e poi ci sarà anche il resto, la vita eterna".

Queste dichiarazioni, dette con sincerità e convinzione mentre era nella morsa del dolore, ci mostrano un p. Giuseppe trasformato dalla grazia di Dio e giunto, ormai, al ver­tice.

Il mio segreto con Dio

"La corsa è stata breve - ha conti­nuato p. Roncari - ma intensa. La mia sofferenza la capisco solo io. Non riesco più a parlare, a respirare. La mia sofferenza è ormai un segre­to tra me e Dio. È bello avere un se­greto in comune con Dio. La soffe­renza è la parte più personale, più intima, più mia. Non si può delegare nessuno in questo".

Alle ore 16,45 del 2 marzo 1989 p. Giuseppe incise le sue ultime pa­role sul nastro: "D'ora in poi non inciderò più niente. Non ho fiato, non reggo il microfono e poi è bello chiudersi nel proprio segreto con Dio. Ora chiedo perdono a tutti coloro che ho offeso con la mia vita, con le mie parole. Ne ho dette tante di parole inutili, alle volte pungenti, mortificando specie i più sensibili. Alle volte ho offeso anche senza volerlo. In questi mesi ho cercato di riparare con pa­role che ho inciso su questi nastri. Che Dio mi aiuti a incontrarlo con la coscienza più pulita".

E qui finisce la voce. Il resto del nastro è occupato da una canzone che dice, tra l'altro: "Cristo, mi hai sedotto e io ti sono venuto dietro"; poi c'è una marcia con parole in te­desco, che esprimono la forza e la fatica di chi cammina con entusia­smo, nonostante tutto.

L'intrepido protagonista di tante battaglie, aveva deposto le armi e si voltava indietro a guardare il suo passato. Ora lo vedeva nella luce di Dio che è misericordia. E si appella­va a questa misericordia e a quella di coloro che aveva fatto soffrire.

Sciolti gli ormeggi, la nave aveva preso il largo. Ma la traversata era ancora lunga e il mare in burrasca più che mai. Alla morte, infatti, mancavano an­cora tre mesi e mezzo.

Sono qui

Solo a vederlo, p. Giuseppe costi­tuiva uno strazio. In quel corpo im­mobile solo il cuore, il cervello e gli occhi funzionavano a meraviglia. Il resto era come un pezzo di legno. Dio, con cesello inesorabile, dava gli ultimi tocchi al suo missionario per cavarne un grande capolavoro. Egli non protestava, non si lamentava, anzi si sforzava di sorridere.

Allo scopo di facilitargli la respira­zione, i sanitari vollero che fosse ri­coverato all'ospedale di Tradate per la trachetomia. Appena adagiato sul letto nel re­parto, p. Giuseppe, con un filo di vo­ce, chiese di essere riportato a casa. "Con questo intervento potremo prolungarti la vita di qualche mese", gli dessero. Appellandosi a un preci­so riferimento biblico rispose: "Desidero ardentemente mangiare questa Pasqua". La frase, oltre che ispirata dalla fede per la quale p. Giuseppe aveva sempre combattuto, andava a pennello con la sua mentalità: se quel Dio che lo aveva salvato tante volte ora gli porgeva il calice, egli non doveva tentare di allontanarlo neppure di un centimetro.

Ritornato a Venegono, ricevette tutti i sacramenti e attese la sua ora. Celebrò messa fino al giorno della morte, disteso sul letto, senza riusci­re più a muovere nemmeno la testa. E non ci fu verso di convincerlo a "lasciar perdere". Le sue messe, che erano un doppio sacrificio - quello di Cristo e il suo - commovevano i presenti tanto erano celebrate con devozione e con fede.

L'ultima notte fu meravigliosa. Chiese che gli venissero lette le lodi di Maria, adagio, in modo da poterle seguire con la mente e assaporarle col cuore. Venne il nuovo giorno, l'ultimo della sua tribolata e gioiosa esistenza. Ad un certo momento, una delle persone che lo assistevano disse: "Presto verranno il Signore e la Madonna a prenderti". "Sono già qui e mi fanno cenno di andare", rispose con un soffio di vo­ce. Tentò di sollevare il capo e spirò.

Erano le ore 14 del 25 giugno 1989.

Ed ora ecco ciò che volle fosse scritto accanto alla fotografia del­l'immaginetta ricordo: "Le cose visibili sono di un mo­mento, quelle invisibili sono eterne. Sappiamo, infatti, che quando ver­rà disfatto questo corpo, nostra abi­tazione sulla terra, riceveremo un'a­bitazione da Dio, una dimora eterna, non costruita da mano d'uomo, nei cieli. Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del no­stro corpo celeste" (S. Paolo 2Cor 4,18; 5,1-2)

E dall'altra parte: "Quel che m'importa non è la vita, ma portare a termine la mia corsa e la missione che il Signore Gesù mi ha affidato: annunciare a tutti che Dio ama gli uomini" (S. Paolo in At­ti 20,24)

P. Giuseppe Roncari è sepolto nel­la tomba di famiglia nel cimitero di Cannobio (Novara).        P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n. 166, aprile 1990, pp.67-88