A cura di P. Carmelo Casile: “Un ideale di consacrazione alle missioni. Daniele Comboni maestro di vita missionaria”

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Lunedì 22 agosto 2022
“Comboni considerava i suoi missionari «uomini apostolici», le sue missionarie «donne del Vangelo», e insieme gli uni e le altre «operai evangelici». La sua consacrazione era quindi fondata su un alto senso della missione, ancorata a sua volta a un vivo senso della Chiesa. Comunque, la riflessione sull’idea di consacrazione intuita e proposta da Daniele Comboni aiuta a comprendere meglio il suo carisma di fondatore”. (
P. Carmelo Casile)

Un ideale di consacrazione alle missioni
DANIELE COMBONI
MAESTRO DI VITA MISSIONARIA

Aldo Gilli, MCCJ (+2001)

Il 17 marzo 1996 Giovanni Paolo II ha beatificato nella basilica di S. Pietro mons. Daniele Comboni; lo stesso Giovanni Paolo II lo ha canonizzato il 5 ottobre 2003. Daniele Comboni è noto come l’Apostolo della Nigrizia e fondatore dei Missionari Comboniani e delle Suore Pie Madri della Nigrizia. È un’occasione che, al di là delle celebrazioni festive, stimola i comboniani e le comboniane a rileggere e approfondire la Figura e la missione del fondatore, per coglierne meglio i valori apostolici e formativi.

È vero che un simile lavoro è stato fatto e con impegno nel rinnovamento delle Regole, che, secondo le chiare indicazioni del Concilio Valicano II, si dovevano ispirare al carisma dei fondatori, e il frutto fu raccolto in ambedue gli Istituti comboniani, in una Regola di Vita. Ma l’evento della beatificazione è un invito ad approfondire ulteriormente la spiritualità missionaria di Daniele Comboni, non solo sotto il profilo apostolico, ma in modo particolare sotto il profilo della sua santità, sulla quale si sta ora pronunciando l’autorità della Chiesa. In questa prospettiva la testimonianza apostolica dell’Apostolo della Nigrizia può oltrepassare l’ambito della famiglia comboniana e giungere benefica a vari livelli della Chiesa.

Certamente la figura di Daniele Comboni è stata studiata ampiamente sotto vari aspetti. Tuttavia non è ancora del tutto esplorata, data la sua ricca complessità. Per stare in consonanza con le finalità della rivista che ospita il presente articolo, è opportuno approfondire il tema della consacrazione missionaria, come vissuta da Comboni e lasciata in eredità ai suoi figli. Apparirà in tal modo una consacrazione missionaria intimamente legata al mistero della croce, comprendente la disponibilità al martirio, con una chiara e forte esigenza di santificazione. Questi i vari aspetti, nei quali si articola il tema, e che saranno documentati soprattutto sulla base degli Scritti del Comboni, di recente pubblicazione. Ma è necessario anzitutto premettere un suo breve profilo biografico.

Profilo biografico di Daniele Comboni

Nato a Limone sul Garda (Brescia) il 15 marzo 1831, Daniele Comboni passò ancor ragazzo a Verona, ove ricevette l’educazione spirituale presso l’Istituto del Servo di Dio don Nicola Mazza. In tale ambiente nacque la sua vocazione missionaria, che a diciassette anni maturò in un giuramento di consacrare tutta la sua vita alla redenzione dell’Africa.

Ordinato sacerdote alla fine del 1854 a Trento, si mise a disposizione della missione dell’Africa centrale, partecipando alla spedizione missionaria mazziana del 1857-1859. Colpito da gravissime febbri, fu obbligato a ritornare in Italia, ove continuò a occuparsi dell’Africa e degli africani. Nella fiducia che gli africani sarebbero diventati essi stessi protagonisti della loro salvezza, Comboni, ispirato dall’Alto mentre era in preghiera presso la tomba di san Pietro a Roma, ideò il “Piano per la rigenerazione dell’Africa” (1864), fondato sul principio: «salvare l’Africa con l’Africa».

Per iniziare l’attuazione del suo “Piano” fondò a Verona l’Istituto delle Missioni per la Nigrizia (1867), ora Missionari Comboniani, e quello delle Suore Pie Madri della Nigrizia (1872). Anche al Cairo, fin dal 1867, fondò altri Istituti per la formazione di giovani africani, per lo più riscattati dalla schiavitù, sempre in vista della missione centro-africana.

Voce profetica annunciò alla Chiesa tutta, in diversi viaggi di animazione missionaria attraverso l’Europa, che era giunta l’ora della salvezza per i popoli africani, e lo annunciò anche al concilio Vaticano I con un Postulatum (1870), che fu accolto favorevolmente dallo stesso Pio IX.

Ma il cuore di Comboni era in Africa, ove bramava ritornare per dedicarsi completamente alla rigenerazione di quelle povere popolazioni. Vi ritornò, infatti, dopo che la Santa Sede lo nominò pro-vicario apostolico dell’Africa centrale (1872). Riuscì con un piccolo drappello di missionari a far rinascere quella difficile e vasta missione, che prima di allora aveva conosciuto solo fallimenti. In riconoscimento di tali risultati, nel 1877 venne consacrato vescovo con autorità di vicario apostolico.

Riprese con rinnovato impegno il suo apostolato, spendendo per i suoi “cari africani” tutte le sue energie e battendosi con fermezza per l’abolizione della schiavitù. Stava mirando a più vasti orizzonti apostolici, quando gravi sofferenze fisiche e morali lo condussero rapidamente alla tomba, a soli cinquantanni di età, il 10 ottobre 1881 a Khartoum (Sudan).

Idea comboniana di consacrazione

Già dai brevi cenni biografici risulta che la vita di Daniele Comboni era tutta consacrata alla «rigenerazione dell’Africa», per usare una sua espressione. Si tratta tuttavia di cogliere il vero senso di tale consacrazione. Essa non è legata, come solitamente avviene, alla consacrazione religiosa, poiché né Comboni né i suoi primi missionari erano religiosi. Per cui bisogna ricercarne altrove le motivazioni spirituali. È quello che facciamo in questa analisi storica, almeno nelle sue linee essenziali, dovendo stare entro i limiti di un semplice articolo.

Comunque di vera consacrazione si tratta, con forti contenuti spirituali, come risulta frequentemente dai suoi Scritti. S’è visto che Comboni a diciassette anni emise un giuramento missionario. Come avesse inteso quel giuramento, lo dice chiaramente più tardi in una lettera al cardinal Prefetto di Propaganda: «Fu nel gennaio del 1849 che […] nell’età di 17 anni io giurai ai piedi del mio venerato Superiore D. Mazza di consacrare tutta la mia vita all’apostolato dell’Africa Centrale» (S 4.083).

Quindi quel giuramento missionario era una vera consacrazione, totalitaria. Ciò è già una chiara indicazione per i suoi primi missionari, che, essendo «senza vincolo di voti», erano tenuti però a un giuramento, da emettersi con quello spirito comboniano.

Un altro passo aiuta a comprendere in modo più approfondito il senso del suo giuramento. Scrivendo dalla missione durante la sua prima esperienza africana (1858) a un suo parente, affermava di essersi «consacrato a uno stato di vita, affatto simile a quello di Gesù e degli Apostoli» (S 442). Si coglie qui un altro elemento prezioso: cioè Comboni, parlando di vocazione o consacrazione missionaria, non si richiama generalmente alle tradizioni dei grandi ordini religiosi o alle correnti spirituali del suo tempo, ma frequentemente si rifà in modo diretto al Vangelo e agli apostoli quali fonti di ispirazione per la missione.

Per quanto riguarda il carattere totalitario della consacrazione missionaria intesa e vissuta dal Comboni, ci bastino, fra le tante, le due seguenti citazioni. La prima è contenuta in lettera al presidente dell’Opera della Propagazione della Fede di Lione, ove, esprimendo riconoscenza per sussidi ricevuti, aggiunge: «Io risponderò con la consacrazione della mia vita intera e di tutte le mie forze e di tutto il mio sangue per la conversione dell’Africa» (4.337). Perfino a Leopoldo II re del Belgio, interessato ai problemi africani, scriveva: «Per l’Africa Centrale ho votato la mia anima e il mio cuore, il mio sangue e la mia vita» (S 5.229).

Qui il termine “votato” (voué nel testo francese) è sinonimo di “consacrato”, come risulta da un passo parallelo e anche dal contesto. Per non dilungarci in altre citazioni, possiamo senz’altro dire che il famoso motto comboniano: «O Nigrizia o Morte!» sintetizza ed esprime molto bene il senso della sua consacrazione missionaria.

I missionari di Comboni vennero coinvolti dallo spirito missionario, santamente battagliero, contenuto in quel motto comboniano: «I miei missionari ed io — scriveva Comboni a una benefattrice francese — saremo perseveranti nel nostro grido di guerra: O Nigrizia o Morte!» (S 5.849).

Si trattava di perseveranza nella consacrazione missionaria. Infatti nel Regolamento, pur provvisorio, del 1869 ad appena due anni dalla fondazione dell’Istituto, dichiara i suoi missionari “consacrati” all’opera della rigenerazione dell’Africa. Più esplicitamente nelle Regole del 1871 prescrive: «Non verrà ammesso all’Istituto nessuno […] il quale non si giudichi disposto a consacrare tutto se stesso fino alla morte per l’Opera della rigenerazione della Nigrizia» (S 2.654).

Nelle Regole del 1872 — che furono quelle presentate alla Santa Sede per l’approvazione — si legge che il candidato «deve avere una volontà ferma di consacrarsi a Dio per la rigenerazione della Nigrizia fino alla morte» ( S 2.804).

Da altri testi si può ricavare qualche elemento di spiritualità che deve animare tale consacrazione missionaria: cioè il missionario deve avere «un forte sentimento di Dio» e un interesse vivo «al bene delle anime»; deve coltivare «una vita di spirito e di fede»; lo spirito di preghiera deve aprirsi alla contemplazione di Cristo morto in croce per la salvezza di tutti: ciò viene indicato in occasione del rinnovo della consacrazione. A questo proposito Comboni utilizza un testo ricavato dalle Regole dell’Istituto Missioni Estere di Milano cambiando però una parola: al posto di “dedica” pone significativamente “consacrazione”. Ecco il testo nella versione comboniana: «[I Missionari della Nigrizia] in certe circostanze di maggior fervore fanno tutti insieme in comune una formale ed esplicita consacrazione a Dio di se stessi, esibendosi ciascuno con umiltà e confidenza nella sua grazia anche al martirio» (S 2.892).

Una parola ancora sul “giuramento” che era allora l’atto formale di consacrazione missionaria. Conviene riferire qualcosa del suo contenuto con riferimento alla formula preparata per i fratelli missionari, della quale — a differenza di quella per i chierici — possediamo il testo autografo di Comboni. Ecco i punti salienti: «Io di mia propria e libera volontà mi obbligo con giuramento dinanzi a Dio di servire in perpetuo la Missione dell’Africa Centrale […] e prometto con giuramento di servirla in quei luoghi ed in quegli uffici che dall’obbedienza mi verranno destinati, senza giammai retrocedere da questo mio fermo proposito neanche in faccia alla morte…» (S 5.824).

Si noterà che in questa formula non ricorre il termine “consacrazione”, ma ne è presente il senso, con tutta la forza espressiva che troviamo nei passi precedenti, che ne parlano esplicitamente. Indubbiamente Comboni era consapevole di chiedere molto ai suoi missionari nel consacrarsi a una vita di grandi sacrifici. Ma era la missione africana a essere estremamente dura e difficile, specialmente a quel tempo. Per cui era indispensabile una dedizione a tutta prova, animata dallo spirito della croce. Così viene prospettato un altro aspetto della consacrazione comboniana.

Consacrazione e mistero della croce

È un aspetto questo, che è già presente in qualche modo in quanto detto sopra, ma che conviene approfondire per cogliere una caratteristica propria dell’idea comboniana di consacrazione. Lo spirito di sacrificio che Daniele Comboni chiedeva ai suoi missionari in una missione oltremodo difficile, era vissuto prima da lui stesso. In questa sede ci dobbiamo limitare al minimo indispensabile, rinviando per questo tema a uno studio più ampio di recente pubblicazione.

Tuttavia, per darne una sufficiente idea bastano alcuni brevi riferimenti. Ci riferiamo anzitutto a quanto Comboni scrisse dopo la prima esperienza missionaria in Africa (ove aveva rischiato più volte la vita per le febbri tropicali e dopo la fondazione dell’Istituto (1867), quando stava per riportare il suo campo di azione in terra africana: «Non risparmierò né fatiche, né viaggi, né la vita per riuscire all’impresa: io morrò coll’Africa sulle labbra; un nuvolo di croci [si] sono rovesciate sul mio capo; ma sono più animato di prima»(S 1.441).

Per cui dopo tali esperienze, qualche anno più tardi, poteva ben a ragione affermare: «La via che Dio mi ha tracciato è la croce» (S 6.519). La forza espressiva di questa frase trova spiegazione in un evento spirituale precedente, che portò Comboni a una forma di “sposalizio con la croce” e che misura la profondità della sua “consacrazione” missionaria. Era un momento, in cui alle difficoltà per l’attuazione della sua opera si erano aggiunte forti sofferenze morali per gravi calunnie accreditate (solo per un certo tempo) perfino presso il dicastero di Propaganda Fide. In tale circostanza, al card. Prefetto di Propaganda (1868) egli scriveva: «Già vedo e comprendo che la croce mi è talmente amica, e mi è sempre sì vicina, che l’ho eletta da qualche tempo per mia Sposa indivisibile ed eterna» (S 1.710).

Con tali premesse non fa stupore — anche se desta ammirazione — quanto Comboni scrisse, due anni dopo, alla serva di Dio Elisabetta Girelli: «Preghi il divin Cuore per questi tre motivi: 1º perché mi conceda una gran quantità di croci e spine da poter appena respirare, perché senza croci non si piantano opere di Dio» (2.374).

Gli altri due motivi di preghiera riguardavano le vocazioni e i sussidi per la missione; ma al primo posto si chiedevano “croci”. Bisogna riconoscere che in ciò è stato esaudito ampiamente. Bisogna anche dire che questo è un linguaggio da santi e che, nel caso nostro, una simile “consacrazione” acquista un carattere di eroicità.

Tutto il resto non è che conseguenza di tale impegno missionario di alto livello. Come quando scriveva al vescovo di Verona: «Sono troppo felice di essere onorato da Gesù con tante croci, che sono preziosi tesori della sua divina grazia» (S 1.782). O come quando più tardi, col fisico ormai minato (1879), scriveva al card. Simeoni, prefetto di Propaganda: «Benché affranto nel corpo, per la grazia del Cuore di Gesù, il mio spirito è saldo e vigoroso; e sono risoluto, come lo fui da 30 anni in poi (dal 1849), di tutto soffrire e dar mille volle la vita per la redenzione dell’Africa Centrale» (S 5.523).

È evidente in questo passo il richiamo al giuramento missionario fatto a Verona da studente e che Comboni aveva chiaramente considerato come una consacrazione. Ma viene qui richiamato in un contesto tale da costituire una forte testimonianza per i suoi missionari, che sentiva solidali con sé in uno stile molto esigente, ma necessario in quelle circostanze, di dedizione apostolica. Lo dice esplicitamente in altra lettera diretta a Propaganda Fide: «Siamo sempre disposti ai più duri patimenti, alle più ardue fatiche, e alla stessa morte, per raggiungere il grande scopo di ben consolidare queste Missioni […] e chiamare questi popoli alla Fede» (S 3.412).

Del resto il discorso sulla croce veniva fatto presente ai suoi missionari come indispensabile alla consacrazione missionaria: «È attraverso la Croce che gli umili operai dell’Africa centrale riusciranno a salvare i cento milioni di anime che contiene» (S 5.810). Giungeva ad affermare concretamente che «la prima caratteristica del missionario dell’Africa Centrale è l’amore al patire» (S 5.898).

Ma non era necessario insistere su tali richiami, poiché i missionari avevano compreso bene la lezione e soprattutto la testimonianza del maestro, che poteva attestare, dopo aver accennato alle inaudite sofferenze di quella missione: «Sono lieto che i miei missionari e suore hanno una abnegazione e spirito di sacrificio, che non ho mai veduto in nessun’altra missione, perché in nessuna parte del mondo v’è da patire come nell’Africa Centrale» (S 6.918).

Nella tradizione comboniana è sempre rimasta vivissima la memoria e l’ammirazione di Comboni “amante della croce”. Tra gli aspetti spirituali del fondatore, richiamati dalla Regola di Vita, rinnovata dopo il Concilio Vaticano II, troviamo indicato il «mistero della croce» in questi termini: «Comboni visse la sua chiamata all’insegna della Croce, affrontando le sofferenze, gli ostacoli e le incomprensioni nella convinzione che le opere di Dio devono nascere e crescere ai piedi del Calvario».

Come osservazione conclusiva si può notare, come già accennato, che Comboni non aveva voluto un Istituto a struttura religiosa, però «quelli che ne fanno parte — precisava — devono avere tutte le virtù dei religiosi e quella di essere ad ogni istante disposti alla morte per la salvezza degli africani» (S 5.964).

In altre parole la consacrazione comboniana veniva considerata comprensiva — sul piano delle virtù — ma anche superiore, a quella legata ai voti religiosi, per via di quella disponibilità, nello spirito della croce, a morire a ogni istante «per la salvezza degli africani». Il che apre la via all’argomento seguente sulla disponibilità al martirio.

Consacrazione e disponibilità al martirio

Forse a qualcuno potrà sembrare esagerato il richiamo a essere «a ogni istante disposti alla morte» per la causa missionaria. Era invece un linguaggio indubbiamente esigente, se si vuole, ma molto realistico nelle circostanze di quei tempi. Infatti, allora, per la maggior parte dei missionari che partivano per l’Africa centrale, era un viaggio di andata senza ritorno, specialmente per i violenti attacchi di febbre, che li conducevano, ancor giovani, alla tomba. Senza parlare di ciò che Comboni definiva «il lento martirio di un clima infuocato» (S 6.382). Comunque se tali circostanze circondavano quella vita missionaria di un alone di eroismo, non si trattava ancora di vero e proprio martirio.

Tuttavia risulta chiaramente che l’idea comboniana di consacrazione comprendeva, in modo esplicito, anche la disponibilità al vero martirio, cioè la disposizione a morire martiri per la fede: prospettiva tutt’altro che improbabile nella situazione di allora. Lo ricorda Comboni, dopo essere-stato denunciato per aver battezzato »dei mori già musulmani» (cosa rischiosa in zona islamica, pur senza conseguenze in quel caso): «Tutti noi saremmo troppo fortunati se i turchi ci tagliassero la testa per la fede; anzi vi siamo da tempo preparati» (S 3.222).

II che è pure una significativa testimonianza. In Daniele Comboni la disponibilità al martirio era presente in qualche modo fin da ragazzo. È accertato intatti che la vocazione missionaria nacque in lui, quando, ancora adolescente, lesse la storia dei martiri giapponesi, con desiderio di imitarli. Nelle circostanze assai difficili e dolorose del suo primo viaggio missionario in Africa centrale, aveva scritto ai genitori: «lo sono martire per l’amore delle anime le più abbandonate» (S 222). Non erano semplici parole. Il suo pensiero missionario infatti si ricollegava al fatto che la storia della Chiesa e specialmente la storia delle missioni era stata segnata spesso dal sangue dei martiri. Eccone due chiari riferimenti: «È coi sudori e col martirio che fu fondata la Chiesa»( S 5.444). E ancora più esplicitamente: «La Chiesa cattolica è fondata sul sangue dei Martiri ed è per il martirio che le Missioni prosperano» (S 5.692).

Dopo tali premesse, non desta più stupore — semmai ammirazione — cogliere sotto la penna di Comboni frasi come le seguenti: «È per salvare la mia anima e per rendere dei veri servizi alla Chiesa che ho tanto sofferto e che sono disposto al martirio» (S 4.475). E altrove: «Per Cristo è poco il sacrificio, il martirio» (S 6.664). Giungeva perfino ad affermare: «Oh! quale felicità soffrire e patire il martirio per Gesù» (S 5.809).

Anche in questa prospettiva Comboni si sentiva sicuro di poter coinvolgere i propri missionari, se scriveva: «Noi siamo disposti a morire martiri per la fede […] ma con quella prudenza e magnanimità, che si addice ai veri apostoli e martiri di Gesù Cristo» (S 2.510).

Naturalmente Comboni era ben consapevole che la disponibilità al martirio non era una norma da stabilire per regola ai suoi missionari, poiché era soprattutto dono della grazia di Dio. Ma era pure convinto che tale grazia poteva essere preparala dalla serietà con cui veniva vissuta la propria consacrazione, in un clima di intensa vita inferiore. Si è già visto, infatti, che era in un clima di preghiera contemplativa che il rinnovo della consacrazione missionaria veniva suggerito per poter esibirsi con la grazia del Signore «anche al martirio».

È interessante rilevare un altro passo, contenuto nel medesimo testo — che è quello delle Regole del 1871 — in cui si legge: «Quando il Missionario della Nigrizia ha caldo il cuore di puro amore di Dio [ed è animato da viva fede] i più duri travagli diventano al suo cuore un paradiso in terra, e la morte stessa, e il più crudo martirio è il più caro e desiderato premio ai suoi sacrifici» (S 2.705).

Il card. Simeoni (1879) in una udienza — in cui Comboni gli aveva presentato alcune sue suore, in partenza per l’Africa, come disposte a qualsiasi sacrificio — riconobbe che «la Missione dell’Africa centrale è la missione più scabrosa e difficile della Chiesa cattolica, e degna dei veri martiri della Fede» (S 5.744).

Comboni poteva dirlo con più forte ragione: «Per l’Africa Centrale occorrono dei martiri» (S 5.987). Ma soprattutto aveva capito che era un problema di formazione. Scrivendo infatti dall’Africa al rettore dell’Istituto di Verona, responsabile della formazione dei candidati, diceva di loro: «Bisogna accenderli di carità, che abbia la sua sorgente da Dio, e dall’amore di Cristo, e quando si ama davvero Cristo, allora sono dolcezze le privazioni, i patimenti, il martirio» (S 6.656).

Questa forte testimonianza comboniana è stata conservata fino a noi. Tanto è vero che l’ultimo Capitolo Generale del 1991 si è richiamato alla «esperienza martiriale di Comboni», per ricordare che essa «è stata vissuta da molti confratelli nella storia dell’Istituto, e vive pure oggi». Era chiaro il riferimento a quella ventina di comboniani uccisi negli ultimi decenni in terra di missione.

Consacrazione e santità

Già quanto detto sopra contiene un evidente, anche se implicito, richiamo alla santità. Ma gli scritti di Comboni contengono richiami anche espliciti e convincenti. Così anticipava ciò che Giovanni Paolo II insegna nella enciclica Redemptoris missio: «Ogni missionario è autenticamente tale solo se si impegna nella via della santità. […] La spiritualità missionaria della Chiesa è un cammino verso la santità» (RMi 90).

La convinzione che la santità è necessaria al missionario, Comboni la derivava dal fatto che la «rigenerazione dell’Africa», che si sentiva chiamalo a realizzare nella Chiesa, era da lui considerata «tutta opera di Dio». Quindi, come logica conseguenza la chiamava: «Opera santa», che comporta un «santo apostolato» da compiersi perciò in una «santa missione». Tale egli considerava la propria vocazione, in un passo che si ricollegava alla sua consacrazione iniziale, per ricordare, nelle ultime settimane di vita, che nonostante tutte le difficoltà e sofferenze, era sempre stato «fedele alla sua vocazione ardua, difficile e santa» (S 6.814).

Da quella convinzione sorgeva l’invito alla santità, rivolto non solo ai suoi missionari, ma anche ad altri. Come per esempio, così scriveva alla serva di Dio Elisabetta Girelli: «È necessario correre a gran passi nelle vie di Dio e nella santità, per non arrestarsi che in paradiso» (S 2.375).

È chiaro che in questo cammino, senza arresti, verso la santità si sentiva anzitutto egli stesso impegnato. Come pure desiderava che vi fossero impegnati i suoi missionari. Chiedeva preghiere a questo scopo, come risulta da una lettera ad Alfonso Maria Ratisbonne: «La supplico di pregare il Signore che conceda all’apostolato dell’Africa centrale dei santi e zelanti operai evangelici» (S 2.007).

Invitava anche i suoi missionari a pregare «affinché ci facciamo santi salvando la Nigrizia» (S 5976). Era pure la sua preghiera, che diveniva augurio per l’avvenire della missione: «Che Dio susciti dal seno della Chiesa dei fervidi e santi operai evangelici e delle generose e Pie Suore della carità Madri della Nigrizia»(S 6.409). Le Pie Madri della Nigrizia, scrisse in altra occasione, erano «quelle suore che io ho fondato per farle sante» (S 6.983). 

Ma anche la santità apostolica era anzitutto un problema di formazione dei giovani candidati. Comboni lo richiamò più volte al suo rettore di Verona, scrivendo dalla missione. Lo fece anche con delicatezza, dandogli atto e credito per il suo impegno formativo: «Quanto all’educazione religiosa ella continui come ha fatto sinora, e come intende di fare, perché io conosco bene e profondamente il suo spirito, e il suo intendimento: santi e capaci» (S 6.655).

II movimento ultimo del suo pensiero, anche nel contesto, era la santità negli alunni, accanto alla capacità, necessaria per la missione. Richiamò successivamente quel pensiero in modo più forte, avvertendo tutta la propria responsabilità di fondatore. Dopo un richiamo al medesimo rettore, quasi scusandosi per tale richiamo, aggiunse: «Ma son Capo e Fondatore dell’opera più difficile di apostolato, che deve formare dei santi e delle sante per convertire l’Africa: e lo strumento primo per formare questi, Dio ha voluto che fosse Lei» (S 6.877).

Per completare l’argomento vale la pena riportare un ultimo passo, che, essendo stato scritto a meno di due mesi dalla sua morte, ha anche valore di testamento spirituale. Di ritorno da un penosissimo viaggio attraverso la savana africana, scriveva, ancora al rettore dell’Istituto: «Noi lavorammo per Dio; lasciamo a lui la cura di tutto, ed Iddio ci aiuterà. La nostra opera è basata sulla fede. È un linguaggio che lo intendono poco anche tra i buoni sulla terra. Ma l’hanno compreso i Santi, che soli noi dobbiamo imitare» (S 6.933).

Solo i santi sono dunque da imitare per essere veri apostoli di Cristo. Un lascito che il fondatore e Padre dona ai missionari comboniani di ogni tempo, con profondo rispetto per quello che Daniele Comboni chiamava «santo e sublime apostolato dell’Africa».

Conclusione

Dopo aver presentato l’ideale comboniano di consacrazione, non resterebbe altro da aggiungere a ciò che lo stesso Comboni ha detto in modo così chiaro e anche avvincente. Si potrebbe forse tentarne una spiegazione conclusiva in rapporto al suo carisma. È stato accennato all’inizio, che la sua idea di consacrazione non era legata alla professione religiosa, anche se in concreto ne risulta più ricca, né si ricollegava a particolari correnti spirituali. Vediamo però, nel complesso dei suoi scritti, che si richiama sovente alla storia della Chiesa e in special modo, delle missioni, privilegiando l’esemplarità dei santi missionari, come san Francesco Saverio, san Pietro Claver, e anzitutto l’apostolo delle genti san Paolo.

È già questa una buona indicazione per trovare proprio nel senso della “missione” il vero valore della sua idea di consacrazione. Cioè Comboni, come andando a ritroso nella storia della Chiesa e della missione — specialmente nelle fasi mattinali — trova l’ispirazione nella Chiesa degli apostoli, anzi nello stesso Vangelo, di cui cita spesso i contenuti missionari. Per questo considerava i suoi missionari «uomini apostolici», le sue missionarie «donne del Vangelo», e insieme gli uni e le altre «operai evangelici». La sua consacrazione era quindi fondata su un alto senso della missione, ancorata a sua volta a un vivo senso della Chiesa.

Comunque, la riflessione sull’idea di consacrazione intuita e proposta da Daniele Comboni aiuta a comprendere meglio il suo carisma di fondatore.

A cura di P. Carmelo Casile
Casavatore, luglio 2022

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