Gli autoritarismi elettorali in Africa – La grammatica del potere

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Sabato 8 novembre 2025
In Africa le elezioni, presentate come strumenti di legittimazione popolare, finiscono troppo spesso, in modo ancora più evidente che altrove nel mondo, per riprodurre le stesse architetture di potere che dichiarano di voler superare. [Padre Giulio Albanese, mccj – L’Osservatore Romano]

In molte capitali, dal Golfo di Guinea all’Oceano Indiano, il voto si è trasformato in un rituale di consenso più che in un’occasione di competizione: i leader consolidati vengono regolarmente riconfermati con percentuali schiaccianti, mentre un’opposizione divisa o marginalizzata fatica a proporsi come alternativa reale.

La premessa a tale situazione è chiara. La geopolitica africana è tradizionalmente segnata da numerose debolezze strutturali che ne ostacolano sviluppo e vera stabilità. Tra le fragilità principali c’è la persistente dipendenza economica dalle potenze straniere, che spesso sfruttano le risorse naturali del continente senza promuovere una crescita locale realmente sostenibile. Le ingerenze esterne — di attori sia globali sia regionali — contribuiscono a destabilizzare il quadro, accentuando le divisioni e limitando l’autonomia decisionale dei Paesi africani. La debolezza delle istituzioni statali, la corruzione diffusa e la mancanza di una governance trasparente minano ulteriormente la capacità dei governi di affrontare le sfide interne e di esercitare un peso politico effettivo sul piano internazionale.

Ecco alcuni esempi recenti. In Costa d’Avorio, la rielezione di Alassane Ouattara con quasi il 90 per cento dei voti ha rappresentato un esercizio di controllo istituzionale più che un momento di partecipazione democratica. Il governo ha celebrato il risultato come segno di maturità nazionale dopo gli anni della guerra civile, ma l’esclusione di figure centrali come Laurent Gbagbo e Guillaume Soro, insieme agli scontri che hanno causato 11 morti, ha rivelato la persistenza di un potere fondato su consenso gestito e opposizione neutralizzata. Il linguaggio della democrazia, qui come altrove, diventa uno strumento di diplomazia esterna più che di coesione interna.

In Camerun, Paul Biya — al potere dal 1982 — è stato riconfermato per l’ottava volta. A 92 anni, incarna la forma estrema di continuità politica: quella di uno Stato in cui il potere si è istituzionalizzato intorno a un solo uomo. Il voto, dichiarato regolare, è stato in realtà segnato da irregolarità sistemiche e da un controllo capillare dei media. Le proteste successive sono state represse con fermezza, mentre nelle regioni anglofone il conflitto armato continua a consumarsi lontano dai riflettori, erodendo la coesione nazionale e mostrando l’incapacità del governo di affrontare la diversità interna con strumenti politici. La democrazia camerunese, come molte sue omologhe regionali, è ormai ridotta a una facciata di legalità costituzionale che maschera la progressiva erosione del pluralismo.

La Tanzania, guidata da Samia Suluhu Hassan, è uno dei casi più complessi. La presidente ha consolidato la propria autorità in un contesto di progressivo restringimento dello spazio civico, ma gode al contempo di un crescente sostegno esterno, in particolare dalle petromonarchie del Golfo, che vedono nel governo di Dodoma un interlocutore stabile e affidabile nella regione dei Grandi Laghi e lungo la costa dell’Oceano Indiano. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e, in misura minore, il Qatar hanno intensificato negli ultimi anni i flussi d’investimento verso la Tanzania, puntando su infrastrutture energetiche, logistica portuale e cooperazione religiosa (islamizzazione). Presentato come partenariato economico e spirituale, ciò ha avuto anche l’effetto politico di consolidare l’immagine internazionale di Hassan come garante di stabilità, rafforzandone al tempo stesso la posizione interna. A tutto questo occorre aggiungere il ruolo della Cina che da anni intrattiene proficue relazioni commerciali con il Paese africano. Purtroppo, l’esclusione del partito d’opposizione Chadema, la detenzione del suo leader Tundu Lissu e i blocchi digitali durante le elezioni hanno fatto da contrappunto a una democrazia procedurale come strumento di gestione, non di alternanza. Sta di fatto che la commissione elettorale della Tanzania alla fine ha dichiarato Samia Suluhu Hassan vincitrice delle presidenziali 2025 con quasi il 98 per cento dei voti, in una corsa che comunque è stata segnata da violenze poliziesche, squalifica delle opposizioni, accuse di brogli e almeno 700 morti.

Questa dinamica mette in luce il nodo cruciale della convergenza tra interessi interni ed esterni nella costruzione di regimi di stabilità controllata. Le leadership locali, sostenute da partner internazionali interessati più all’affidabilità che al pluralismo, riescono a presentare l’autoritarismo come forma di ordine necessario. Unione Europea, Cina, Russia, Turchia e più di recente i Paesi del Golfo accettano questo compromesso: in cambio di sicurezza, accesso alle risorse e cooperazione economica e chiudono gli occhi di fronte al progressivo svuotamento delle libertà politiche e al peggioramento delle condizioni sociali ad esse connesse.

Ne nasce un modello ibrido che alcuni analisti definiscono “autoritarismo competitivo” o, con maggiore realismo, “autoritarismo elettorale”: un sistema che conserva l’apparenza della democrazia — elezioni regolari, parlamenti attivi, retorica della trasparenza — ma ne svuota la sostanza. In Africa soprattutto, ma non solo, le istituzioni di garanzia diventano strumenti di controllo, e la partecipazione popolare si riduce a un rituale di legittimazione periodica dell’esistente. Questo modello, lungi dall’essere un’anomalia, tende a consolidarsi come paradigma africano del XXI secolo: adattabile e resiliente, capace di integrare la critica al proprio interno, neutralizzandola.

Sul piano internazionale, questa tensione si intreccia con la crescente competizione tra potenze globali per il controllo delle risorse e delle rotte commerciali. L’Africa, in particolare la sua fascia orientale, è divenuta un nodo strategico delle nuove geografie del potere globale: i porti tanzaniani e mozambicani, i giacimenti di gas e i corridoi infrastrutturali verso l’oceano sono oggi al centro di una contesa silenziosa che coinvolge capitali asiatici, mediorientali e occidentali. In tale scenario, le leadership locali giocano abilmente su più tavoli, alternando alleanze e neutralità apparenti per massimizzare la propria autonomia. Ma questa diplomazia dell’equilibrio, se da un lato rafforza la sovranità economica, dall’altro indebolisce la pressione interna per la democratizzazione.

Le elezioni in Costa d’Avorio, Camerun e Tanzania raccontano dunque nel loro insieme una verità più ampia: la democrazia africana è un processo incompiuto, sospeso tra forma e sostanza, tra la promessa di partecipazione e la realtà del controllo. È una democrazia che parla un linguaggio formale, ma risponde alle logiche di potere locali e regionali, dove il consenso si costruisce più attraverso la gestione delle risorse che attraverso la rappresentanza.

Eppure, sotto la crosta di questa apparente ingessatura, la società civile si muove in direzione opposta e si intravede un’altra Africa: quella dei giovani, delle donne, delle diaspore e dei movimenti civici (Chiese cristiane in primis) che stanno ridefinendo i contorni stessi della cittadinanza. In una popolazione che per oltre il 60 per cento ha meno di 25 anni, la diffusione dei social media ha generato un nuovo spazio politico informale. Le generazioni nate dopo la Guerra Fredda, armate di smartphone e consapevolezza, non si riconoscono nei miti dell’indipendenza e in élite postcoloniali e reclamano forme di rappresentanza più immediate e orizzontali. Per esse, la democrazia non è un valore astratto, ma una condizione materiale per la dignità sociale. La frustrazione per l’inefficienza amministrativa, la corruzione e l’esclusione economica alimenta movimenti spontanei, reti di attivismo digitale e campagne transnazionali che sfidano l’ordine costituito. Quando il voto è percepito come sterile, l’arena virtuale diventa il vero spazio della politica.

Se questa energia diffusa troverà canali politici efficaci, il continente potrà finalmente trasformare il voto da rituale di conferma in strumento di rinnovamento. Solo allora il linguaggio della democrazia potrà riconciliarsi con la sua sostanza e restituire alla politica africana la funzione originaria che le compete: dare forma alla volontà collettiva, non perpetuare il potere.

Padre Giulio Albanese, mccj – L’Osservatore Romano