In Pace Christi

Covi Luigi

Covi Luigi
Geburtsdatum : 11/06/1900
Geburtsort : Arco TN/I
Zeitliche Gelübde : 01/11/1919
Todesdatum : 14/11/1920
Todesort : Thiene VI/I

            "Io, Covi Luigi, figlio del fu Giovanni e della viva Anna Andreollo, nato ad Arco, diocesi di Trento, il giorno 11 giugno1900, provenendo dalla scuola apostolica di Brescia, sono entrato nella casa dei Figli del Sacro Cuore in Savona il 27 settembre1917 e ho vestito l'abito religioso il giorno 1° novembre dello stesso anno" (Libro del Noviziato, no. 306). P. Faustino Bertenghi, maestro dei novizi, aggiunse: "Fece i voti il l° novembre1919 + Morto santamente a Thiene il 14 novembre 1920 dopo aver ricevuto tutti i Sacramenti e fatto i voti perpetui. Era stato malato di tifo fino dai primi d'agosto e morì di peritonite fulminante, essendo in piena conoscenza fino all'ultimo respiro".

            Richiesta nel 1941 di qualche ricordo dell'infanzia del suo "missionario", la mamma rispondeva: "Ben volentieri e con gioia assumo l'incarico, come posso e sono capace alla mia tarda età. Manderò quanto desidera sapere riguardo al mio carissimo figlio Gino, ora vivente in paradiso. Non è un lavoro facile, dopo tanti anni, ma frugando e scrutando nella memoria assai invecchiata, metterò in carta quanto ricordo, pregando di compatirei miei spropositi e l'ortografia". Raccogliamo questa preziosa testimonianza.

            Le due famiglie da cui discendevano i genitori erano note per la loro fede profonda, e avevano dato alla chiesa parecchi sacerdoti e suore. Nella famiglia della mamma, oriunda della Valsugana, si conservava la tradizione di aver ospitato San Benedetto Giuseppe Labre quando vi passò in viaggio verso Roma.

            Gino, di costituzione sana, ma meno robusto dei suoi fratelli, fu sempre vivacissimo. Non era però cattivo, ma molto furbo e sfrenato nel gioco. Più volte mise in pericolo la stessa vita. Le scale di casa, abbastanza lunghe, le faceva in quattro salti, mai i gradini uno ad uno. Aveva sempre fretta in tutto. Corse sfrenate in bicicletta. Allegro, anche dopo un castigo, ci faceva sopra una cantata. Una volta, per castigo, la mamma lo chiuse in un bugigattolo. Vedendo che la mamma tardava ad aprire, montò sulla finestra, da cui con un salto si poteva raggiungere una terrazza. D'un balzo approdò sano e salvo. "Fu un momento terribile per me e per quelli che nella sottostante piazzetta l'avevano visto. Sotto c'era un vuoto di sedici metri. Ma lui come niente fosse se la diede a gambe".

            Una volta, giocando a "bandiera" in piazza con i compagni, nella sua solita corsa sfrenata, andò a cozzare di testa contro il podestà che vi arrivava passeggiando lentamente. Fatalmente quel signore, pochi giorni dopo, mori di paralisi, quindi non certo per l'incidente subito, come dicevano tutti. Ma Gino si chiedeva: "L'avrò ucciso io?"

            Provava gusto nel prendere in giro la gente. Faceva dei pacchetti fasulli, ci metteva dentro carta, sassi e qualche volta un topo, e li lasciava qua e là sulle panchine dei giardini. Uno di tali pacchetti se lo portò a casa la signora di un avvocato, mentre Gino l'osservava da lontano tra le piante.

            Stava un giorno giocando con gli amici e facendo molto chiasso, quando un signore tedesco che abitava in casa nostra, lo sgridò e gli disse che l'avrebbero mandato lassù, nei collegi tedeschi, per insegnargli l'educazione. Ma lui rispose: "Non mi pigliano i tedeschi. Io vado in giù" , facendo segno verso mezzogiorno.

            Era sempre franco nel parlare, bene o male, anche offendendo. Una volta venne a farci visita il cappellano, e si lamentò che Gino non gli scrivesse mai (forse quando era già a Brescia). E lui gli rispose in latino: "Medice, cura teipsum".

            L'ultimo anno che la mamma lo condusse per l'iscrizione al nuovo anno scolastico, il direttore chiese a tutti: "Siete contenti che siano terminate le vacanze?". Tutti a dire: "sì, siamo contenti". Lui invece disse: "No, perché le vacanze sono sempre poche". Tutti i maestri risero, aggiungendo però: "Tu solo dici la verità".

            Faceva tutto in fretta, anche i pasti, e la mamma doveva farlo aspettare finché avessero finito anche gli altri, prima di passare un altro piatto. Per istrada, cantava sempre, specialmente la sera verso le nove, ritornando dal ricreatorio parrocchiale. La sua canzone preferita era: "Tripoli, bel suol d'amore".

            Se qualche giorno faceva inquietare la mamma più del solito, quando si ritirava nella sua camera, prendeva dalla pila l'acqua santa e cospargeva letto, pavimento, muri dicendo: "Adesso il diavolo non può venire".

            La mamma teneva la frutta in una stanzetta, chiusa a chiave, ma più volte s'accorse che ne mancava. Chissà chi era il ladruncolo. Finalmente scopri che era Gino, aiutato però dal fratello Enrico. La stanzetta aveva la finestra che dava sul tetto, ed essi dal tetto si calavano giù, aiutandosi l'un l'altro, e facevano buone provviste, specialmente di prugne secche.

            A sette anni rimase orfano di padre, onesto negoziante di ferramenta stimato da tutti per la sua rettitudine. Quell'anno fece anche la prima comunione, e l'anno dopo la cresima. Non era però ancora in uso la comunione frequente, e quindi la faceva una volta al mese. Frequentava regolarmente le funzioni e la dottrina, e fu sempre chierichetto e amico dei cappellani. Tanto lui che suo fratello avevano sempre da studiare commedie.

            Quanto alla scuola, riportava sempre buone classificazioni, ma la mamma aveva l'impressione che non dimostrasse grande intelligenza. Premi allora non si usavano. Spesso voleva fare da prete e celebrare la messa: preparava la scrivania come altare, l'album delle fotografie serviva da messale, un bicchiere da calice. Si faceva dare dal sagrestano i ritagli delle particole, poi invitava gli amici e tutta la famiglia, ed eseguiva le cerimonie con compostezza, dava la comunione: "era una vera commozione", commenta la mamma.

            Qualche volta saliva su una botte o altro posto elevato, chiamava tutti ad ascoltare la predica, che declamava mescolando fatti di Napoleone con quelli dell'antico testamento. E tutto ciò prima che si sviluppasse in lui la vocazione.

LA VOCAZIONE MISSIONARIA

A 12 anni Gino era a capo d'una allegra brigata di compagni che si erano proposti di aiutare le missioni col raccogliere offerte, francobolli usati, ecc. e specialmente diffondere La Nigrizia. Il Signore si servì appunto di questa rivista per gettare nel suo cuore i germi della vocazione missionaria.

            Gino era ormai nel tredicesimo anno d'età. Una sera si trovava nella stanza della mamma, accanto ad essa che lavorava di cucito. Teneva l'occhio fisso su una illustrazione della Nigrizia, quando d'improvviso scoppia in un gran pianto. La mamma stupita gli chiede: "Cos'hai, Gino?" "Mamma, vorrei diventare missionario d'Africa" "Sì - rispose quella - va bene, basta sia la volontà del Signore. Per ora prega e consigliati con qualche sacerdote".

            Qualche giorno dopo Gino apriva tutto il suo animo al suo assistente e lo pregava che "gli insegnasse a diventare missionario". Ai primi di settembre di quello stesso anno 1913 entrava nell'Istituto Comboni di Brescia, pieno di gioia per aver raggiunto la meta sospirata, perché quegli aspiranti già si sentono missionari.

            Con le sue belle doti di mente e di cuore diede subito buone speranze di ottima riuscita. Aveva grande facilita e amore per lo studio, per cui era sempre tra i primi. E riusciva in tutte le materie, per cui non si può dire in quale trovasse difficoltà o maggior gusto. In terza ginnasiale già componeva dei temi in poesia, incoraggiato dal suo professore, il gesuita P. Negri del Collegio Arici. Aveva grande passione per la meccanica. Era questa l'arte preferita di tutti i suoi familiari. Anche la musica lo attraeva, e in terza, avendo riflettuto che in missione poteva tornare utile saper suonare qualche strumento, iniziò lo studio del piano e dell'armonium. Ricordo il giorno in cui prese questa decisione, e ottenutane l'approvazione, vi si mise con tanto impegno che in poco tempo poteva accompagnare i nostri canti in chiesa e poi anche al piano.

            Sempre allegro, generoso, gioviale con tutti, lo si poteva vedere risentito per giusti motivi, ma non mai arrabbiato o dispettoso con i compagni. Era di esempio agli altri, e tutti lo stimavano. Tra gli inconvenienti della guerra, c'era anche la impossibilità per alcuni aspiranti trentini di mantenere contatto con le loro famiglie. Tre di questi che, a giudizio dei superiori avrebbero dovuto essere dimessi, restarono nell'Istituto data l'impossibilità di rimandarli in famiglia. Nel loro malcontento, si radunarono un giorno loro tre in fondo all'orto per discutere i loro piani. Un tipico burlone, che trovava modo di mettere in ridicolo anche le cose più serie, ne approfittò per scrivere una filastrocca in versi, e senza che alcuno sapesse di che si trattava, la fece cantare la sera, su un'aria popolare, da tre o quattro, tra cui Covi, leggendo le parole dall’unico foglio scritto dall'autore. La prima strofa, alludendo al loro raduno in fondo all'orto, diceva:

            E tre trentini andavano

            un giorno disperati

            a congiurar nel fondaco

            a congiurar da matti.

            Seguiva il ritornello in dialetto bresciano (quello dell'autore) ripetuto sei volte al plurale: "mac, mac, mac" (matti).

            L'autore della filastrocca si era aggregato anche Covi, per il suo buon orecchio e facilità per la musica. I tre presi di mira se l'ebbero a male, ma il loro più grande dispiacere era che anche Covi si fosse unito al gruppo. Egli si scusò dicendo che non sapeva neppure di che si trattasse, né aveva letto prima le parole. Ed era vero.

            Ma fin d'allora la dote che spiccava sopra tutte era proprio il suo equilibrio, la padronanza di sé, la sicurezza nell' esprimersi, la tenacia nelle sue idee; ma non era ostinato, pronto a ricredersi appena s'accorgeva di aver torto. Cordiale, espansivo, caritatevole, esemplare per pietà e condotta.

            Al termine della quarta classe ginnasiale, riportava i seguenti voti, come dalla pagella in data 1 luglio 1917: Religione 9; Italiano 8, 9; Latino 8, 9; Greco 9, 9; Francese 8, 7; Matematica 8; Storia 9; Geografia 8; Storia naturale 9. In settembre dello stesso anno, dato il tempo di guerra, passava direttamente al noviziato di Savona, in una villa sul declivo della collina di Valloria, dal colore detta "Villa Rosa". Un tipo come lui le cose le prendeva sul serio. Non occorre citare i suoi scritti, del resto comuni a quasi tutti i novizi, e basterà quanto hanno attestato di lui chi lo diresse in quegli anni e in seguito. Basti ricordare che sull'esempio del suo padre maestro, vero formatore e trascinatore di giovani, si applicò decisamente a una rigida ascesi sulle tracce del P. Ginhac, S.J. cui P. Bernabe si ispirava nella formazione dei novizi.

            Singolare un suo pensiero sull'Eucaristia: "Gesù e il primo cittadino di Savona: ha il suo palazzo, ma quanti pochi vanno a visitarlo. Gesù è il primo membro della comunità, è il capo di casa, il superiore che vive sempre vicino a noi: ha la sua stanza e sta lì aspettando che andiamo a visitarlo".

            Uno dei punti principali presi di mira è la moderazione della lingua. Non tanto per le mancanze di silenzio, ché in questo era esemplare, quanto per il troppo parlare durante le ricreazioni. Aveva lo scilinguagnolo sciolto, da avvocato: parlerebbe sempre lui. C'è del difettoso, lo riconosce e vuole correggersi ad ogni costo. "Il difetto che mi è più comune e che mi cagiona più gravi danni è quello di parlare e parlare, senza pensare a quello che mi esce di bocca. Questo difetto devo tog1ierlo, dovesse costarmi anni di fatica". E si propose vari rimedi, proponendosi persino di mettere qualche "grano" in bocca. Ma era un proposito esagerato. Parlare poco, vegliare sulle parole, passi. Ma parlare lentamente, misurando le parole? Non sarebbe stato più lui. Non era poi un difetto cosi pernicioso in noviziato, quando tra due o tre alcuni non sapevano cosa dire.

            Il 7 novembre 1919 i neoprofessi arrivarono a Verona. Gino iniziava così il suo scolasticato e l'ultimo anno della sua vita. Dedito alla pietà, senza affettazione, diligente in tutto, pieno di zelo e carità e sempre allegro. Studiosissimo di tutto, ma in modo particolare della lingua inglese, che aveva iniziato con profitto a Savona, approfittando delle visite di qualche soldato irlandese, a Verona volle intensificarne lo studio. Faceva in inglese sunti delle materie scolastiche. Un giorno il Prof. Zamparo gli chiese il quaderno delle traduzioni di Cicerone. Era scritto con proprietà e diligenza, ma tutto in inglese. Gino gli disse subito anche il motivo, e il professore disse soddisfatto: "Mi piace, mi piace! "

            Alla fine del noviziato aveva messo sotto la protezione di Maria i suoi propositi: "Fatemi generoso e fedele". La devozione alla Madonna, che sempre aveva alimentato la sua vita Spirituale, si arricchì e, possiamo dire, si sviluppò in pieno negli ultimi mesi della sua vita. Il 23 maggio 1920, nel suo desiderio di offrire alla Vergine qualche cosa che gli costasse davvero, propose e scrisse nel suo libro dell'anima: "Per amor vostro e per mostravi quanto vi amo, non berrò mai una goccia d'acqua fuori dei pasti; eccetto una tazza verso le 7 pomeridiane". Ma subito sotto si legge la postilla: "Ordine di P.Vianello: bevi quando hai sete".

            Intanto si preparava alla consacrazione totale alla Vergine secondo il metodo di S. Luigi Maria Grignion di Monfort. Ne prese l'impegno il 6 giugno 1920, durante un giorno di ritiro, ma si riprometteva di fare la consacrazione ufficiale il giorno dell'Immacolata dello stesso anno. Scriveva infatti alla sorella Mira: "Ti dò l'incarico di mantenere sempre almeno un fiore a nome mio davanti a un quadro della Madonna che tu sceglierai. Questo lo farai fino all'otto dicembre di quest'anno. Il perché te lo dirò un'altra volta. Fammi questo piacere. Ne sono sicuro. Grazie".

            Ma se fratel Covi faceva i suoi conti così generosamente con la Madonna, Essa pure veniva preparandolo perché potesse percorrere in breve tempo la via della santità. Fin dai primi mesi del1920 si notò in lui un fervore straordinario, pur senza dare troppo nell'occhio. Quello che più si notava era la frequenza di colloqui col P. Vianello, padre spirituale. Forse ogni giorno. Cosa gli diceva? Cosa gli chiedeva? Par di vederlo, verso sera, qualche volta anche dopo le preghiere, picchiare a quella porta, vederlo entrare e sentirlo dire: "Padre, m'insegni dunque ad amare il Signore!".

            Così almeno si esprime P. Vitti. Ma l'ultima pagina del suo libro dell'anima, scritta il 6 giugno, in preparazione alla festa del S. Cuore, va molto oltre. Scrive infatti: "Io voglio e devo diventare santo. Io, coll'aiuto di Maria, voglio diventare il S. Luigi della Congregazione dei Figli del S. Cuore. Questa mattina mi sono donato interamente al S. Cuore per le mani di Maria, che da un pezzo mi prepara. Gli ho giurato di non pensare più a me stesso, ma a Lui solo, e a farmi santo, lasciando a Lui ogni pensiero per me. Ora, Gesù, non voglio negarvi più nessun sacrificio che Voi mi chiediate, non voglio rifiutarvi più nessuna ispirazione vostra, voglio pensare a Voi solo e farmi santo, amando Maria con tutte le mie forze. In questo mese, non concederò nulla al mio corpo e farò tutte le mie azioni con Maria, cercando di mortificarmi in tutto. Voi, Gesù, datemi la fedeltà, e mantenetemi sempre persuaso che io da me stesso non posso far nulla di bene".

            Così termina il suo libretto. Come segno, nella stessa pagina, c'è un'immagine di Gesù morente. E fratel Covi scrisse in alto di sua mano: "Io non voglio avere altra consolazione che quella di soffrire per Gesù". E sotto:

            "Fior di verbena

            l'amor di Dio per me

            sia una catena!"

Segue la data: 21.6.1920.

TRAMONTO

            Nel mese di luglio 1920 gli scolastici si trasferirono per le vacanze a Thiene, nella casa da poco acquistata a S. Gaetano, dove fu poi il seminario minore di Padova. Gli scolastici Uberti, Simoni e Covi restavano a Verona per ultimare alcuni lavori. In questo tempo Covi scriveva di frequente, sempre inculcando in modo straordinario la devozione alla Madonna. Sembrava infatuato. Il 14 agosto partono per Thiene i tre scolastici insieme al Padre Meroni, Superiore Generale, per celebrare nel giorno dell'Assunta il 25° di messa del P. Vianello: ci furono canti, suoni e poesie, cui contribuì anche Gino.

            Qualche giorno dopo gli scolastici fecero una lunga passeggiata al monte Summano, dove c'è un bel santuarietto della Madonna e ricordi della recente guerra. Uno dei sacchi gravò sempre sulle spalle di Gino, né volle cederlo ad alcuno. Alla sera, giunti a casa, non si sentiva bene e si mise a letto: aveva 39 di febbre. Il giorno dopo ancora febbre alta. Il medico dichiarò trattarsi di tifo: probabilmente il germe se l'era portato da Verona, ma lo strapazzo della passeggiata diede il tracollo. La malattia subì il suo corso ordinario: febbre alta, delirio frequente. Allora non era ancora stato scoperto l'antidoto contro il tifo. Ad assisterlo come infermieri si alternavano Fratel Motter e P. Moresco, ancora scolastico. Lui attendeva rassegnato la volontà di Dio, sperando sempre nella guarigione. Pregava spesso, anche nel delirio. Si atteneva a tutte le prescrizioni. Una mattina gli fu portato il viatico. Era disteso sul suo letto, ma ormai era ridotto ad uno scheletro e non lasciava più speranza di guarigione. Quello stesso giorno gli scolastici andarono in pellegrinaggio al santuario di S. Giuseppe di Malo per chiedere la grazia. Infatti al ritorno sentono dire che sta un po' meglio: era superata la crisi e pochi giorni dopo era fuori pericolo.

            Il 14 settembre erano giunti a Thiene P. Vignato, superiore a Verona, la mamma e un fratello di Gino. La mamma restò per assisterlo. Gli scolastici tornarono a Verona il 17 settembre. L'ammalato invece restò, ma decisamente avviato alla convalescenza. Intanto si erano formate, per il lungo decubito, delle piaghe dolorosissime e vaste che ritardarono la desiderata guarigione. Era sempre assistito tutto il giorno anche dalla mamma. Verso i primi di novembre il suo stato andava migliorando e fu deciso di trasferirlo dalla sua stanza posta a nord, ad un'altra più ariosa che metteva sul cortile d'entrata a sud.

            "Cosa sia capitato alla fine per rapircelo (scrive P.Matteo Michelon allora superiore a Thiene), quando si credeva di averlo salvato, non potrei spiegarmelo che a questo modo: o il medico permise di somministrargli qualche cibo solido, o gliene fu dato in quantità o qualità fuori dell'ordinario; sta il fatto che il ventre cominciò a gonfiarsi enormemente e il medico al suo arrivo dichiarò che si trattava di peritonite forse multipla. Dopo due giorni, confortato dai Sacramenti, spirò fra le braccia della mamma, alla nostra presenza".

            Durante la malattia P. Vianello, quand'era ancora a Thiene, lo visitava spesso e qualche volta fr. Covi gli diceva: "Chissà se guarirò". Il Padre lo incoraggiava e rispondeva: "Non temere guarirai e sarai un grande missionario!" Grande missionario, ma non salpando i mari o varcando i deserti africani, ma ora col sacrificio e poi dal cielo colla sua preghiera e intercessione.

            Fu sepolto nel cimitero di Thiene, in una fossa ordinaria. Nell'aprile del 1921, per desiderio della mamma, la salma venne esumata e portata nel cimitero di Arco. La mamma descrive la commozione di quel solenne trasporto: "Il funerale riuscì commoventissimo. Vi prese parte tutto il clero e le associazioni cattoliche. I giovani e le giovani cantarono una bellissima Ave Maria. Al termine della funzione l'arciprete chiamò forte, Gino, e lo pregò che con la sua salma portasse in patria anche il seme di altre vocazioni, tanto desiderate. In quel tempo nessun giovane sembrava volesse avviarsi al sacerdozio, e ciò era di grande afflizione per l'arciprete. Parve che Gino avesse ubbidito alla voce del suo pastore: lo stesso anno parecchi entrarono in seminari e istituti religiosi".

            La stessa mamma scriveva il 18 marzo 1941: "In questi giorni ho ricordato qualche cosa che riguarda il caro Gino. Ricordo che il P. Michelon, superiore della casa di Thiene, nel tempo in cui Gino passò la sua malattia e morte, era afflitto per la scarsità di giovanetti aspiranti: erano allora una trentina. Mi scrisse più tardi che aveva tanto raccomandato il bisogno a Gino, non so se mentre era ancora in vita o dopo: ma con sua grande consolazione, nel tempo di circa tre mesi, dopo la dipartita del confratello, gli apostolici aumentarono fino a quasi una settantina. P. Michelon me lo scriveva a mio conforto. È evidente, egli diceva, che il caro defunto aveva implorato la benedizione sulla scuola apostolica di Thiene".

            E la mamma, dopo aver ricordato che alcuni dei giovani avviati al sacerdozio erano già stati ordinati, "e se il Signore compirà l'opera sua in breve tempo avremo in Arco e sobborghi un soddisfacente numero di sacerdoti", conclude: "Non le pare, Padre, che Gino abbia fatto la sua parte di missionario presso il Sacro Cuore in questi due casi? Io lo credo". E conclude la sua lettera del 17 febbraio 1941: "Non so se con questo sarà contento; se ho fatto bene e secondo il suo desiderio, ho fatto come sono capace. Certo le avrò fatto esercitare la pazienza; in tal caso ne avrà merito; perdoni. Se avrà bisogno d'altro, lo faccia con libertà: faccia conto che avendo avuto un figlio missionario amo tutte le missioni, specie quelle del servo di Dio Mons. Comboni. I periodici mi vengono regolarmente ed entrano in casa mia come venisse Gino a trovarmi, e così finisco".

            Il 22 marzo dello stesso 1941 informava di aver sofferto per una lunga pleurite, per cui doveva avere molti riguardi, e si raccomandava alle preghiere dei missionari "per questa mia malattia che probabilmente sarà l'ultima". Auspicava di poter vedere pubblicato quanto era stato raccolto sul suo Gino prima di morire, ma non le fu concessa questa pur legittima soddisfazione materna.

            A conclusione, diamo le testimonianze relative ai due protagonisti di questa storia. Sono il migliore encomio di madre e figlio.

PREGHIERA DELLA MAMMA IL GIORNO DELLA PROFESSIONE DI GINO COVI

            Signore! Io povera peccatrice, vostra creatura e mamma di Gino, vi offro generosamente e consacro al Vostro amatissimo Cuore questo mio figliolo, desiderando dal fondo dell'anima mia, ch'egli vi sia sempre fedele nei voti da lui pronunciati, ma sopra tutto ch'egli sia sempre vostro, tanto che per la Vostra gloria sia pronto e generoso a dare il sangue e la vita in quel modo che a Voi piacerà, fosse anche il martirio. Voi l'avete voluto figlio del Vostro Cuore, io generosamente e con santa letizia rinuncio a lui, beneditelo e santificatelo.

            Benedite ed abbiate pietà anche di me misera vostra creatura.

            Arco, Festa d'Ognissanti 1919

            In questo giorno il mio caro Gino pronunciando i santi Voti diviene Figlio del Sacro Cuore.

LETTERA DI P. VlANELLO ALLA MAMMA, DOPO LA MORTE - Verona,15.11.1920

Preg.ma Signora,

            il nostro caro Gino, l'angelo nostro è dunque volato al cielo! .... Le nostre preghiere, i nostri voti, le nostre lacrime non hanno giovato a trattenerlo fra noi ... , la Madonna, la dolce Vergine Immacolata, lo ha voluto con sé in paradiso! Ebbi stamattina la dura notizia: la ebbi prima di uscire colla S. Messa: ho fatto in tempo d'unire il mio sacrificio, il sacrificio del mio cuore, a quello di Gesù e li ho offerti entrambi per l'anima benedetta del nostro caro figliuolo! Non ci resta, ottima Signora, che adorare in silenzio le disposizioni di Dio, sempre ammirabili. Egli ha preferito Gino a noi, la felicità di lui alla soddisfazione nostra! Ma Gino è in Paradiso!.... ecco il nostro più grande conforto in questo momento: lassù Egli ci ricorda, Egli prega per noi! sì, è in Paradiso, io credo di poterlo dire meglio di ogni altro, io che ne ho conosciuto lo spirito bello, che ho penetrato fino le più intime fibre dell'anima sua.

            Si consoli, ottima Signora; Lei, la famiglia, la Congregazione hanno un protettore di più nel cielo!

            Mentre mi unisco con Lei, e coi suoi buoni figlioli, a pregare per il carissimo defunto, invoco su di Lei, e sui medesimi, dal Cuore SS. di Gesù la pienezza dei divini conforti, confermandomi Suo Dev.mo servo P. Federico Vianello fsc

LETTERA DI p. VIANELLO ALLA MAMMA, DOPO IL TRASPORTO DELLA SALMA Verona, 18.4.1921

            Preg.ma Signora,

            Ricevuta la sua cara lettera ed il giornale colle partecipazioni del trasporto del nostro carissimo Gino, vivamente la ringraziamo. Abbiamo preso viva parte alla pietosa e devota cerimonia, l'esito della quale ha ricolmato di conforto il nostro cuore. Com'Ella nel suo immenso dolore pure deve sentirsi ognor confortata al pensiero di aver dato un angelo al Paradiso, così noi andiamo fieri sempre più d'aver avuto da Lei un piccolo santo, che ci ha edificato colle sue grandi virtù, il profumo delle quali vive tra noi al presente così forte, come al primo giorno della sua scomparsa.            Mentre adoriamo nuovamente il Signore, sempre ammirabile nelle sue disposizioni, aspettiamo grazie dal cielo per noi, per le opere nostre e per la sua cara Famiglia, dal nostro giovane Santo. A Lei, ai suoi figli, i nostri distinti ossequi e ringraziamenti.

            Dev.mo servo - P. Feder.Vianello fsc

NECROLOGIO DI NIGRIZIA 1920 (p. 192)

            A soli vent'anni, nel più bel fiore della vita e delle speranze, volava a Dio il 14 novembre 1920 il nostro carissimo chierico

G I N O   CO V I

            Dotato di bella intelligenza, di un carattere ardente e generoso, egli era entrato a 12 anni nella nostra Scuola Apostolica di Brescia, donde era passato al Noviziato di Savona; da un anno si trovava tra i chierici professi della Casa Madre di Verona. A Thiene, nel nostro Istituto di S. Gaetano, dove era stato mandato coi compagni studenti per le vacanze nel passato agosto, fu colpito da quella malattia, che dopo tre mesi di crudeli sofferenze, sopportate con eroica fortezza, senza una parola di lamento, ce lo doveva inesorabilmente rapire. La Vergine Immacolata, di cui era teneramente devoto da qualche tempo lo circondava dei suoi favori più preziosi e più delicati. Noi credevamo che lo volesse preparare a quell'apostolato al quale egli anelava con tutte le fibre del suo cuore, ma invece... essi non erano che un preludio del cielo. Oh! di lassù certamente, abbiamo ferma fiducia, egli aiuterà in modo più efficace le care missioni, pregherà per noi, per i nostri benefattori, per i suoi cari, per la sua buona madre che, dopo averlo offerto generosamente a Dio per la salute dei poveri neri, ebbe la grazia di essere al suo capezzale e di compiere il suo sacrificio, raccogliendone con animo forte l'ultimo respiro. R.I.P.

LETTERA DI P.BERNABÈ DOPO LA MORTE DI FR.COVI

Wau, 19.1.1921

Signora Anna, La triste notizia mi è giunta il 6 di questo mese, non del tutto inaspettata, perché un mese prima mi si scriveva che fr. Gino era gravemente malato di tifo. Mi lusingavo però e mi lusingai invano. Egli dunque non è più quaggiù. Fu uno schianto per me che avevo ben potuto apprezzare le ottime disposizioni di quel buon figliuolo, i passi energici e costanti che egli aveva fatto sotto i miei occhi per due anni interi, fu un vero schianto, ripeto. E corsi subito col pensiero alla sua buona mamma, alla Signora Anna, che sa amare ed ama cristianamente la sua famiglia ed è santamente fiera d'aver coadiuvato la grazia di Dio a formare figliuoli per il buon Dio. Pensai a lei che pareva avesse una speciale affezione per quel Gino consacrato al Signore, al servizio di Dio nelle lontane regioni, pensai a lei e credetti capire un dolore immenso ... quel dolore però io lo ravvisai profondamente cristiano, rassegnato ai divini voleri.

            Gino non è più coi suoi compagni .... Pare così, ma io penso che egli vi sia più che mai. La sua disparizione, da quanto mi si scrive, ha lasciato un gran vuoto tra gli scolastici che ora non più trattenuti da certi riguardi, rievocano santamente commossi ed edificati l'esempio delle sue virtù. Egli vive in mezzo a loro e sorride benignamente perché giunto al porto sospirato.

            Coraggio, Signora Anna! Gino è già felice e ci aspetta là dove non vi sono più bufere. Ricordiamolo e ricordiamoci a vicenda, affinché Dio ci santifichi e ci chiami ben preparati come Gino. (P. Bernabè morì il 27.3.1922).

            Gradisca, Signora Anna, questi miei sentimenti che sono sinceri, gradisca le mie condoglianze cui prego comunicare a tuttala famiglia.

            In Corde Jesu sempre aff.mo suo P. Giuseppe Bernabè fsc

(Altra lettera di P. Bernabè)

Wau, 25.1.1922

            Egregia Signora Anna, di quando in quando ricordo il caro Gino e per conseguenza la mamma sua. L'anno scorso Ella mi chiedeva qualche fiore da quell'Africa che Gino voleva conquistare. Eccoli: giungeranno sciupati, quasi irriconoscibili, benché io li colga freschissimi; saranno pero sempre quei fiori del centro Africa.

            Dio la benedica e La conforti.

            In C.J. aff.mo P. Bernabè fsc

LETTERA DELLA SORELLA DIOMIRA DOPO LA MORTE DELLA MAMMA

Arco, 7.5.1941

Molto Rev. P. Vitti, nel nostro grande dolore sono un soave conforto le parole dei buoni, un sollievo all'animo nostro tanto triste il saper ricordata la nostra cara scomparsa da persone pie che di lei parlano al Signore. E la ringrazio di tutte le preghiere che per lei a innalzato a Dio; la cara mamma dal cielo la saprà ricompensare, lei che tanto pensava ai suoi missionari, che tanta santa ambizione provava nel dire, mostrando la fotografia del suo Gino, questo è il mio figliolo missionario. Il suo grande desiderio nella sua ultima malattia era quello di poter leggere ciò che Padre Vitti avrà scritto riguardo a Gino, ma Iddio volle anche questo ultimo sacrificio da lei; si spense senza aver potuto soddisfare il suo desiderio. Si era messa con tanto zelo e con tanta gioia a fare il suo compito, e nell'ultima lettera che scrisse a lei, volle raccogliere tutte le sue forze per scrivere lei stessa quanto ricordava: solo lei sapeva parlare di Gino, conscia che quella era l'ultima lettera che avrebbe scritto. Poi, con tutta calma, con angelica serenità, aspettava giorno per giorno la dolce chiamata del Signore. Lei sapeva di dover morire ed era lei che ci faceva coraggio, dicendoci che per lei era una gioia il morire. Ci manifestò i suoi desideri: destinò a chi dovevo dare le sue cose ed in ultimo mi disse che il crocifisso del povero Gino doveva scomparire con lei; pregata che volesse lasciarcelo come caro ricordo, rispose: "Ebbene, allora mi darete il mio piccolo". Visse otto giorni dopo l'estrema unzione e furono otto giorni di preghiere, di dolori e di pianto. Lei, sempre serena, si spense come un fiore per portare tutto il suo profumo ai piedi di quel Gesù che tanto amava. Mi si spezza il cuore rinnovando tutti questi ricordi ed ancora non posso convincermi che la mamma non ci sia più.

Diomira Zamboni-Covi

P. Leonzio Bano, Profili comboniani 1, p. 35-51