Mercoledì 17 novembre 2021
L’accordo finale della Conferenza delle Nazione Unite sui cambiamenti climatici ha lasciato a disagio tutte le parti a Glasgow. Il negoziatore americano, John Kerry, ha commentato che questo disagio è segno di un buon negoziato, in cui la voce di ciascuno è stata ascoltata ed in parte accolta. Sulla scia delle conclusioni, molti si interrogano se la COP26 sia stata un fallimento o meno. C’è un consenso sul fatto che resti molta strada da fare.

Alcuni ritengono che ci siano state comunque delle svolte importanti: l’accordo sul rivedere le ambizioni di riduzione delle emissioni ogni anno (anziché ogni cinque), per accelerare l’azione climatica; il 90% delle economie mondiali che si impegna a raggiungere il saldo zero di emissioni attorno al metà del secolo; la stop alla deforestazione nel 90% delle foreste nel mondo entro il 2030; l’aver finalmente completato, dopo 6 anni, le regole per la completa implementazione dell’accordo di Parigi; l’avallo delle istanze di riduzione dell’uso del carbone e dell’eliminazione dei sussidi per i combustibili fossili, nonché la riduzione del 30% delle emissioni di metano entro il 2030 da parte di oltre 100 Paesi. Dal punto di vista dei valori, c’è stato l’avallo del concetto di giustizia climatica e l’ammissibilità delle istanze di riparazione per le devastazioni dovute al clima (“Loss and Damage”). Per quanto riguarda il finanziamento per la mitigazione e l’adattamento alla crisi climatica, anche se gli Stati ricchi non hanno ancora onorato gli impegni presi, c’è stata la mobilitazione di ingenti capitali privati.

Altri, invece, mettono in risalto le contraddizioni contenute nel Patto per il Clima di Glasgow: la frode dei crediti di carbonio, che permetterà di continuare ad emettere gas serra anziché ridurli; il fatto che le emissioni anziché essere globalmente ridotte continueranno a crescere fino al 2030; la mancata responsabilizzazione delle grandi aziende estrattive; la mancanza di scadenze per la fine dei sussidi ai combustibili fossili e del carbone. I risultati dei negoziati non sono coerenti con le indicazioni che vengono dalla scienza del clima e della giustizia climatica. Il lento  progresso che c’è stato è ancora lontanissimo dal minimo necessario, cioè una rapida ed equa eliminazione dei combustibili fossili. E non c’è stata la necessaria solidarietà e risposta alla sofferenza delle nazioni più colpite e vulnerabili.

COP26 a Glasgow.

Ma, soprattutto, sono le questioni sui diritti umani e gli ecosistemi a preoccupare la società civile. La transizione energetica avviene spesso a spese delle comunità locali e dei popoli indigeni, che subiscono gli impatti dell’estrazione dei minerali necessari alla filiera, o perdono la loro terra e ambiente vitale per la costruzione di impianti di energie rinnovabili. E alla fine, non sono le comunità a beneficiare dell’energia prodotta, quanto piuttosto le grandi industrie o, nel caso dell’estrazione dei minerali, ancora una volta le economie del Nord globale. Più in generale, si contesta la narrativa che le nuove tecnologie offrano le soluzioni al problema climatico e che basti ampliarne l’utilizzo a grande scala per raggiungere l’obiettivo del contenimento del riscaldamento globale. Si tratta molto spesso di false soluzioni, che risolvono un aspetto del problema e ne creano altri.

Alla luce di quanto detto, si evince che la questione fondamentale dietro ai negoziati è il modello di sviluppo che si vuole seguire. Anche se governi del Nord e del Sud globale sono in competizione, rivendicando priorità diverse, in realtà sono molto spesso dalla stessa “parte”, quella del modello della crescita economica, dei profitti e degli interessi dei grandi gruppi industriali e finanziari, della perpetuazione dell’attuale forma di mercato dominante.

Ma c’è anche un’altra visione di sviluppo, rappresentata dai vari gruppi della società civile - popoli indigeni, giovani, donne, organizzazioni ambientaliste, ecc. - che propongono percorsi di sostenibilità ambientale, sociale ed economica basati sulle evidenze scientifiche e sui diritti umani, sulle conoscenze e sulla saggezza dei popoli indigeni e comunità locali, che affonda le proprie radici nella stretta connessione materiale e spirituale con il territorio e la Terra, con le sue risorse naturali. Ciò significa mettere i popoli ed il pianeta al primo posto, non i profitti.

La domanda se a Glasgow ci sia stato o meno un successo, e in che misura, trova risposte diverse a seconda del punto di vista. Dalla prospettiva del libero mercato si può certamente parlare di un successo, come conferma l’adesione entusiasta dei grandi gruppi finanziari e industriali che spingono per l’innovazione e la transizione ecologica. Ma dal punto di vista di chi sta soffrendo e scomparendo dalla faccia della Terra per il riscaldamento globale, di chi è sulla linea del fronte degli impatti ambientali, dei diritti umani e dei popoli, certamente è stata un’altra grande delusione.

Ciò nonostante, la COP rimane un imprescindibile spazio di dialogo e di incontro di prospettive diverse. É l’unico posto dove le organizzazioni di base possono incontrarsi e confrontarsi con i grandi del mondo, propugnare un’idea di sviluppo e delle pratiche veramente sostenibili. Finora sono passati soltanto alcuni principi generali e qualche suggerimento pratico, ancora poco per influenzare il sistema. Se si vuole risolvere veramente la crisi climatica, bisognerà adottare un nuovo paradigma di sviluppo.
Fr. Alberto Parise, MCCJ, a Glasgow