In Pace Christi

Sergi Michele

Sergi Michele
Geburtsdatum : 12/04/1910
Geburtsort : Gagliano del Capo LE/I
Zeitliche Gelübde : 08/05/1932
Ewige Gelübde : 08/05/1938
Todesdatum : 30/11/1988
Todesort : Khartoum/SD

Leggendo la Sacra Scrittura capita, qualche volta, di imbattersi in un brano che richiama alla mente un determinato avvenimento o una particolare persona. Spesso succede anche il contrario, che, cioè, un avvenimento o una persona richiamino un passo della Bibbia.

Alla notizia della morte di fr. Michele Sergi mi à balzato subito alla mente un versetto del salmo primo, quello che dice:

"L'uomo che si compiace della legge del Signore è come albero piantato lungo i corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere".

Fr. Sergi mi è sembrato il biblico albero che ha dato frutti abbondanti e inaspettati, e la sua opera è prodigiosamente riuscita contro le previsioni e le iniziali critiche dei "sapienti e dei prudenti".

Per di più ciò è avvenuto non lungo un corso d'acqua, bensì in un ambiente e con dei mezzi assolutamente inadeguati. Che cosa si deve concludere, allora? Che fr. Sergi à stato "l'uomo saggio che ha meditato giorno e notte la parola del Signore". Da questa Parola ha tratto le mosse per la sua azione missionaria. Non si trovano altre ragioni per spiegare il "miracolo Sergi", perché di vero miracolo si tratta. Il 'miracolo' è tanto più grande quanto più Sergi si riteneva piccolo. Anche questo entra nella logica cristiana.

Constatiamo, infatti, che nel Regno di Dio gli uomini grandi sono coloro che fanno meno rumore, che nella vita si ritengono piccoli. Fr. Sergi è uno di questi. Nelle pochissime lettere che ha scritto, anche in quelle per chiedere la rinnovazione dei Voti agli inizi della sua vita religiosa-missionaria, non si è dilungato in lunghi discorsi, non ha fatto disquisizioni sulla sua disponibilità ad osservare le Regole, non ha proclamato la sua indegnità a diventare missionario. Ha detto semplicemente:

"Reverendo Padre, le domando umilmente di essere ammesso ai Voti come fratello coadiutore, perché desidero essere figlio del Sacro Cuore".

Nel descrivere le sue mansioni nelle poche comunità in cui è passato, si è sempre definito: "Fratello della casa", anche quando aveva messo in piedi un movimento da fare invidia al più esperto menager di questo mondo.

La notizia della sua morte, in seguito a blocco renale, ha fatto pensare al suo stile di vita: se ne è andato in silenzio come in silenzio è vissuto. Non ha lasciato messaggi di parole, ha lasciato la testimonianza - e che razza di testimonianza - della sua opera.

In attesa che si avveri la profezia

Fr. Sergi è nato il 20 aprile 1910 da Silvestro e Angela Bisanti. La sua nascita ha qualche cosa di "strano". La mamma, infatti, non riusciva a portare a termine le gravidanze e ciò le causava grande dolore, un dolore condiviso dal marito, uomo povero e pieno di fede. I due, non avendo altre risorse umane, si rivolsero con fervore a Dio chiedendogli una creatura, un maschio, che prolungasse il loro nome e che assicurasse loro assistenza quando sarebbero stati vecchi o malati.

Mamma Angela si trovò in attesa ma, dopo qualche mese, cominciò il travaglio che ben conosceva e che si sarebbe concluso con un nulla di fatto. I genitori intensificarono le preghiere... Cosa costava a Dio un favore a due desolati genitori? Affinché le loro invocazioni raggiungessero più sicuramente il trono di Dio, si rivolsero all'arcangelo Michele, veneratissimo in terra di Puglia e speciale patrono del Gargano. Il Cielo rispose.

Una notte papà Silvestro fece un sogno. Vide un angelo che, parlando a nome di Dio, gli disse:

"Se sei disposto a donarlo al Signore, il bimbo sopravvivrà". Papà Silvestro rifletté a lungo. Cosa volevano dire quelle parole misteriose? Forse che sarebbe morto poco dopo? Proprio quell'unico, non ancora nato, darlo a Dio? E perché? Alla fine, però, rispose che avrebbe accettato la volontà del Signore comunque si fosse manifestata, perché certamente era la cosa migliore per lui e per la sua famiglia. Da quel giorno la mamma cominciò a godere ottima salute.

Quando il bimbo venne al mondo bello e vispo, i genitori non pensarono due volte al nome da dargli.

"Non ci sono dubbi, esclamò papà Silvestro. Colui che mi è apparso in sogno era certamente l'arcangelo san Michele che ha sempre avuto una predilezione speciale per la nostra gente. Il bambino si chiamerà Michele".

Michele crebbe sano e contento. Come tanti altri ragazzi della sua età portava al pascolo le pecore, recitava le preghiere, aiutava il papà nel campo e andava in cerca di nidi. Certi monelli che volevano insegnargli delle cose che non andavano bene gli incutevano un senso di orrore. I genitori, infatti, gli avevano detto più volte che lui era proprietà di Dio, per questo era nato, e perciò doveva vivere come piaceva al Signore. Michele aveva fatto tesoro di queste parole e si mantenne sempre fedele alla legge del Signore attendendo che gli manifestasse la sua volontà.

Ma gli anni passavano e non succedeva niente di nuovo.

"E' stato solo un sogno, Silvestro mio, quello che hai fatto quella notte!", diceva la moglie al marito con un po' di ironia nella voce.

"Tu non mi credi mai. Eppure sei stata bene dal giorno seguente fino al termine della gravidanza! Di questo sei testimone tu, e Michele è qua con noi, forte e sano. Di' piuttosto che noi non comprendiamo i disegni di Dio. Siamo troppo piccoli! E poi il Signore non ha fretta. Lui è padrone della vita e del tempo".

"Hai ragione, scusami. Il Signore è proprio buono. Dopo Michele ci ha mandato anche Rocco, cosa vuoi che pretendiamo di più? Siamo proprio dei mai contenti!".

L'incontro con padre Sartori

Ormai ventenne, Michele viveva portandosi dentro quella profezia che pareva non si avverasse mai. Il Signore però non si era dimenticato di lui.

Un giorno capitò in paese p. Bernardo Sartori, il missionario comboniano del quale la gente raccontava meraviglie. Si sapeva che, giovane sacerdote, era stato guarito dalla tubercolosi per intervento diretto della Madonna della quale era diventato un accesissimo propagatore della sua devozione. A Troia, nelle Puglie, aveva dato vita a un seminario missionario e lo portava avanti a prezzo di enormi sacrifici. Si parlava, senza mezzi termini, di miracoli veri e propri che il Padre operava per intercessione di Maria. La fantasia popolare aggiungeva anche ciò che non c'era per cui, la "fama" lo precedeva nelle sue battute apostoliche creandogli quell'aureola di soprannaturalità che, nell'ambiente del Sud di quel tempo, trovava un terreno adatto per attecchire e svilupparsi.

A Gagliano del Capo p. Sartori tenne le sue prediche infuocate facendo vibrare di fervore missionario l'uditorio che gremiva la chiesa e la piazza antistante.

"Senti che voce - diceva la gente -. Ti pare che questi siano i polmoni di un tubercoloso?".

"E' la Madonna che gli dà la forza e che parla attraverso la sua bocca".

Anche Michele ascoltava quelle prediche e i commenti della gente, tuttavia si teneva in disparte zitto zitto pensando che, se il Signore voleva qualche cosa da lui, glielo avrebbe fatto capire. Alla fine di una predica, p. Sartori lanciò il suo appello:

"Le missioni hanno bisogno di giovani generosi che, sulle orme degli apostoli, portino il vangelo in tutto il mondo, specialmente negli sperduti villaggi dell'Africa...".

"No, non fa per me - disse tra sé Michele -. Io ormai sono troppo avanti con gli anni per iniziare gli studi. E la mia cultura è ferma alle elementari. Però, con la grazia di Dio e tanta buona volontà, potrei anche farcela a diventare prete".

Ma ecco che il predicatore, accendendosi e accompagnando le parole con ampi gesti del corpo e delle mani, proseguì:

"E' Dio che ha bisogno della vostra bocca per parlare, del vostro cuore per amare, delle vostre mani per lavorare. Sì, perché non ci sono solo missionari sacerdoti, ci sono anche i Fratelli che predicano il vangelo con il lavoro delle loro mani, aiutando il missionario, costruendo scuole e chiese, insegnando agli Africani a coltivare la terra...".

Michele ebbe un sussulto. Ora il missionario parlava di lui; sentiva che quelle ultime parole risuonavano meravigliosamente nel suo cuore creando un'armonia dolcissima, per cui decise di aspettare il missionario per esprimergli quel suo sentimento.

"Hai la vocazione, ragazzo mio - gli rispose p. Sartori -. Una vocazione sicura al cento per cento".

"Il guaio è che io sono solo capace di condurre al pascolo le pecore e lavorare la terra".

"Questo non importa. Anche il profeta Amos, quando è stato chiamato da Dio, ha risposto: 'Non sono profeta né figlio di profeta; sono un pastore e raccoglitore di sicomori'. Eppure il Signore lo prese 'di dietro al bestiame e gli disse: Va', profetizza al mio popolo Israele'. Verrò io a parlare con i tuoi, e intanto sentiamo anche il parroco".

Le informazioni di quest'ultimo furono lusinghiere; quanto ai genitori...

"Visto che non è morto da bambino - rispose il papà - qualcosa del genere me l'aspettavo. Questo mio figlio è proprietà di Dio. Io glielo cedo più che volentieri, anche se mi è tanto caro, perché è buono e laborioso".

Michele espresse timidamente il suo nascosto desiderio di diventare sacerdote. P. Sartori gli rispose:

"Sei troppo grande per cominciare gli studi. E' meglio che tu diventi Fratello".

"Proprio come ho immaginato anch'io. Infatti sono state le parole sul Fratello coadiutore che hanno scatenato in me qualche cosa che non avevo mai provato prima".

Missionario

Per arrivare a Venegono Superiore, dove lo attendeva il noviziato, Michele dovette attraversare quasi tutta l'Italia. Pur sapendo di compiere la volontà del Signore, sentì tutto lo strazio del distacco dalla famiglia e dal paese. Per farsi coraggio rilesse quei passi della Scrittura che parlano di lasciare tutto per seguire il progetto di Dio... "Lascia tuo padre e tua madre e va' nel paese che ti indicherò... Chi lascia il padre e la madre per mio amore, avrà il centuplo in questa vita e la vita eterna in paradiso...".

Giunse davanti alla porta del castello di Venegono il 28 ottobre 1929; portava con sé una lettera di p. Sartori che garantiva per lui, e i documenti che il parroco gli aveva compilati. Portò, soprattutto, tanta buona volontà di riuscire.

"Se ce la fanno gli altri...".

In noviziato Michele dovette cambiare tante abitudini, dovette nutrirsi con cibi che al suo paese non c'erano... e quante volte rimpianse i prodotti della sua terra così gustosi e genuini, e il buon pane grosso che si tagliava a fette, e il vino generoso che ne bastava un bicchiere per metterti il fuoco nelle vene... Poi bisognava fare tanti lavori che al suo paese faceva la mamma, come preparare il cibo, lavare i piatti, pulire la casa.

"In missione potresti trovarti da solo - gli diceva il padre maestro - per questo devi saperti arrangiare in tutto".

Michele si trovava bene in chiesa a pregare, e si trovava bene anche con i compagni che si dovevano chiamare fratelli. Infatti erano proprio fratelli, sia perché condividevano il suo stesso ideale missionario, sia perché tutti si sforzavano di essere buoni e caritatevoli. Se qualcuno si arrabbiava, poi chiedeva scusa. Anche lui qualche volta si arrabbiò e seppe chiedere scusa. Allora il padre maestro gli diceva bravo, perché nessuno è nato santo, ma lo si diventa con la grazia di Dio, con lo sforzo e con l'esercizio costante delle virtù.

La vita missionaria, con tutti i suoi rischi, i pericoli e le difficoltà, cominciava proprio lì, da quelle piccole cose apparentemente insignificanti.

La resistenza fisica di Michele fu messa a dura prova dal terribile inverno del 1929. Un freddo così non si era mai sentito. La casa, allora, non era dotata di riscaldamento e Michele, che veniva dal Sud, soffrì in modo particolare. Scrisse ai suoi:

 "Non so se mi sto preparando al clima africano o a quello del Polo Nord. Il freddo, comunque, conserva sani e rafforza lo spirito. Sto bene e sono contento".

Fece la vestizione il 20 aprile 1930 ed emise i primi Voti l'8 maggio 1932. Durante il noviziato, Michele aveva imparato anche a costruire muri, a mettere i tetti alle case, a posare i pavimenti. Non era uno dei più bravi, ma si arrangiava. Soprattutto sapeva aiutare i più esperti di lui, e lo faceva con garbo e umiltà. Quanto invece alla coltivazione della terra, ne batteva più di uno. Egli era nato contadino. Che se poi ci fosse stato del bestiame da crescere, sarebbe stato insuperabile. Ma egli si accontentava di fare ciò che gli dicevano, e ciò che sapeva già lo teneva in serbo.

Prigioniero

Dopo i Voti, fr. Michele tornò al paese per salutare i familiari. Con la veste talare indosso e il grande crocifisso di missionario al collo, faceva una gran bella figura.

"Se penso alla tua vita - gli disse il papà - ho cento motivi per ringraziare il Signore; non avrei mai pensato che di un mio figlio volesse fare un missionario. Sono orgoglioso di te. Cerca di comportarti sempre all'altezza della tua grande vocazione".

"Con l'aiuto di Dio e della vostre preghiere".

"Queste non ti mancheranno di sicuro. Anzi ti raccomanderemo ogni giorno al tuo patrono san Michele. Egli, che ha fatto tanto per te prima che venissi al mondo, non ti abbandonerà per il resto della tua vita".

Ritornato a Verona, fu inviato dai superiori a Carraia (Lucca) dove c'era un piccolo seminario che preparava i ragazzi alla vita missionaria. Michele fu incaricato di tenere in ordine la casa. Egli, dopo aver disimpegnato le sue faccende, passava molto tempo nell'orto perché quei ragazzini non avessero da rimpiangere il cibo che preparava loro la mamma. Dall'orto si trasferiva alla cucina e dalla cucina al pollaio.

Trascorse in quella casa quattro anni sereni, vissuti nel lavoro, nella preghiera e nella cordiale compagnia dei ragazzi che da lui imparavano tante cose pratiche che sarebbero venute buone in missione.

Trascorse alcuni mesi nella casa di Troia. Il fervore mariano e il ricordo di p. Sartori, che egli ha sempre considerato come il padre della sua vocazione, erano ancora vivissimi. Approfittò per trascorrere lunghe ore davanti alla statua della Mediatrice a dirle tutto il suo grazie per il dono della vocazione e a pregare per p. Sartori che già da due anni era in Uganda.

Nel dicembre del 1936 fr. Michele poté finalmente imbarcarsi per l'Africa. Sua destinazione fu il Cairo, con il compito di fratello "ad omnia". Ma dava una mano anche nella chiesa del Sacro Cuore come sagrestano e spesso si prestava per assistere i ragazzi del Collegio. L'8 maggio 1938 emise i Voti perpetui. P. Ribero, che ricevette i Voti a nome del padre generale, scrisse:

"Ho il piacere di poter affermare che il detto fratello nella sua condotta religiosa è esemplare".

Eppure fr. Michele era un carattere forte: sapeva umiliarsi e obbedire, ma non si lasciava "menare per il naso". Un giorno, per esempio, il superiore gli diede un ordine ... bambinesco. Il fratello, con tutto il rispetto possibile ma con altrettanta determinazione gli rispose:

"Questa cosa, reverendo padre, la faccia lei se le sembra che sia da fare". E tutto finì lì.

Nel 1940 l'Italia aveva dichiarato guerra all'Inghilterra. Siccome l'Egitto era "anglo-egiziano" tutti gli italiani furono visti con sospetto dalle autorità. Anche fr. Michele dovette pagare il suo contributo alla cattiveria umana. Fu imprigionato e costretto a vivere in un convento di Francescani. Accettò la prova con rassegnazione, anzi, con gioia, dato che quel forzato riposo gli dava la possibilità di imparare la lingua araba. Gli sarebbe venuta buona ben presto.

Nella terra di Comboni

Nel 1949 fr. Michele Sergi venne inviato a Khartoum come "fratello addetto ai lavori di manutenzione del Comboni College". La sua gioia fu grande, perché si trovava nella terra che era stata testimone delle gesta del Fondatore. Ai confratelli di passaggio diretti al Sud (molti Comboniani desideravano il Sud sembrando, questa, una missione più genuina), Sergi diceva: "Va bene, va bene, voi sarete più missionari di me, io però sono più comboniano di voi".

Essere comboniano... Fin dai primi giorni fr. Sergi cercò di immedesimarsi nell'ambiente e di visitare i luoghi dove Comboni aveva lavorato ed era morto.

"Cosa farebbe Comboni al mio posto?", si chiese un giorno.

"Comboni amava gli africani più della sua vita... per essi avrebbe dato cento vite. Tra gli africani, la sua porzione prediletta erano i poveri, gli schiavi, gli oppressi dall'ingiustizia umana, i perseguitati... Per essi è morto di stenti proprio qui".

Meditando per giorni e settimane questi pensieri, ebbe un'intuizione. A Khartoum, città abitata in prevalenza da arabi, c'erano anche dei Neri, ed erano, in gran parte, i più poveri, gli emarginati. Egli sarebbe diventato il loro amico, il loro fratello, senza tuttavia escludere gli altri. Come? Il Signore glielo avrebbe fatto capire un poco alla volta. Una cosa, per il momento era certa: egli si era fatto missionario per gli africani, per i più infelici degli africani, proprio come Comboni.

Intanto cominciò come tutti, eseguendo gli ordini che gli venivano dal superiore, compiendo i lavori che gli erano assegnati, ed erano tanti.

A Khartoum fr. Michele ha trascorso 40 anni di vita missionaria. Non è facile elencare tutte le opere materiali realizzate in questo tempo. In un complesso edilizio di così vaste dimensioni c'erano sempre mille cose cui badare: chiesa, casa, scuole, cucina, lavanderia, officina, campo sportivo, internato... Molto spesso si trattava di aggiustare un rubinetto, di sostituire un vetro rotto, di costruire o abbattere un muro, piantare alberi, riparare porte o finestre, aggiustare banchi, tirare fili elettrici, spianare cortili...

Promozione umana

I nostro Fratello cominciò col crearsi una squadra di operai, reclutati principalmente tra i giovanotti venuti dal Sud in cerca di lavoro. Alcuni non avevano mai visto prima di allora un badile. Altri non conoscevano l'arabo, la lingua corrente a Khartoum. Tra loro parlavano lingue indigene, per lo più Nuer e Denka. Fr. Sergi, all'inizio, dovette esprimersi a gesti. Un po' alla volta afferrò alcune parole, poche frasi che poi rimuginava di giorno e di notte in quella confusione di lingue. Imparò i nomi degli attrezzi di lavoro poi, tra grasse risate da parte dei giovani, qualche altra espressione. Col passare degli anni il suo vocabolario si arricchì. Alla fine se la cavava in denka, nuer, scilluk, nuba.

Alcuni dei suoi ragazzi diventarono bravi operai, ottimi idraulici, provetti falegnami ed esperti meccanici. Insomma, stava portando avanti quella promozione umana che fa parte della missione.

Con l'aiuto di p. Giacomo Mosciatti, cerchiamo di fare un breve riassunto delle opere materiali eseguite dal Fratello. Negli anni 1965-66 realizzò un nuovo campo sportivo vicino all'aeroporto, i magazzini-deposito, il buffet e i servizi igienici, un campo di basket e valley ball in cemento; collaborò con fr. Laffranchi alla costruzione dei due laboratori di chimica e di fisica; nel 1974 costruì le autorimesse per i pullman e il camion della scuola; costruì il dispensario in muratura ad Hellat, la sala di medicazioni, l'ufficio e il magazzino.

Nel 1975 tirò su le prime due aule della scuola; nel 1976 costruì la nuova cappella in blocchi di cemento sullo stesso posto di quella antecedente.

Nel 1980 ha edificato altre aule, ciascuna con tetto in zinchi, più un'ampia veranda. Queste aule sono usate anche oggi con la media di 80 alunni per aula. Poi ha edificato due cappelle perché, accanto alla scuola, non doveva mancare la chiesa. La prima era in canne di papiro, la seconda, sul posto della prima, in blocchi di cemento, lastre di cemento sul pavimento e tetto di canne. Solo nel 1986 riuscì a edificare una chiesa vera e proprio sullo stesso posto. Misura metri 10 per 20, tutta in blocchi e tetto di zinco.

Al Comboni College ha costruito il cinema all'aperto, quattro campi di basket in mattonelle, salone e piscina per favorire lo sport. Fr. Michele amava lo sport e faceva di tutto perché i giovani lo praticassero. "Lo sport - soleva dire - tiene sano il fisico e soprattutto lo spirito, specie in questi climi".

Un vero amico

I rapporti tra i giovani e fr. Michele erano improntati a vera amicizia. Egli li amava ed essi sentivano questo feeling invisibile ma reale. Terminato il lavoro, li radunava per un po' di catechismo. E ben pochi si sottraevano. Questi ultimi, tuttavia, non perdevano la stima del Fratello. Ciò faceva un'ottima impressione su tutti.

Scrive fr. Abele:

"Sono stato 3 anni insieme a fr. Sergi. Non l'ho mai visto arrabbiato. Era sempre sereno, sorridente. Con gli operai pretendeva il giusto ed era molto comprensivo riguardo alla puntualità. Al mattino i mezzi di trasporto a Khartoum non sono sufficienti ed efficienti per cui spesso gli operai arrivavano in ritardo. Anche se i confratelli della casa brontolavano, egli sapeva tacere a questo riguardo. "I lavori sono tanti - si giustificava - e si fanno uno alla volta".

Sergi non era il tipo che strombazzava ai quattro venti ciò che faceva. Un giorno mi confidò: "A volte i frati non capiscono niente. Danno un ordine e pretendono che sia subito fatto; ma ogni giorno si fa quel tanto che si può e con la gente che si ha".

La sua bontà con tutti era mirabile; sapeva ascoltare e non era mai precipitoso nelle decisioni che mai prendeva senza essersi consultato con i suoi operai dei quali aveva molta fiducia. Questo suo modo di fare piaceva tanto agli operai che si sentivano coinvolti in pieno nei lavori e nella responsabilità".

Aggiornare il metodo

Fr. Michele è stato il primo "apostolo" di Hellat, zona a 20 chilometri a sud di Khartoum. Trasportava il Padre che doveva celebrare la messa nella prima cappella costruita dal catechista Marco Sual. Ben presto, però, divenne l'anima di tutte le attività che, una dopo l'altra, sorgevano nella zona.

Un poco alla volta le sue conoscenze si estesero, per cui tutti si riferivano a lui quando avevano bisogno di qualche cosa. Michele ascoltava, chiedeva, si consigliava, era, insomma, uno di loro.

Il Sudan, intanto, segnava di sangue la sua storia. Subito dopo l'indipendenza (primo gennaio 1956) cominciarono le scaramucce, specialmente al Sud. Esse, però, avevano i loro riflessi anche al Nord. Seguirono le persecuzioni vere e proprie con l'esodo dei Neri dal Sud verso il Nord.

Fr. Sergi capì che era venuto il momento di cambiare tattica di apostolato, di fare qualche cosa di nuovo per tanta gente che arrivava all'improvviso, senza arte né parte, senza risorse economiche, senza una casa e un lavoro... Situazioni da disperarsi, da lasciar cadere le braccia e mollare tutto. Non così per un uomo dalla testa quadra come lui. Ed è proprio da questa emergenza che nasce ciò che abbiamo definito "il miracolo Sergi". Un "miracolo" che ha messo in piena evidenza i muri maestri della spiritualità di questo Fratello: la fiducia in Dio, lo zelo apostolico e l'amore per i più poveri e oppressi, procedendo nell'alveo sicuro della più genuina combonianità.

Il club

Il club, che in lingua locale si chiama "nadi", costituisce il capolavoro di fr. Sergi. In questo è stato aiutato principalmente dai padri Vantini, De Bertolis e da qualche altro confratello, nonché da numerosi maestri e catechisti di varie tribù. Ma da altri è stato anche criticato. E fortemente.

Subito dopo la costruzione del nuovo club cattolico vicino all'aeroporto, fr. Michele si prese cura del vecchio club, al centro di Khartoum, a circa 300 metri dal Comboni College. Questo divenne il luogo di convegno dei lavoratori cristiani, con una frequenza di circa mille operai ogni sera.

Terminati i lavori in casa, che normalmente lo occupavano dalle 7 del mattino alle 3 del pomeriggio, fr. Sergi indossava la sua veste bianca, si metteva il casco in testa, e andava al "nadi" (club). Data la situazione di islamizzazione e, più tardi, di guerriglia, il club fu sempre più frequentato.

Alfabetizzazione e istruzione religiosa, centro studi, pre-scuola e dopo-scuola si concentrarono in poco spazio con un ordine e una funzionalità che ha suscitato le meraviglie di tutti. Ancora oggi non si riesce a capire quale sia stato il segreto di tanta riuscita. Sergi era un gran lavoratore, un perfetto organizzatore, un uomo di intensa preghiera, di regolarità cronometrica. Sapeva incoraggiare e, soprattutto, dava l'esempio di uomo di Dio e di fratello degli uomini.

Nella conduzione del club egli aveva tutto un suo stile: stimolava l'iniziativa, dava responsabilità, per cui tante attività erano autogestite dai partecipanti stessi. Egli si limitava a confermare, ascoltare e incoraggiare. Quando ce n'era di bisogno, correggeva e richiamava.

Sotto l'ombra di un albero

P. Vantini, amico oltre che confratello di Sergi, ci lascia di lui una bellissima testimonianza che riportiamo:

"...Fr. Sergi vedeva nei suoi operai anime da salvare. Un sorriso o una risata, un colpo sulla spalla, un vocabolo indigeno strapazzato, o qualche minuto di riposo all'ombra, servivano a creare amicizia, a suscitare curiosità anche sulla religione dello straniero in tonaca e casco.

'Chi è quello là?' (e indicavano il crocifisso o un quadro). Era l'inizio di una lezione elementarissima di religione cristiana. Poi il segno della croce, il nome di Dio (in nuer 'Kuoth' e in denka 'Nhyalic'), e il gesto per indicare che Kuot o Nhyalic ha fatto tutto ciò che si vede, era la seconda lezione. I lavoratori di Sergi diventarono suoi catecumeni: egli li istruiva trattenendoli dopo il lavoro, sotto l'ombra di un albero.

A coloro che imparavano tutte le domande e le risposte del catechismo elementare in lingua indigena e chiedevano il battesimo, fr. Sergi faceva dare il battesimo dopo uno, due o tre anni di tirocinio".

"L'editrice Sergi"

Fr. Michele usava i testi di catechismo composti negli anni '30-'40 dai primi missionari nel Sud. Più tardi, esaurite le copie e dopo l'espulsione dei missionari dal Sudan meridionale, Sergi si compose e si stampò i suoi testi, o ricopiando, o pregando qualche impiegato o sacerdote di tradurre dall'inglese, e pagando.

Lui stesso, poi, lavorando su una vecchia macchina da scrivere dotata di caratteri speciali per le lingue del Sud, batteva le matrici e le ciclostilava. Non sapendo scrivere a macchina, usava un dito solo, una lettera dopo l'altra, con una calma e una costanza incredibili.

Furono inizi umili, stentati. I libretti erano un mazzetto di mezze pagine tenute insieme da un uncino o due. Poi, "l'editrice Sergi", come la chiamavamo per scherzo, si fece più rispettabile. In vent'anni produsse opuscoli, sillabari, libri di lettura illustrati, vangeli, ecc. in una dozzina di lingue con una tiratura complessiva di oltre un milione di copie, tutte a ciclostile od offset.

Il suo primo collaboratore stampatore fu p. Gaetano Gottardi, poi p. Armando Ciappa. Alcuni sillabari e libri di lettura, in tiratura di 20 mila copie, furono esauriti in una settimana, e richiesti anche dai missionari protestanti.

Orecchie da mercante

Nei primi anni non mancarono a fr. Sergi le critiche per il suo sistema 'troppo meschino', 'l'insegnamento povero', specialmente dopo il Concilio.

Alcuni dicevano che occorrevano più libri, meno medagliette e rosari; più comprensione e meno memoria. Fr. Sergi fece le orecchie da mercante, cioè faceva quel che poteva, con i mezzi che aveva, e lasciava dire.

Negli anni '50, visto il promettente risultato, mons. Baroni, vicario apostolico di Khartoum, concesse a fr. Sergi l'uso di uno stabile - un cortile cintato con stanze e veranda - in centro città dove anni prima aveva avuto la sede il Club dell'Azione Cattolica. I discepoli di fr. Sergi cominciarono a riunirsi in quel club, e non più sotto gli alberi. Il club venne da allora conosciuto come il 'Club Sergi'.

Efficiente organizzazione

Gli operai di Sergi e tanti loro contribuli che lavoravano in città si davano convegno nel club, dove trovavano un posto decente per sedersi e conversare.

Dalle 3 del pomeriggio in poi, tutta quella massa di gente, che diventava sempre più numerosa, stava là invece di bighellonare per la città o riunirsi in altri luoghi moralmente malsani.

A molti importava avere dove dormire la notte, sia pure all'aperto. Non essendoci allora né un regolamento, né una tradizione, si verificavano episodi spiacevoli: alterchi a causa di qualcuno che rientrava brillo o saltava il muro dopo mezzanotte, oppure per il gioco alle carte o a domino, per incompatibilità tribale o per visite improvvise della polizia che piombava nel club alla ricerca di qualcuno, ecc.

Un po' alla volta questi inconvenienti furono eliminati. Fu proibito a tutti di passare la notte al club, di giocare a carte o a domino, di presentarsi ubriachi.

Sergi formò un comitato con un rappresentante di ciascun gruppo tribale presente nel club. Il comitato s'incaricò di risolvere tutti, o quasi tutti, i problemi di disciplina all'interno del club mediante il pagamento dell'iscrizione (il corrispondente di 50 lire italiane al mese), il controllo dei partecipanti, la responsabilizzazione degli incaricati. Nel giro di qualche settimana i tafferugli e le risse terminarono.

Attività del club

Il club era, ed è, frequentato normalmente da 1.000 a 2.000 soci al giorno. Si apre alla quattro pomeridiane e vi affluiscono operai, studenti, impiegati, sfaccendati; uomini e donne desiderosi di imparare qualcosa, cristiani e non cristiani.

Chi vuole leggere, legge (c'è sedia e luce); chi vuol fare quattro chiacchiere, può farlo liberamente; chi desidera fumare una sigaretta, se la fuma in pace (guardato con invidia da chi non può averla); chi vuole imparare può frequentare la scuola. Ci sono lezioni di arabo, inglese, aritmetica... a vari livelli.

Si comperano i libri (basta un libro, un quaderno e una matita). Una decina di giovani che si trovano allo stesso grado di cultura si siede davanti a un maestro da loro scelto e pagato con un salario simbolico, e si comincia la lezione.

Il club provvede lavagna, tavoli e panche. Una trentina di lavagne sono murate all'interno del muro di cinta. Ogni classe è all'aperto. L'una dista dall'alta un metro o due, senza paraventi o muri di divisione; e nessun gruppo si sente disturbato dal vicino, perché tutti cercano di parlare sottovoce.

Il metodo di insegnamento, per i primi elementi, è veramente povero: ripetizione pappagallesca di parole, ma a loro va bene così. Tante volte si è tentato di migliorare, ma non si è mai riusciti. Alcuni imparano benino.

Fr. Sergi metteva una cura speciale nel far istruire i ragazzi più piccoli che poi mandava a qualche scuola elementare regolare. I grandi, imparando a leggere e scrivere, uscivano almeno dall'analfabetismo.

Come tutta questa fiumana di gente riuscisse a organizzarsi e ad andare avanti senza inconvenienti, costituiva appunto 'il miracolo Sergi'. Ma non finiva lì.

Evangelizzazione soprattutto

Lezioni, dunque, fino alle 5 e 30. Poi rosario, per chi vuole; chi non vuole va fuori, in strada, liberamente e senza complessi. Alle 6 scuola di catechismo in lingue indigene o in arabo a seconda dei gruppi. Ogni gruppo, seduto attorno ad un tavolo, ha il proprio catechista che parla la sua lingua nativa. Se il gruppo aumenta, se ne fanno due o più.

Si impara tutto a memoria, parola per parola (metodo che fa torcere il naso a molti), ma è l'unico che funziona; hanno sempre fatto così ed è difficile cambiare. Bisognerebbe formare una nuova generazione di catechisti, e poi non è detto che il risultato sarebbe altrettanto positivo.

In capo a cinque, sei mesi sanno a memoria tutto il catechismo elementare e le preghiere nella lingua nativa. Se perseverano e chiedono il battesimo, i vari gruppi - di varie lingue - ricominciano un altro corso di catechismo, questa volta in arabo dialettale. Il catechista, a questo livello, è un sacerdote che espone tutta la Storia sacra, cioè il Piano di salvezza dalla creazione e, attraverso i profeti, fino alla vita, morte e risurrezione di Gesù.

Quando l'occasione si presenta, si sviluppa una lezione sui comandamenti di Dio e sui Sacramenti. Questo ripasso generale e sistematico si fa con l'aiuto di filmine. Nell'Avvento e in Quaresima, se è possibile, si proiettano dei films sulla vita di Gesù o sulla Storia sacra con il commento in arabo.

L'evangelizzazione fu sempre il "pallino" numero uno di fr. Sergi. Lui era e si sentiva missionario nel senso più evangelico della parola.

I catechisti

Per mandare avanti tutta questa macchina, nata dal cervello e dal cuore di Sergi, e controllata dalla sua costante presenza, occorrono i catechisti. Fr. Sergi se li è formati da sé. Quanti? Parecchie decine e sono tutti a 'part-time', cioè semivolontari in quanto ricevono dal Fratello una piccola remunerazione. Fr. Sergi radunava spesso i catechisti e impartiva loro lezioni speciali: spiegazione del catechismo, del vangelo, insegnamento sul modo di amministrare il sacramento del battesimo, come si visitano gli infermi all'ospedale o nelle loro case e sul modo di preparare i moribondi al trapasso.

Alle 7 e 30 il club chiude i battenti, la gente torna a casa e vi resta solo il guardiano.

Il tempo della messe

Pasqua, Natale e l'Assunta sono i tre appuntamenti dell'anno in cui i catecumeni, dopo essere passati attraverso le cerimonie liturgiche dell'iniziazione cristiana, ricevono il battesimo. E' il tempo della raccolta della messe, della soddisfazione che ripaga di tutte le fatiche sostenute.

Questo sistema di catechesi ha avuto inizio nel 1949 con una mezza dozzina di ragazzi. In poco tempo i partecipanti diventarono venti, poi trenta, poi cinquanta, poi cento per volta. Calcolando la media di cinquanta per gruppo con tre turni all'anno (150) e moltiplicando per 40 anni, si arriva intorno a 6.000 adulti battezzati. Oggi, col battesimo, viene data anche la cresima e la prima comunione. Agli sposati si fa rinnovare il consenso matrimoniale con la benedizione nuziale.

Come nella Chiesa primitiva

Calcoliamo ancora: una buona parte di questi neo battezzati, venuti nella capitale da tutte le zone del Sudan, prima o poi ritorneranno al proprio paese, specialmente quando la guerra al Sud sarà finita. Alcuni, provenienti da zone dove il missionario non è mai penetrato, saranno 'pionieri', i primi propagandisti presso i loro contribuli come ai tempi di san Paolo.

Alcune organizzazioni cattoliche di assistenza, come le tedesche 'Misereor', 'Missio' e la 'Caritas' italiana visitarono il club Sergi. Alcune fornirono aiuti per l'impianto delle tettoie che coprono tutto il cortile, e l'illuminazione al neon. Tutti furono d'accordo nell'affermare che un'iniziativa del genere non trova nessun riscontro in nessuna parte del mondo missionario.

"Davvero - scrive p. Vantini - fr. Sergi è stato un predestinato. Non era prete, anche se avrebbe voluto diventarlo, ma ha fatto più di un prete. Se oggi in tutto il Sudan migliaia di uomini e donne conoscono Cristo, sanno leggere e scrivere e riescono a guadagnarsi da vivere, lo devono a fr. Michele Sergi".

Significato profetico

Fr. Menegotto ha incontrato Sergi nel novembre del 1986 proprio nel club di Khartoum.

"Avevo tanto sentito parlare di lui, della sua opera, ma quando potei constatare il tutto con i miei occhi, rimasi sbalordito. La sua era un'esperienza di fraternità, di dialogo tra popoli diversi. Non c'erano solo Neri del Sud, ma arabi musulmani e perfino signorine arabe e copte. Insomma, un vero centro di cooperazione e di solidarietà, aperto a tutti senza differenze di razza, di colore, di cultura o di religione. Ciò ha un significato profetico in un Sudan dove la discriminazione religiosa e razziale sembra raggiungere il fanatismo.

Ad un certo punto mi disse che voleva parlarmi. Ci sedemmo e, per una buona mezz'ora, lui così taciturno, cominciò ad espormi le sue idee sulla formazione dei Fratelli. Cose concrete, avvalorate dall'esperienza, frutto di molta riflessione. Lo ascoltai con attenzione e, quando mi disse: 'Ho detto tutto', mi accinsi a formulare la mia risposta. A questo punto egli si alzò, mi ringraziò di averlo ascoltato e aggiunse: 'Quello che avevo da dire l'ho detto, ora fate voi; io non voglio sentire altro', e si allontanò. Subito rimasi così e così, ma poi conclusi tra me: 'E' vero, qualunque cosa gli avessi detto, non avrei cambiato nulla in lui, quindi sarebbe stato tempo perso. E lui tempo da perdere non ne aveva'".

Intensa vita religiosa

Nonostante i molteplici impegni, fr. Sergi visse la vita comunitaria con impegno e fedeltà. Era sempre presente agli incontri di comunità (anche se prolungati) e non mancava di fare frequenti visite in chiesa, immancabili quelle prima e dopo la visita al club. Da ciò si capisce dove traeva  tanta vitalità la sua iniziativa.

Alla domenica, poi, era in chiesa durante tutte le messe per vedere se tutto procedeva bene. E tutto con grande calma e un profondo senso di ottimismo. Nessuno lo ha mai sentito parlar male degli africani, soprattutto dei Neri.

Nei passaggi da un posto all'altro, bisbigliava preghiere e giaculatorie. Prima di parlare con la gente, parlava con Dio, con la Madonna, con il suo arcangelo san Michele. E le cose gli riuscivano bene.

Personalmente non aveva esigenze. Si accontentava del minimo indispensabile nel vestito e nel vitto. La sua stanza era estremamente povera e sempre aperta. L'unico mezzo di locomozione era una vecchia bicicletta. Non si concedeva cose superflue, né si lamentava se, qualche volta, mancava l'indispensabile. "Con tanti poveri che non hanno neanche da mangiare e da coprirsi - diceva - sarebbe un sacrilegio lamentarsi". I poveri erano diventati il suo termine di paragone. Logicamente la sua povertà si misurava con la loro povertà.

Una vita riuscita

P. Pietro Ravasio, che ha avuto col Fratello tanti incontri, ci lascia la seguente testimonianza:

"La figura di fr. Sergi è l'esempio di una vita riuscita in tutti i sensi. Era un buon religioso: se dovessi pensare a uno che sa stare alla presenza di Dio, mi riferirei a lui. Godeva di una calma imperturbabile, una serenità e una compostezza - aiutate esternamente dalla sua robusta struttura - che erano identiche sia nel lavoro come nella preghiera in chiesa. Insomma, ti dava l'impressione della solidità.

E' stato un missionario dalle dimensioni profetiche: attirava e otteneva la collaborazione dei confratelli sacerdoti nelle sue imprese. Di solito avviene in contrario. Sergi convinceva con la forza dei fatti. I Padri lo aiutavano sia per la catechesi, sia per la pubblicazione dei libri.

Sergi ha intuito prima di altri che l'emigrazione interna dal Sud verso Khartoum non era solo un fatto storico, ma un evento di Chiesa. Molti hanno percepito questo 'avvenimento' in modo astratto, lui è andato subito al concreto. Ed è questo che in lui colpisce: ciò che faceva andava a buon fine, riusciva insomma. Segno evidente che lo Spirito lo guidava nelle sue scelte. Proprio qui sta la differenza tra il suo modo di agire e quello di altri più preparati, più giovani, e magari con tanto di laurea o di diploma in tasca.

Riguardo al suo club devo dire che, in un apparente assoluto disordine, ogni gruppo linguistico seguiva il proprio programma, senza sentirsi disturbato o condizionato da altri. Sergi parlava poco, non dava ordini: era una presenza rasserenante e pacificante.

Infine ho pensato alle critiche ai suoi neofiti: 'poca catechesi, vita cristiana superficiale'. Ma penso alle Chiese locali esternamente molto più organizzate (non solo africane) e mi pare che siamo allo stesso livello.

Nel metodo Sergi, anzi, trovo parecchie analogie con la prassi della Chiesa primitiva, quella dei tempi apostolici... 'Ecco, qui c'è acqua; che cosa mi impedisce di essere battezzato?' (Atti 8, 36)".

Faccio la volontà di Dio

Quarant'anni di vita missionaria nel clima di Khartoum cominciavano a lasciare il segno. Fr. Michele Sergi si accorse che i suoi reni non funzionavano più come avrebbero dovuto. Forse le lunghe ore passate con i suoi giovani, dimenticandosi perfino di bere, ora gli presentavano il conto; o forse era giunta la sua ora. Fatto sta che, dopo aver lavorato fino all'ultimo, dovette mettersi a letto ed essere ricoverato all'ospedale.

L'imperturbabilità che lo aveva caratterizzato nella vita, gli fu compagna anche nella malattia. Quando il Padre regionale gli chiese se volesse gli oli degli infermi, espresse il desiderio di riceverli subito insieme agli altri sacramenti.

"Se Dio mi chiama - disse - sia fatta la sua volontà".

Dopo aver fatto tutte le sue cose con calma e padronanza di sé, entrò in una intensa preghiera fatta di giaculatorie e di invocazioni. Chiamava Gesù, Maria san Giuseppe  e il suo patrono san Michele. Ad essi raccomandava la sua anima.

Il 29 novembre ebbe un leggero miglioramento: era il miglioramento della morte. Egli, infatti, sapeva benissimo che la sua partita era chiusa, e accettava l'evento con la serenità di sempre.

Verso le 3 del mattino del 30 novembre, nonostante le dodici iniezioni per sbloccare i reni, cominciò il suo declino. Fr. Abele e suor Maddalena gli chiesero come si sentisse.

"Faccio la volontà di Dio", rispose con la concretezza di sempre.

Verso le 4 fr. Abele gli disse:

"Sergi, stai peggiorando; forse quest'oggi sarai in paradiso. Vuoi che preghiamo insieme?". Sapeva che queste parole non avrebbero impressionato il malato. Poi guardò il confratello. Il suo volto era sereno, rilassato. Sergi rispose con un cenno della testa perché ormai faticava a parlare e alzò lentamente le mani, allargandole, come per ripetere la frase che aveva pronunciato tante volte e che ora costituiva il sigillo della sua vita: "Sia fatta la volontà del Signore".

Alle 4,30 fr. Abele chiamò suor Orlanda e, insieme, decisero di far venire p. Grumini essendo le condizioni del malato proprio gravi.

Recitarono le preghiere degli agonizzanti... Un quarto d'ora prima della morte fr. Michele non dava più segni di capire. Lo chiamarono, ma non rispose. Era entrato in una lenta e serena agonia. La frequenza del respiro diminuiva e il cuore rallentava i suoi battiti.

Commossi, i confratelli lo guardavano trattenendo le lacrime. Erano, nel frattempo, arrivati anche molti altri che bisbigliavano preghiere e invocazioni.

Alle 5,50 di quel 30 novembre fr. Michele Sergi spirò senza scosse e senza sussulti. Il commento unanime fu ancora tratto dalle parole della Scrittura: "Questa è la morte del giusto, di colui che ha confidato nel Signore".

***

Alle 4 del pomeriggio di quello stesso giorno, la cattedrale di Khartoum era gremita di gente di tutte le razze e di tutte le religioni per dare l'ultimo saluto a fr. Sergi. Oltre ai sacerdoti, ai Fratelli e alle suore c'erano tanti poveri, coloro che il Fratello aveva tanto amato.

L'arcivescovo di Khartoum, al massimo dell'emozione, non è riuscito a dire una parola. Egli aveva accompagnato il Fratello durante tutto il suo calvario della sera prima, visitandolo all'ospedale e vegliando per tutta la mattinata la sua salma esposta nella cappella del Comboni College.

Mons. Macram, durante l'omelia, ha presentato a tutti i missionari, e in particolare ai Sudanesi, la santità di fr. Sergi che ha saputo donare tutto se stesso, con umiltà e amore fino all'ultimo respiro.

Ora il suo corpo giace in quella terra che ha accolto l'ultimo riposo di mons. Comboni, a intercedere per il Sudan e per i Neri che stanno vivendo giorni di grande sofferenza. Siamo sicuri che la sua morte è un segno di speranza e un invito alla pace e alla concordia per il suo popolo ancora tanto tribolato.                             P. Lorenzo Gaiga

Da Mccj Bulletin n.163, luglio 1989, pp.46-60

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FR. MICHELE SERGI: EVANGELIZZATORE A KHARTOUM

vedi anche l'articolo di P. Pietro Ravasio in:  Mccj Bulletin n. 261, ottobre 2014, p. 159-175