Venerdì 26 settembre 2025
L’Africa rimane al centro delle più gravi crisi alimentari del pianeta. Secondo il Global Report on Food Crises 2025 (Grfc), pubblicato annualmente dalla Food Security Information Network (Fsin) in collaborazione con altre organizzazioni partner, tra cui la Fao e il World Food Programme (Wfp), oltre la metà delle persone che soffrono di insicurezza alimentare acuta nel mondo vive in Paesi africani (circa 300 milioni). [P. Giulio Albanese]
Il continente è oggi il simbolo di come conflitti armati, shock economici e cambiamenti climatici si intreccino, generando un circolo vizioso che minaccia milioni di vite. Come ha scritto nella prefazione del rapporto, António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite: «Il messaggio è chiaro. La fame e la malnutrizione si stanno diffondendo più velocemente della nostra capacità di risposta, eppure a livello globale un terzo di tutto il cibo prodotto viene perso o sprecato».
Per comprendere meglio i livelli di gravità è utile seguire le classificazioni IPC-CH (Integrated Food Security Phase Classification), uno strumento utilizzato per valutare e classificare le condizioni di insicurezza alimentare a lungo termine in diverse regioni. La “CH” indica la componente specifica dedicata all’insicurezza alimentare cronica, con fasi da 1 a cinque, la più grave. Tali classificazioni vengono usate in tutti i grandi rapporti, incluso il Grfc. Le aree più colpite dal flagello della fame sono il Sudan, Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Etiopia, Nigeria e Mali. Molti di questi Paesi sono interessati da conflitti armati o attraversano crisi di governance, e quindi incapaci di garantire servizi essenziali.
Ma andiamo per ordine. Il Sudan rappresenta l’epicentro della tragedia: il conflitto esploso nell’aprile 2023 ha spinto oltre metà della popolazione in uno stato di grave insicurezza alimentare, con milioni di sfollati interni. I numeri parlano chiaro: 24,6 milioni di persone che affrontano livelli elevati di insicurezza alimentare acuta. Non solo. Vi sono alcune aree come il campo di Zamzam dove è stata confermata lo stato di carestia acuta (“famine”). Nel complesso sono 755.300 le persone stimate in fase 5 dalla IPC-CH, vale a dire in condizione catastrofica.
Il Sudan è parte dello scacchiere dell’Africa orientale che trova la sua rappresentazione geopolitica nell’Intergovernmental Authority on Development (Igad), o Autorità intergovernativa per lo sviluppo, un’organizzazione regionale dell’Africa orientale che riunisce Paesi del Corno d’Africa e dintorni per promuovere la cooperazione economica e lo sviluppo, la pace e la sicurezza, e la protezione ambientale. Nei sei Paesi membri di Igad (Gibuti, Kenya, Somalia, Sudan, Sud Sudan, Uganda) si stima che mediamente 42 milioni di persone debbano affrontare livelli elevati di insicurezza alimentare acuta (IPC-CH fase 3+) nel 2025. In questi stessi Paesi, il trend è quello di un raddoppio/triplicazione del numero di persone in situazione di crisi rispetto al 2016: da 13,9 milioni nel 2016 a 41,7 milioni nel 2025.
Le cose non vanno meglio sui versanti dell’Africa centrale e meridionale. In queste due macroregioni sono 56 milioni le persone (pari a circa il 25 per cento della popolazione analizzata in 12 Paesi con crisi alimentari) che hanno affrontato livelli acuti di insicurezza alimentare elevata nel 2024. In particolare, nella Repubblica Democratica del Congo, il numero di coloro che sono interessati dall’insicurezza alimentare acuta grave ha raggiunto i 28 milioni, con 3,9 milioni in fase 4 (“emergenza” di fame) e il resto in fase 3 (“crisi”). La regione orientale (province come Ituri, Nord Kivu, Sud Kivu) è particolarmente critica: conflitti armati, sfollamento su grande scala, aumento dei prezzi degli alimenti di base.
Lo scenario non è poi affatto rassicurante nell’Africa centrale (Mali, Burkina Faso e Niger) dove lo scorso anno, oltre 17 milioni di persone hanno affrontato insicurezza alimentare acuta (IPC/CH fase 3 o superiore). In alcune aree del Burkina Faso e del Mali interessate dalla conflittualità tra formazioni jihadiste, mercenari russi e forze governative, la popolazione si trova a rischio di fase 5 (catastrofe), ovvero fame estrema: mancanza quasi totale di cibo e aumento della mortalità.
Alla luce di queste evidenze, si comprende facilmente che la situazione africana è in deterioramento: l’insicurezza alimentare acuta non solo è elevata in termini numerici, ma sta peggiorando in termini di gravità (più aree in fasi 4 e 5). Agire richiede non solo una risposta umanitaria immediata (cibo, nutrizione terapeutica, assistenza sanitaria), ma anche interventi a medio-lungo termine: restaurare la pace e la sicurezza, stabilizzare le economie, ripristinare le produzioni agricole, migliorare le infrastrutture e la resilienza climatica.
A questo punto, considerando che oltre la metà delle persone che soffrono insicurezza alimentare acuta nel mondo vive in Africa, con punte drammatiche, come abbiamo visto, in Sudan, i Paesi ad alto reddito hanno una duplice responsabilità: diretta e indiretta. Non solo come principali finanziatori della risposta umanitaria e dello sviluppo sostenibile, ma anche come attori chiave nei processi che contribuiscono a generare o aggravare le vulnerabilità africane. L’articolo 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (1966) riconosce il diritto universale ad un’alimentazione adeguata e richiama la cooperazione internazionale come mezzo per garantire tale diritto. Ciò implica un dovere dei Paesi sviluppati di sostenere quelli più fragili, non solo in termini di assistenza umanitaria, ma anche attraverso politiche che non ostacolino l’accesso al cibo.
Un ulteriore livello di responsabilità deriva dall’impatto storico e attuale dei Paesi ricchi sul cambiamento climatico. L’Africa è responsabile di meno del 4 per cento delle emissioni globali di gas serra, ma è la regione più colpita da eventi climatici estremi che devastano agricoltura e mezzi di sussistenza (rapporto 2023 dell’Ipcc, l’acronimo in inglese del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici). Le nazioni industrializzate, responsabili della maggior parte delle emissioni cumulative, hanno quindi un obbligo etico e politico nel sostenere finanziariamente l’adattamento climatico nel continente. Gli impegni di assistenza pubblica allo sviluppo fissati in sede Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, prevedono che i Paesi ad alto reddito destinino lo 0,7 per cento del reddito nazionale lordo all’aiuto internazionale. Tuttavia, pochi Stati rispettano questa soglia. Nel 2023, la media dei Paesi del Dac, che della stessa Ocse è il comitato per l’aiuto allo sviluppo, si attestava intorno allo 0,36 per cento (2024). Inoltre, come se non bastasse, la quota effettivamente destinata a sicurezza alimentare e nutrizione è in calo. Secondo il Grfc 2025, i finanziamenti umanitari destinati a questo settore sono diminuiti del 17 per cento tra il 2022 e il 2023, nonostante l’aumento del numero di persone in stato di crisi alimentare (Fsin, 2025).
Oltre alla dimensione finanziaria, le politiche agricole e commerciali dei Paesi ricchi hanno un impatto rilevante sulla sicurezza alimentare africana. I sussidi agricoli in quelli dell’Unione europea (Ue) e degli Stati Uniti, ad esempio, distorcono i prezzi globali, rendendo difficile per i piccoli produttori africani competere sul mercato internazionale. Inoltre, le restrizioni alle esportazioni introdotte in situazioni di crisi globale (come durante la pandemia di covid-19 o la guerra in Ucraina) hanno contribuito ad aumentare i prezzi dei beni alimentari di base, colpendo in modo sproporzionato i Paesi importatori netti dell’Africa subsahariana.
La fame in Africa non è dunque un fenomeno isolato né esclusivamente imputabile a dinamiche interne. È il risultato di un intreccio di fattori locali e globali, nei quali i paesi ricchi hanno una responsabilità significativa. Dal punto di vista morale, politico ed economico, i governi ad alto reddito hanno il dovere di aumentare il loro impegno, come peraltro auspicato in più circostanze dai Pontefici che si sono susseguiti nel governo della Chiesa in questi ultimi sessant’anni. Non farlo significherebbe non solo ignorare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, ma anche perpetuare un sistema di disuguaglianze globali che contribuisce a mantenere milioni di persone in condizioni di fame cronica e insicurezza.
Di questi tempi, la scelta di investire massicciamente in armamenti da parte dei grandi player internazionali riflette priorità geopolitiche (sicurezza dei confini, deterrenza militare), ma mostra uno squilibrio evidente rispetto agli impegni assunti sull’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, in particolare l’Obiettivo 2: Zero Hunger (zero fame). In particolare, il comportamento europeo, soprattutto a seguito della crisi russo-ucraina, appare contraddittorio: da un lato, l’Ue si presenta come leader globale nella lotta contro la povertà e la fame; dall’altro, i suoi bilanci mostrano una sproporzione evidente tra spesa per armamenti e risorse effettivamente destinate a combattere le cause strutturali della fame in Africa. Questa discrasia può essere interpretata come una manifestazione di quella che alcuni studiosi definiscono “securitizzazione selettiva”: i Paesi ricchi investono massicciamente nella propria sicurezza militare, ma trascurano la sicurezza alimentare globale, che è altrettanto centrale per la stabilità internazionale.
P. Giulio Albanese – L’Osservatore Romano